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GJITONIA, SECONDO LA DIPLOMATICA DI UN PAESE ARBËR (gjitonia, te krietë i katundëtë arbër)

Posted on 09 novembre 2022 by admin

LETTERA AD UN AMICO_oNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – E’ stato detto che vi sono due storie dei trascorsi che abbracciano l’intero mediterraneo e per questo anche tutte le minoranze storiche:

  • la ufficiale, menzognera, che ci viene insegnate e largamente diffusa secondo ordini e gradi prestabiliti;
  • la segreta, dove giacciono le vere cause degli avvenimenti, una storia spesso vergognosa che non può affrontare la luce del sole;

a noi studiosi il compito di rendere nota quale sia la vera storia e cosa è menzogna, senza arricchire il riferito con il contributo di eroi e nascondere le macchie in sangue di quanti per aver creduto in una missione sono presentati come comprimari di secondo ordine.

Gli elementi sono molteplici e si presentano in diversa caratura, ma il teorema più elevato, privo dei più elementari fondamenti di cose riferibili agli Arbër, depone la Gjitonia, nello stesso nido sociale degli indigeni, considerandola simile, uguale o equipollente al Vicinato, assegnando così al componimento di thema, il ruolo fondamentale dell’approssimazione, oltremodo priva di senso, sminuendo, così tutte le altre di simile radice.

A tal proposito, si ritiene sia giunto il tempo di rimuovere, quanto svoltosi o accaduto nel 1999, quando fatta la legge per le minoranze storiche d’Italia, gli Arbër dovettero allestire, in tutta fretta, l’inadatto teorema, copiando nei temi Olivettiani e accedere con poca fatica, tra gli eletti della 482.

Trovandosi, i su citati operatori culturali, impreparati ad apparire con forza, inventarono cosa fosse, caratteristica e caratterizzante la minoranza, quest’ultima  per una mancanza legislativa, non difende neanche gli Arbër, la storica minoranza, ma forse, quanti approdarono a Bari l’8 Agosto del 1991, questo chiaramente non è vero, ma leggendo gli articoli di legge, di Albanese tratta e non di Albanofoni o Arbër.

In oltre i cultori dell’epoca, ignari di ogni cosa, invece di illuminare le eccellenze Arbër/n che la storia teneva in bacheca, pronte ad essere esposte, pensarono di legare tutto al circoscritto idiomatico, ancor oggi incompreso, a cui legare le cose con spago di canapa richiamando la:  Gjitonia, senza mai  parlarne in senso unitario, riversando tutto nell’Albanese moderno che da ora i avanti intorbidirà ogni cosa.

Certo che non era un buon biglietto da visita, vedere la legge a pieno regime e sentirsi ripetere il ritornello: “la Gjitonia come il Vicinato”, o i borghi Arbër, quando nessuno di questi così descritto e riportato sia mai appartenuto alle cose degli Arbër.

Il dato forviante ha piegato i cultori di ieri e di oggi, a tal proposito, l’auspicio vuole che quelli di domani, abbiano nel loro scrigno culturale, elementi sufficienti a comprendere la storica differenza e correggere ogni cosa, vocabolari di area compresi, oltremodo compilati all’incontrario, per una  vasta platea ancora analfabeta.

Ad iniziare da oggi a trattare le cose, come sancito anche dall’articolo nove della Costituzione Italiana, che ancora non fa parte degli articoli della 482, riferisce della tutela e valorizzazione delle cose e dei beni materiali e immateriali di una ben identificato territorio o macroarea minoritaria, come utilizzava fare A. Olivetti, con i suoi gruppi di lavoro multidisciplinari, ancora ignoti a molti operatori e amministratori moderni se non per copiare “vicinato” dalla profess. Lidia De Rita  .

Avere un numero ampio di esperti, che studiano e intrecciano dati storici, con il vissuto e i segni del territorio, in tutto, ricerche i campo Geologico, Ambientale, Sociale, della Psiche, Antropologico, Architettonico.

In altre parole il rapporto di convivenza a lungo termine tra Uomo, Natura e le trasformazioni relative al “tema ambientale ad opera dell’uomo”, capace di fornire le certezze sino ad oggi accantonate.

Per iniziare il discorso di tema, è bene precisare che la gjitonia è anche insieme di gruppi familiari allargati, in evoluzione mnemonica di radice, il termine definisce gruppi molto radicati a un ben identificato territorio, che si usa definire parallelo, ma che non gode di diritti, ne prerogative che spettano a quelli di istituzione locale,  infatti gli unici diritti a loro affidati sono la dirigenza di un ristretto ambito in forma di cose sociali e associative, per dare al luogo movimento, secondo i riti di credenza e consuetudini di confronto con il territorio.

I Katundë arbër (villaggio, paese, contrada, frazione, vico casto) possono essere riassunti come una tessitura urbana identificabile nel rione romano, dal punto di vista della direzione espansivo, mentre per quanto riguarda le architetture e gli aspetti sociali attingeva della radice greca del vicolo.

La differente mentalità nel modo di insediarsi, diversamente dagli indigeni, non sempre, dagli storici è stata intercettata con successo, infatti, comunemente si confonde il modello sociale di mutuo soccorso generico, “il Vicinato” con quelli dei cinque sensi e di ricerca dell’antico ceppo familiare arbër, detto “la Gjitonia”; oltremodo ritenendoli identiche, equipollenti o addirittura simili, quanto questo dato non ha alcuna fondatezza o lascito in tal senso, confonde le cose della storia, il sociale e di credenza.

I Vicinato e la Gjitonia, sono due modelli sociali ben distanti e pur se coabitando ambiti mediterranei sono diametralmente opposti:

  • Il Vicinato, genericamente interessa la fascia mediterranea che da Est a Ovest comprende l’Abruzzo sino alla punta più a sud della Sicilia; coinvolgendo tutte le popolazioni della Grecia più ad Est, sino alla punta più estrema della penisola Iberica; unendo in questo ambito individui di radice multi locale, in cooperazione sociale genericamente sotto il controllo del “commarato del semplice mutuo soccorso”.
  • La Gjitonia è composta da gruppi familiari allargati, che s’insediano nelle stesse aree, secondo precise e storiche disposizioni; macchina sociale precostituita, in cui ogni elemento o gruppi di elementi assumono uno specifico ruolo, secondo capacita e forza di corpo e d’animo, i cui diritti e doveri sono finalizzati per la sostenibilità dei gjitoni, in armonia e nel pieno rispetto del territorio.

Va in oltre precisato che la Gjitonia non ha confini fisici in quanto trova ragione in spazi ideali che come cerchi concentrici partono dal fuoco domestico della regina della casa,  si espandono in ogni dove e genera l’armonico sentimento dei cinque sensi condivisi, secondo note armonie di cose.

Il valore spaziale dell’identità Arbër  si contrappongono ai nuclei urbani degli indigeni, questi pur se apparentemente simili, mostrano una sostanziale differenza, distinguendo quanti s’insediarono in fuga dalle terre d’oltremare e chi già in quelle terre dimorava.

Per questo i Katundë arbër, denotano le vicende di un periodo medio breve di confronto e scontro, con gli indigeni locali; solo dopo aver tracciato con senso, i valori, le cose materiali e immateriali secondo il proprio identificativo di genio, iniziarono a edificare le prime i primi abituri in forma estrattiva e poi additiva, con il senso di legarli alla terra di origine e di quanto innestato nei trascorsi storici di luogo.

All’inizio forme elementari e modeste, ben disegnate e definite in cui gli elementi fondanti erano: il recinto, la casa e l’orto botanico, un micro ambito circoscritto idoneo a soddisfare le esigenze dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici, da lavoro e trasporto.

Sono gli stessi ambiti abitati dagli arbër, pur se in apparenza possono apparire simili alle trame urbane degli indigeni, specie quelli costruiti dalla fine del XV secolo alla meta del XVI, per lo sviluppo delle aree agricole del meridione.

Tuttavia nella sostanza, i Katundë in elevati e tacciati Arbër, hanno finalità ben diverse, in quanto, dovevano rispondere a esigenze consuetudinarie “parallele importate dalla terra di origine”, a est del fiume Adriatico sin dove sfocia nello Jonio.

La caratteristica che contraddistingue gli agglomerati apparentemente disordinati, è racchiusa nella toponomastica e nell’aggregazione del modulo abitativo di base, che si articola lungo lingue di terra ben identificate secondo sistemi, prima articolati e poi in seguito lineari.

Quattro sono gli elementi toponomastici storici dei centri antichi Arbër: gli ambiti del credo, ovvero, la chiesa Greco Bizantina (Kishia); Il promontorio o luogo di osservazione (Bregu);  l’ambito circoscritto di primo insediamento Piazzetta (Sheshi); gli spazi delle attività ed espansione (Katundë).

Sono sempre quattro i toponomi ricorrenti in tutti agli odierni “centri antichi”, l’identico sistema urbanistico aperto, adottato sin anche nelle terre di origine balcaniche.

A tal proposito, l’insieme d’identificazione detta anche dei cinque sensi, ovvero gjitonia, rappresentava anche la linea oltre la quale ci si poteva contrarre matrimoni, estendendo  il perimetro diffuso, si sino a tutto il contesto territoriale dove vivevano gli arbër.

I due confini, confini, minimo e massimo sono stati in vigore sino agli inizi del secolo XVIII, quando la conseguente mutazione della “famiglia allargata”, in “urbana diffusa” e poi, in tempi più recenti parte integrata del sistema, “metropolitano/multimediale” hanno azzerato il primo confine e liberalizzato il secondo.

Questo conferma quanto citato prima, ovvero, i rapporti, meglio l’indagine dei rapporti di sangue ovvero parentela dimenticata, di quanti entrassero a far parte degli ambiti di gjitonia, che nei contratti di matrimonio escludevano le forme di unione endogene avendo come finalità solo quella esogena di appartenenza.

Quando erano al termine i lavori per la definizione della legge 482 del 1999, secondo quanto sancito dell’art. 3 – 6  della Costituzione Italiana, e suggerito della Comunità Europea, gli stati generali arbëreshë iniziarono a fermentare, come fa il mosto, prima di fare vino.

Per l’evento, di tutela secondo la citata legge, serviva caratterizzare la minoranza con un sostantivo tipico, che avrebbe dovuto dare valore alla “Regione storica diffusa Arbëreshë”.

Identificando quale volano il sostantivo “Gjitonia”, dove valorizzare la minoranza, al fine di rendere noti i minori ai maggiori, perche unici detentori di un protocollo sociale di inestimabile valore, da ritenersi tra i più longevi delle terre che perimetrano il mediterraneo centrale.

Il personalismo purtroppo a questo punto ha preso il sopravvento, sulla ragione e invece di aprire un tavolo di indagine composto da commissione multi disciplinare con solide capacità interpretative sia in campo linguistico, e di specifiche discipline, si è preferito procedere in ordine sparso.

E quanti dovevano panificare, iniziarono la ricerca del ”criscito madre perduto”, peregrinando lungo Rioni, Quartieri, Vicoli, Strade, Sheshi o addirittura senza meta, terminando la corsa tra gli ambiti indigeni che imprecavano parole brutte contro i ladroni di identità e terra.

Allo scopo e per togliere ogni sorta di dubbio è opportuno specificare che “Gjitonia”, non è Rione, non è Quartiere, non è come il Vicinato, non è “uno sheshi a forma circolare che unisce la corale convivenza delle porte per accedere alle proprie abitazioni” ne un paradossale trittico architettonico e ancor meno il festival delle porte aperte a manzaportu (lingua Zamandara).

Nella comune conversazione della nazione comunemente detta Arbëria (???) viene definito lo Sheshi come piazzetta, purtroppo, anche in questo caso si avvolgono senza attenzione dinamiche compositive in senso di spazio, a dir poco paradossali come un quartiere, senza avere una  cognizione storica o grammaticale del sostantivo o di altri ad esso associati, simili o equipollenti.

Partendo dal dato storico che ogni “rione” prima di essere tale, era uno spazio delimitato da un recinto di materiali naturali, quali tronchi e rami intrecciati, entro cui trovo rifugio il gruppo familiare allargato, come si ricordava di organizzarsi in terra di origine Balcana.

Al suo interno, era allestita la rudimentale abitazione in forma estrattiva, l’orto botanico e le attività della  filiera corta, che qui terminava di comporre e selezionare le parti più genuine degli alimenti.

Quando le attività messe in atto, consentirono al gruppo familiare allargato, di crescere di numero, questi iniziarono a proporre lo stesso modello di residenza passando dal’antico modulo estrattivo al nuovo additivo, quest’ultimo in specie, passò dai materiali deperibili dell’era del nomadismo a quelli naturali duraturi come calce e pietra dell’epoca del definitivo stanziamento.

È da questo momento che inizia a svilupparsi il rione, traccia di planimetrie antiche, rimanendo sempre privo di murazioni, barriere per la difesa o porte.

A tal fine va rilevato che dal 1563 le autorità locali dei Katund, ricevettero imposizioni regie in tale direzione, ma per l’economia corrente non furono mai applicate, se non sprazzi di muri o abitazioni, che per il tipico orientamento lasciavano elevati murari senza aperture a piano terra, dando l’impressione di opere eseguite in tal senso, ma poi i terremoti e le carestie fecero volgere l’interesse su altre priorità.

E’ lo stesso impianto urbano in allestimento a risponde sia alla esigenza difensive sociale e abitativa, come  insegnavano le Shekite religiose e gli Sheshi; ed è così che vennero innalzati agglomerati diffusi, in forma ed espansione secondo il concetti del labirinto in schema di Medina.

Strade strette e case addossate diventarono una secessione di dogane, perennemente attive; funzione che ogni abitante del rione svolgeva attraverso la porta gemellata con l’indispensabile finestrella, che non seguiva il disciplinare della  tassazioni, ma consensi sociali.

Tanti luoghi di avvistamento diurno e notturno, svolgevano senza soluzione di continuità l’atto della difesa, attraverso lo spazio costruito dei residenti che vi abitavano all’interno dello Sheshi; il Labirinto, come gli Arabi prima degli arbëreshë negli anfratti prospicienti il mediterraneo erano solito innalzarli per difesa.

Da ciò si evince che lo “sheshi non è uno slargo non è una piazzetta non è solo il tema che compone il modello urbanistico arbër”, ma un sistema raffinato e articolato, fatto di costruito irregolare, intrinseco per la difesa, contro ogni forza avversa; sia esso di radice naturale, come precipitazione, irraggiamento solare, esposizione eolica o derivante dell’uomo con intenzioni di ferire e sottomettere.

Alla luce di tutto ciò, “Gjitonë” non è da ritenere l’avversario di se stessa, veicolando per questo, forme di razzismo, tra parenti, che non trovano ragione d’essere, se non in discriminatori concetti, comunemente divulgati, per privi di ogni formazione o forma di scolarizzazione, attraverso comportamenti non dei maestri, ma degli operatori scolastici di terzo grado.

Un altro stereotipo, di cui si fa un grande parlare, sino a varcare i limiti della blasfemia, prende ragione nel principio secondo cui la Gjitonia, porta un nome di un luogo o di una persona a memoria, preceduto dal suffisso “ka”.

L’errore storico arriva al punto tale da scambiare il “laboratorio ideale di ricerca dell’antico ceppo familiare” su base dei cinque sensi, con un episodio toponomastico di tempo associato ad un luogo o una persona.

La ricerca dell’antico identificativo arbër, dell’ideale spazio non identificato fisicamente è riassunto dalla frase: Gjitonia; sin dove arrivano i sensì; l’enunciato venne intercettato in una ricognizione presso un Katundë della destra Crati, durante un’intervista a una, ultra novantenne, che descriveva e parlava dei cerchi concentrici dell’armonica forma sociale, dove lei si riconosceva perche li identificava nelle prospettive libere e ne sentire, volendo significare con il sentire i quattro sensi dopo la vista.

La ricerca, condotta da un noto antropologo latino e da giovani allievi arbër, per inesperienza di questi ultimi, venne riferita all’antropologo professore, secondo una sintetica traduzione incompleta di quanto voleva intendere l’anziana donna.

È proprio questa espressione che mi è stata lasciata in eredità dal professore, in una delle ultime conversazioni nel 2009 , dicendomi; ho fatto tanta ricerca sul campo e non sono stato mai convinto, di fare bene, ma una frase mi ha sempre perseguitato e non riesco a dimenticare; “gjitonia dove vedo e dove sento”.

Risposi al professore che l’aveva intercettata e trascritta, tradotta male dai suoi allievi, giacché per gli arbëreshe vedere e sentire sono semplicemente i “cinque sensi”.

Ragion per la quale, gjitonia è un luogo ideale senza confini, sin dove la vista, il tatto, gli odori, i suoni, i sapori, restano identificabili e non mutano; essi sono la memoria di crescita e una volta che ti hanno avvolto, continuano ad essere vivi nella tua formazione,  se poi questi sono intercettati da quanti li avvertono ordinatamente secondo gli antichi dettami Kanuniani è il segno distintivo che appartieni alla minoranza arbër, i pochi che ancora oggi con impegno e credenza difendono e tutelano.

Per riassumere: “gjitonia è un luogo identificato attraverso i cinque sensi, sensazioni per le quali e attraverso i quali riconosci la memoria e il segno del tempo associato al bagliore che indica la strada giusta ai sensi”.

In tutto possiamo affermare che  Gjitonia rappresenta una cassa armonica di natura senza confini, si attiva tutte le volte che la lealtà di quanti ti stanno a accanto, aprono scenari antichi di suoni, sapori, sensazioni, odori e ti accompagnano, in tutto le cose indispensabili che fanno avvertire ogni cosa che ti avvolgeva di una storia antica.

Non è la forma della piazza, non è la regolarità della strada, né la qualità del costruito che ti circonda ad attivare il sentimento antico, ma è l’insieme armonico che si sviluppa, quando natura, tempo e uomini usando i sensi per condividere presente e futuro secondo antiche consuetudini in arbër, che pochi sanno come tramandare.

P:S: – «È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore»

– Giacomo Leopardi-

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