NAPOLI ( di Atanasio Pizzi) – Quando gli arbëreshë partirono dalle alture dei Balcani per intraprendere la via di una vita più tranquilla e senza dover sottostare a valori religiosi diversi, le supposizioni di cosa portarono in dote spaziano dal romantico al fantascientifico per terminare nel grottesco.
Certamente senza alcun dubbio, anche perché esiste una descrizione precisa, (ignudi e raccolti in gruppi, con le mani protese al cielo favellavano una lingua incomprensibile) analizzando questa raffigurazione scritta degli arbëreshë, tali perché non più in terra d’Albania, appare evidente che avessero ben poco con loro, se non, la parlata, il credo religioso e le regole ancora non scritte del kanun: questi erano i veri bauli stracolmi di ideali con cui i balcanici approdarono in Italia.
Dal quel momento in poi la caparbietà ed il forte senso di appartenenza al modello di famiglia allargata, li distinse e gli fece superare pericolosi e inesistenti tracciati che li condussero nei presidi alle pendici della presila, delle creste della mula e del pollino.
Abituati a vivere in luoghi impervi ed isolati, per sfuggire alle angherie degli invasori, erano capaci, di rendere fruttuoso il territorio dove si insediavano, grazie alla indubbia bravura nelle arti agro-silvo-pastoreli.
Assoggettati dalle capitolazioni capestro, ben presto seppero dissentire e dare atto ad una sorta di rivolta che se da un lato creò non pochi problemi alle popolazioni autoctone, dall’altro fece desistere le ripetute incursioni turche che dal popolo Balcano avevano avuto una sonante lezione.
Le rivolte degli albanesi durarono dal 1509 al 1562 e subirono delle loro angherie persino i monaci del convento di San Francesco di Paola che nei pressi di San Benedetto furono derubati dei beni che avevano questuato.
Per questi atteggiamenti si racconta addirittura che i Castriota che vivevano a Napoli avessero influenza sul governo locale in modo che queste manifestazioni fossero ritenute di poco conto, ma invece la ragione vera si ritiene avesse come scopo di paventare i pirati che imperversavano lungo le coste dello ionio.
E quando gli equilibri relativamente alle incursioni furono ristabiliti, nei primi mesi del 1562, i rappresentanti delle comunità arbëreshë di ogni casale, furono invitati nelle sedi istituzionali di Acri e di Cosenza, ove gli fu notificato un documento regio, secondo cui dovevano realizzare cinte murarie che perimetrassero i presidi abitativi, entro i quali poter circolare armati o viaggiare a dorso di destrieri.
La nota che è largamente documentata, fa emergere un dato importante, ovvero il concetto di famiglia allargata, che è ancora largamente diffuso e presente, visto ché a ricevere la notifica regia non fu chiamato un unico rappresentante per ogni centro abitato come risulta dai verbali, in cui si elencano per Santa Sofia Baffa, Marchianò Miracco e Bece, per citarne alcuni.
I lavori per innalzare le mura, imposte dagli amministratori provinciali, ebbero inizio ma non terminarono, (in molti paesi possono ancora rilevarsi alcune porzioni), il terremoto che di li a poco interessò l’intera provincia e la successiva carestia divennero prioritari al progetto restrittivo.
Dal 1600 gli emigrati dai Balcani si integrarono e fecero parte della vita politica, sociale, culturale ed economica del meridione, diventando parte insostituibile a tal punto che la loro fama superò i confini nazionali.
Grazie a questi personaggi che pur non apparendo come capo fila nominati dall’etnia, seppero imprimere a questa, regole nuove in linea con le tradizioni, la religione e la lingua ritenendoli come gli elementi prioritari.
Purtroppo dopo il picco raggiunto dai grandi luminari d’arberia, del XVIII, e Del XIX quelle che seguirono non sono state al pari della loro forza culturale, dopo di loro ha avvio l’inarrestabile declino.
La lingua scritta diviene terrenofertile per una discussione che ancora oggi non trova un comune denominatore comprensibile, le tradizioni si mescolano in un calderone che ogni giorno assimila nuovi ingredienti, i contesti architettonici non sono ritenuti importanti (perchè il settore è di difficile lettura), il canto è associato a strumenti musicali e a ritmi estrapolati da altri continenti, la religione si mantiene ancora salida ma ancora per quanto?
L’attento legislatore italiano, intanto, con la legge 482/‘99 riteneva di poter aiutare la minoranza dando un impulso in termini economici per una ripresa basata sui valori indisolubili, e far emergere l’etnia sulla base di solidi progetti relativi gli ambiti minoritari.
Purtroppo i progetti non sono stati solidamente incernierati a studi di settore storicamente supportati e redatti a valorizzarele minoritarie estrapolate da quelle autoctone.
Il risultato è stata la produzione di un numero rilevante di inesattezze, che essendo tipiche del territorio Mediterraneo, (Tarantelle, Gjitonia, Costume Maschile, Feste, Manicaretti e pietanze di ogni sorta) le hanno assegnate come regole non scritte del popolo Balcano.
È urgente tornare a ritracciare il vero percorso storico che gli albanofoni hanno seguito dalle spiagge dello Jonio dove approdarono, sino ad oggi ed essere capaci a scindere quali siano stati gli elementi caratterizzanti che appartengono esclusivamente ai minoritari.
Questo è un percorso che non può essere messo nelle mani di coloro che ad oggi hanno prodotto solo inesattezze e condotto la minoranza al punto di essere ritenuta la meno solida di quelle italiche.
Se la volontà è quella di ritenere che gli arbëreshë siano una minoranza da preservare e valorizare, va redatto un progetto multidisciplinare, a capo del quale si erga la capacità che appartiene agli albanofoni nelle solide esperienze di tutti quei luminari che hanno fatto svettare la bandiera arbëreshë negli annali culturali sociali economiche e scientifici che contano.