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STORIA DI UN ARCHITETTO ARBËRESHË

Posted on 02 aprile 2019 by admin

Storia di un architetto

Napoli (di Atanasio Pizzi) –  Quando il giovane diplomato, dopo un periodo di orientamento a Reggio Calabria, decise di trasferirsi all’Università Federico II° di Napoli per iniziare il suo percorso formativo, non poteva immaginava che avrebbe accumulato tanto dispiacere, nel aver voluto studiare e comprendere le dinamiche che caratterizzano il genio locale di una ben identificata regione .

Il giorno della sua partenza nel fare il giro e salutare, amici e parenti, in Largo Trapësa incrociò un suo vicino, che gli raccomandò di addentrarsi  con profitto alle discipline architettoniche, così “i racconti” della nostra storia arbëreshë avrebbero avuto supporti anche dagli elementi tangibili  che quella disciplina multi settoriale offriva.

Cadeva di Martedì quel 18 gennaio del 1977 e per il giovane Atanasio, quelle parole segnarono il suo percorso formativo in maniera indelebile, nonostante siano trascorsi oltre quattro decenni, da quella data e  superato chine, scese impervie, l’allievo architetto Sofiota, forgiato nel mandorleto dei Bugliari, non dimenticò mai quelle parole.

Dal primo giorno che iniziò a frequentare Napoli, non smise mai di pensare e guardarla l’architettura da arbëreshë e quanto peso avesse avuto la regione storica per l’Italia, oltre a quanto nelle sue diplomatiche vi fosse custodito.

Alla luce di ciò, oltre a seguire il percorso universitario, allargò i confini della sua formazione, sia in biblioteche che in archivi, ma più di ogni altra cosa confrontandosi con eminenti docenti e dare forza vitale a quel seme piantato in  Largo Trapësa.

La sua apparizione pubblica avvenne all’Istituto Universitario l’Orientale di Napoli per confrontarsi con l’allora direttore del dipartimento di Albanologia, dopo essere stato particolarmente colpito, ndë Katundë, sulle divagazioni di alcuni relatori che parlavano di Gjitonia nel Luglio del 2003.

Furono proprio quelle nozioni a dir poco elementari, nozioni senza senso diffuse liberamente nello stesso ambito dove pochi anni addietro veniva sancita , la stessa sala Consiliare del Comune che per ” ladifesa della diversità culturale arberesche “(??????).

Dal 2003, dopo aver ascoltato, inizia a scrivere, ma per la fragilità dell’italiana cultura, cadde ripetutamente in errori grammaticali, tuttavia mai di concetto, nonostante ciò veniva duramente redarguito dalle stesse figure che avevano sorvolato per decenni e ancora oggi parlano di una gjitonia che nasce sullo sheshi ad opera di 5/6 porte; appellano il Kastriota con idiomi turcofoni appellandolo Scanderbeg; scambiano la metrica del canto delle valjie, in danze sacrificali da guerra ed è meglio fermarsi qui, con le divagazioni inviate in stampa, senza ne luogo e ne tempo.

E’ legittimo chiedersi se un tempo queste figure ambirono veramente a spronare il giovane architetto, o, sicuri della dipartita culturale. Si divertirono perversamente a indicare una strada che non avrebbe mai percorso, sicuri che le loro ilarità sarebbero rimaste impunite e mai verificate perché senza progetto e quindi senza un senso pratico.

A conferma di ciò corrono in aiuto gli addobbi e le trasformazioni delle strade, i vicoli, gli elevati edilizi e ogni genere di elemento finito o spazio pubblico circoscritto, che identificava le tracce della storia arbëreshë, che imperterriti, hanno continuato e continuano a violare.

In poche parole le manomissioni e la perdita di valori, che gli ambiti minoritari non hanno avuto grazie al buon senso dei saggi cultori di un tempo, nel breve di un decennio sono stati trasformati senza alcun senso, simile ad una violenza di gruppo, tradotto in lessico moderno si potrebbe ipotizzare una sorta di bullismo architettonico verso una minoranza indifesa.

L’auspicio è che si riprenda la metrica seguita sino agli anni sessanta del secolo scorso e il 27 di Aprile prossimo, i gruppi che, il mese successivo, avranno il privilegio di sedere nella cabina di regia del Katundë arbëreshë, sono questi che nel transitare nell’ideale Largo Trapësa, possano essere intrisi della stessa caparbietà culturale che avvolse quel giovane Sofiota diventato architetto.

È a loro che deponiamo tutte le nostre ultime speranze nel  percorrere quel selciato davanti alle sedi comunali, giacché luogo sacro intriso di buoni propositi, li inizia o finisce la storia della minoranza arbëreshë; quel largo idealmente contiene i valori consuetudine di tutta la regione storica, perché  sono innestati i semi della “Storica Scuola Locale”.

Non è concepibile che ancora oggi dopo due decenni non siano state corrette quelle intenzioni sgrammaticate, che sono lo specchio della tutela; da ora in avanti prima di mettere in cantiere progetti di abbellimento è bene valutare se, sia opportuno demolire un muro o è meglio consolidarlo; rendere veicolare un antico tracciato pedonale, per far parcheggiare  vecchi rottami o è meglio restaurarlo per restituirgli l’antico splendore; costruire prima  il luogo della tutela e dell’esposizione, prima di razzolare assumendosi la responsabilità di conservare manufatti sartoriali irripetibili; conoscere la stria del proprio Katundë prima di modificare gli antichi percorsi religiosi, ecc., ecc., ecc..

È vero che i Katundë non possiedono vincoli delle sovrintendenze, se non per la chiesa e il palazzo nobiliare e le raffigurazioni artistiche, ma nel 2019 non si può attendere ancora, che istituzioni terze si preoccupino della difesa dell’identità culturale, contenuta, in ogni elemento dei nostri centri antichi; Spetta agli amministratori avere un bagaglio culturale è la giusta sensibilità per farlo, e non serve ripetere incoscientemente, che non è rimasto nulla o non abbiamo avuto mai nulla, giacche il valore delle cose non si misura in piazza giocando a carte o facendo colazione al bar, ma sedendosi nelle sedi istituzionali e parlando con esperti che sappiano riferire compiutamente di ogni cosa.

È giunta l’ora di smettere di pensare che la tutela delle emergenze dei nostri Katundë siano esclusiva dipartimentale, specie se queste hanno matrice letterale e non storica, bisogna lasciare spazio a quanti si occupano di questi argomenti non come tema generale, ma specifico d’ambito.

Allo stato delle cose quanti avranno il privilegio di condurre le sorti materiali ed immateriali del nostri Katundë, prestassero particolare attenzione nell’intervenire all’interno del centri antichi dei Katundë, e da ora in avanti quando si tratterà di abbellirli abbiate cura di seguire alla lettera le “Carte del Restauro e della Conservazione”, lasciando ad altri ambiti il libero pascolo secondo i segni di un’architettura che distrugge  seminati in grano, come se fossero pascoli da brucare.

La Scuola Sofiota esiste ed è stata sempre viva, sono i politici che negli ultimi decenni si sono distratti, immaginando che gli antiquari, che migrano dagli altri ambiti, siano più raffinati e capaci dei propri figli.

Le eccellenze di ogni Katundë, esistono e abitano li vicino a voi, hanno dimora sulla vostra destra e sulla vostra sinistra, non dovete fare altro che girare la testa e farli accomodare per esprimere il loro sapere che non può avere nessuno, specie se formato in ambiti specifici, quelli tipici della Regione storica Arbëreshë, che è cosa ben diversa da quella albanofona

Non è più tempo di emarginarli ai margini dei progetti di rilancio culturale che i Katundë attendono da troppo tempo; solo chi è tipicamente formato può fornire elementi indispensabili per realizzare “la caratterizzazione locale”, l’unica arma in grado di difendere questi modelli irripetibili dai processi della globalizzazione, che ad attendere per violentare e triturare ogni cosa.

Non è sostenibilità andare avanti con limiti tendenti verso il basso delle professionalità e dare ascolto a magie Acritane, antichi dispetti e giuramenti fatti in nome di una rabbia figlia dell’ignoranza; liberatevi da questi veli, essi vi offuscano la menta e non restituiscono a una comunità intera, la stessa credibilità in voi riposta.

Dal mese di maggio del 2019 l’auspicio vorrebbe che Largo Trapësa, dopo aver ufficializzato l’esito elettorale, si dia inizio alla stagione della semina di un momento culturale del sapere sofiota, si allestiscano tavoli di confronto per la comunità arbëreshë intera, chi si sente in gradi di proporre si fa avanti e si misura con i conterranei, nessuno escluso, compresi quanti navigano nelle tenebre, questi in particolare se vogliono riemergere sono i benvenuti, altrimenti tacciano per sempre e nei loro luoghi di esilio, diano inizino almeno alla discussione con se stessi, per capire ameno nella loro mente chi sono e cosa vogliono.

Sono stati tanti i paesi della regione storica che attraverso il sapere del ormai non più giovane architetto cercano conferme delle architetture e l’urbanistica arbëreshë e non parlo solo dei paesi a un tiro di schioppo dallo storico largo, ma anche a quelli di Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise, Puglia e Sicilia, lui! per rispetto della regione storica, lo ha fatto più volte con serenità professionale, tuttavia tutto ha un limite e a Casalvecchi di Daunia è stata abbondantemente superato.

Quello che rimane sono le poche cose che ancora si possono intercettare e valorizzare nei paesi arbëreshë, ormai allo stremo, tuttavia intercettare e innalzare poi non vuol dire far brillare accanto le figure che non distinguono Stefano da Antonio e ne comprendono cosa voglia dire pronunciare in regione storica, Kastriota o Scanderbeg.

Allo stato delle cose rimane la speranza, che duri la pazienza dell’archetto e diminuisca lo sperpero di elementi quotidianamente distrutti, sia dal punto di vista del tangibile e sia di quello più raro dell’intangibile.

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