NAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – Per tracciare il percorso storico di questo Katundë, seguendo le tappe di terra in soglia, è necessario volgere lo sguardo al suo cuore più antico, quel nucleo silenzioso dove il tempo sembra aver rallentato il passo.
È qui, che tra le vie che ancora custodiscono l’eco dei primi passi e il respiro delle pietre consumate, si dischiude il centro originario, avvolto dallo storico camminare che ne delinea il perimetro come un abbraccio materno colmo di sacralità.
Solo attraversando questi tracciati fatti di braccia tese e pronte ad avvolgere stringere con le mani aperte e, ogni sensazione si può avvertire, se in grado di ascoltare l’anima di questo centro antico, oggi segnato dalla toponomastica storica, che lo rende luogo sospeso fra passato e divenire, dove ogni svolta espone il suo contributo, ogni luogo di sosta è una mano aperta e sin anche le ombre, qui conservano segni di luce.
Tracciare il confine del centro antico del Katundë Terra di Sofia, significa misurare non tanto lo spazio, quanto il respiro di una memoria antica più volte rinnovata.
I punti e le arche che lo definiscono non sono soltanto segni di pietra o di calce, ma nomi che sussurrano, il luogo che custodiscono con la sostanza del tempo.
Essi si appellano Chiesa, Strada Grande, Luogo dei Frammenti, Cancello, del Pascolo o della Lavorazione, Strada verso l’Alto, il Promontorio e Strada verso il Basso.
Questi tutti assieme formano un abbraccio chiuso dove si raccoglie l’intero ciclo dell’esistenza in forma di fede, lavoro, ascesa, ritorno, soglia e apertura a nuove accoglienze.
Tradurli in arbëreshë è impresa ardua, in quanto la lingua dei padri non conosce la freddezza dei modernismi, né accoglie con facilità gli appellativi che si spingono oltre la sfera intima e domestica.
Ogni parola, in quell’antico idioma, è un gesto d’anima, un soffio che appartiene al mondo privato più che alla mappa del visibile.
Così, chi volesse dar luce a questi nomi, chi cercasse la corrispondenza tra la lingua e la pietra, dovrebbe spingersi fino a Napoli, là dove si conserva, ancora, la scienza del ricordo e la misura delle antiche parlate. Solo lì, forse, un lume potrà rischiarare l’ombra di queste parole, e il viandante potrà comprendere che ogni nome è un frammento d’identità, ogni strada una preghiera rivolta al tempo.
In questo abbraccio, disegnato in forma di arche e mani aperte, si compiono gesti antichi che fanno Katundë, che poi non è altro un invito all’unione, al confronto e al muoversi assieme.
Le sue pietre, disposte come dita che si tendono verso l’altro, raccontano un cammino di incontri, non di conquiste.
Qui gli indigeni offrirono ospitalità ai Bizantini, Cistercensi che portarono il rigore della loro fede e dell’opera, poi vennero gli Arbëreshë, riecheggiando il loro parlato come un canto di memoria.
Ognuno lasciò un segno, ma nessuno impose il proprio e, tutti si riconobbero parte di un disegno più grande, dove la diversità divenne forza e la differenza, armonia.
Così, nel circoscritto silenzioso del centro antico, si legge una lezione che non conosce tempo e, dove la civiltà non nasce dominio, ma l’ascolto reciproco, non l’eccesso, ma la misura, non la forza, ma il desiderio di migliorarsi insieme, come mani che si stringono nel rispetto del comune destino.
Resta, come un’impronta di luce sulla pietra, la traccia di questa terra riflessa viva, fertile e, indomita.
Dopo una parentesi di confronto e colma di vicissitudini naturali durate sino al XVIII secolo, anno di arrivi le sue genti hanno sostenuto questo Katundë hanno generato cultura e uomini capaci di donarsi senza misura, animati dal desiderio di rendere il Meridione un luogo più giusto, più colto, più umano.
Mentre il centro antico cresceva come un cuore pensante, divenendo crocevia di credenze, di saperi e di gesti tramandati, lì si elaborava una sapienza locale, nutrita di lingua arbëreshë, parlata come una preghiera e scolpita come un atto d’amore verso la propria origine.
In quella lingua non si discuteva: si meditava e, ogni parola era un ponte fra terra e spirito, fra l’esperienza quotidiana e il mistero dell’essere.
Eppure, a distanza di secoli, un dubbio ci raggiunge e ci inquieta: quando gli Arbëreshë parlavano, chi li ascoltava davvero?
Chi era in grado di comprendere quei concetti così alti, così protesi verso il futuro da sembrare, ancora oggi, parole non completamente afferrate?
Forse pochi e, solo coloro che avevano ancora l’orecchio rivolto all’essenziale, al ritmo della natura e alla voce dell’anima, mentre gli altri, forse, udivano soltanto suoni esotici, senza cogliere il pensiero che vi ardeva dentro: un pensiero che non si imponeva, ma invitava; che non dominava, ma insegnava a vedere con occhi nuovi.
E così questa terra, pur appartata, si fece culla di un pensiero luminoso, di un umanesimo meridiano che nessuna dimenticanza potrà cancellare.
Un pensiero che ancora oggi ci parla, se abbiamo la pazienza di ascoltare, come si ascolta un vento antico che passa tra le pietre, portando con sé il segreto di chi seppe parlare prima che il mondo imparasse a capire.
Un centro antico rigenerato dagli Arbëreshë non è solo pietra e memoria, ma rappresenta una soglia incantata, un respiro che accoglie.
Le sue vie sembrano disegnate per ricevere e restituire amore, e ogni cuore che vi si posa diventa parte di un ritmo comune, un battito solidale che unisce chi resta e chi è partito.
Qui tutto vive di un’armonia segreta, dove l’antico e il nuovo si abbracciano come fratelli che si riconoscono dopo un lungo cammino.
Le soglie di un Katundë sono fatate perché non separano, ma congiungono, le linee di luce fioca del camino e quella del sole e quando si incontrano la nostalgia e la speranza, la lingua del passato e il silenzio del presente e sempre li pronta ad ascoltare.
Ogni passo dentro questo cerchio di case e memorie rinnova il voto della fratellanza, il desiderio di una vita comune fatta di gesti semplici, di rispetto e di tenerezza condivisa.
E noi, che siamo partiti, portiamo questo lume nel cuore, consapevoli di appartenere a una terra che non ci abbandona, e a un amore che non si disperde.
È a noi, figli lontani ma fedeli, che spetta il compito di affermarlo con voce chiara e, senza vergogna che siamo innamorati, che non tradiremo per nessuno e in nessun dove quei luoghi di passione senza eguali.
Perché Katundë non è solo un paese, è un sentimento che non muore, una soglia eterna dove ogni ritorno è un atto di verità.
Naturalmente, questo è un dono, un vantaggio per chi, discendente di quella stirpe luminosa, diventa olivetano e vive a Napoli.
Qui, nei vicoli dove il sole si rifrange sui portali antichi e l’eco dei passi si confonde con il respiro delle botteghe, come i riverberi dei Katundë si amplificano e prendono nuova forma.
Ogni strada del centro storico sembra custodire un riflesso della terra madre, un accento della lingua perduta, un gesto d’artigiano che reca ancora nel polso la grazia arbëreşë.
Lungo le pieghe che scendono dalla via Furcillense verso il mare, la memoria diventa vento salmastro.
Si respira la stessa vocazione al mescolarsi, al farsi ponte tra oriente e occidente e, quel mare, che i nostri avi Arbëreşë benedissero con parole di fiducia e con mani alzate al cielo, rimane oggi simbolo di un miracolo mediterraneo e, l’integrazione più solida, gentile che la storia di queste terre abbia conosciuto.
Un esempio nato dal contatto, non dalla conquista, dall’ascolto, non dal dominio e da queste rive, che si allungano verso levante, fino a lambire idealmente le sponde del Gange, dove risuona ancora il messaggio dei padri: che ogni approdo è una rinascita, e ogni incontro è una forma di salvezza.
Così Napoli, figlia del mare e madre di accoglienza, si fa custode dei riverberi arbëreşë, amplificando nel suo grembo urbano la lezione più antica, secondo cui, nessun popolo si eleva da solo, e che solo nel riconoscersi l’uno nell’altro nasce, la civiltà che resiste alle cose e al tempo.
Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)
Napoli 2025-11-03 – Lunedì









