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IL PARLATO L’ASCOLTO E IL CANTO DEGLI ARBËREŞË PENA E STORA DI ALFABETI INUTILI

Posted on 19 novembre 2025 by admin

AbbbbbNAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Le società sono state plasmate, nel corso della storia, più dalla natura che dalle cose inventate dall’uomo per riportare espressioni scritte che fanno memoria.

L’alfabeto e la stampa hanno favorito un processo di frammentazione, basato sul distacco e sull’analisi dei singoli elementi parlati che dovevano essere identificati da una lettera.

Questo dato di lettere e alfabetari del parlato, rappresenta, la deriva che assale gli arbëreşë che non sanno e non riescono ad affiancare al parlato lettera e inflessione unitari.

A peggiorare questo fenomeno si sono aggiunte, le tecnologie dei lampi elettrici, che non danno costanza quella sostanza luminosa indispensabile a unificare parlato col lo scritto e, per questo motivo, diviene impossibile comprendere i mutamenti culturali senza ragione specifica e sociale.

Gli studiosi della comunicazione hanno sottolineato unanimemente che i media attraverso i quali oggi l’uomo comunica, influenzano il suo modo di pensare e, di conseguenza le società in cui vive.

Se volgiamo lo sguardo al passato prossimo e remoto del mondo della comunicazione, possiamo riconoscere tre grandi rivoluzioni che hanno segnato momenti decisivi nella storia dell’umanità.

La prima è la rivoluzione chirografica, nata con l’invenzione della scrittura nel quarto millennio a.C., che ha permesso di fissare il pensiero su un supporto stabile e di tramandare conoscenze in modo duraturo. Successivamente, la rivoluzione gutemberghiana, resa possibile dall’invenzione della stampa, a metà del quindicesimo secolo, dando così un nuovo impulso alla diffusione delle idee, permettendo la circolazione dei testi su larga scala e favorendo l’espansione delle conoscenze.

Infine, la rivoluzione elettrica ed elettronica, avviata con l’invenzione del telegrafo e proseguita con la nascita della radio e della televisione, che ha introdotto modalità di comunicazione sempre più rapide, immediate e interconnesse, modificando profondamente il modo in cui le persone percepiscono il tempo, lo spazio e la realtà sociale.

Queste trasformazioni non hanno solo cambiato i mezzi di comunicazione, ma hanno influenzato anche il pensiero, la cultura e l’organizzazione delle società, segnando tappe fondamentali nell’evoluzione del rapporto tra uomo, informazione e memoria.

Alla luce degli strumenti di comunicazione che sono stati utilizzati nel corso del tempo, possiamo distinguere almeno quattro tipi di culture che si sono succedute negli ultimi sei millenni.

La prima è la cultura orale, che trasmette le conoscenze esclusivamente attraverso la parola parlata e la memoria collettiva.

A questa si è affiancata la cultura manoscritta o chirografica (dal greco kheir = mano e graphon = scritto), che fa uso della scrittura, una tecnologia silenziosa della parola capace di fissare il pensiero e conservarlo nel tempo.

Successivamente si è affermata la cultura tipografica, basata sul libro stampato, che ha reso possibile una diffusione più ampia e rapida del sapere.

Infine, si è sviluppata la cultura dei media elettrici ed elettronici, nella quale le informazioni vengono trasmesse in maniera sempre più massiccia e veloce tramite la televisione senza alcuna vergogna.

La conseguenza più evidente di queste rivoluzioni è stata l’aumento progressivo della velocità con cui circolano le informazioni, una velocità spesso marginale, utile solo a coprire il tempo della loro apparizione, ma raggiunta a costi e con modalità sempre più ridotti.

Questo itinerario storico, per gli arbëreşë, trova un emblema simbolico nel corso della storia specialmente dei due primi riferiti e, il gesto ricordato da tutti gli storici di Pasquale Baffi che, poco più che adolescente, scagliò il calamaio pieno d’inchiostro e il pennino contro il suo maestro di greco poco attento a suo divulgato.

Secondo Baffi, infatti, quell’insegnante era impreparato e privo di una formazione adeguata e, all’epoca, la regione storica sostenuta dagli arbëreşë, viveva una condizione culturale particolare, infatti si utilizzavano pergamene a doppia faccia, in cui la parte interna, destinata alla lettura del sacerdote, durante la messa, era scritta in greco, mentre chi assistevano alla celebrazione potevano osservare sul retro le immagini realizzate nello spazio esterno dell’opera arrotolata.

Nonostante ciò, gli arbëreşë, continuarono ancora per molto tempo a tramandare storia, fatti e memorie attraverso il canto e le rime, facendo della tradizione orale un veicolo essenziale di conservazione dell’identità e della memoria collettiva.

Sempre Pasquale Baffi, nel 1774/75/76, analizzò il parlato arbëreşë e mettendolo a confronto con le lingue indoeuropee, nel tentativo di individuarne una radice comune da cui potere avviare una forma scritta.

Al termine del suo lavoro comparativo, redatto interamente a mano, non poté stamparlo in Italia, poiché le rotative di tipo gutemberghiano, non disponevano ancora di tutti i caratteri necessari, grechi e latini.

Fu quindi costretto a inviare i suoi scritti nel Nord Europa e, mentre a Napoli egli subiva la pena di “Piazza Mercato”, il suo fidato collaboratore, che in realtà non era tale, stampava più volte, dopo la sua morte, il discorso senza comprenderne il significato profondo di quella comparazione storica, che rimane unica e ignota ancora oggi.

Quegli scritti, copiati a mano, venero letti dai non formati e, nessuno fu in grado di interpretare il loro reale valore storico e linguistico, spesso travisato o frainteso dallo stesso compagno di banco, copiatore discolo stolto e introverso.

Quando poi, nell’Ottocento e fino ai giorni nostri, ebbe inizio questo lungo calvario, molti portarono al collo la lettera “A”, senza conoscerne il significato profondo che rappresentava, vagando tra innumerevoli edizioni e figure parlanti tutti a fare processione della “zeta perduta che ancora oggi nessuno conosce”.

Questo percorso ha offuscato il valore autentico della radice della lingua arbëreşe, che non si fonda sui modernismi noti a tutti, ma su parametri essenziali: essa parte dal corpo umano, nomina le cose naturali indispensabili alla vita e trova forza nel canto, nella rima e nelle favole, che ne custodiscono la memoria.

Da qui prende avvio la storia degli olivetani, ma non quelli che nascono arbëreşë e mantengono viva la loro identità, ma di coloro che siedono dietro una scrivania o salgono sul palcoscenico, immaginando che “arbëreşe” sia un titolo da conquistare, e non una condizione di chi vi nasce e la vive nel quotidiano con senso passione e dovere.

Un’altra difficoltà è stata quella di aver letto le opere dei fratelli Grimm, ma di averne compreso solo in parte il significato, perché letto solo le prime die righe del capitolo.

E quanti credevano di aver capito il senso del metodo germanico, si fermò al semplice postulato delle favole, senza leggere fino in fondo e cogliere la chiave della loro opera.

Da ciò nacquero, gli scrittori arbëreşë, una disciplina alla ricerca della favola più antica, come se in essa potesse celarsi la “zeta perduta”, o quelle lettere magiche a unissero definitivamente parlato e scrittura.

Personalmente preferisco definirmi un arbëreşë parlante e non un arbërishtë scrittore e, la mia lingua materna vive nella voce, nei gesti, nelle intonazioni, nei racconti ascoltati in casa. È fatta di memoria e di respiro, non di regole e di ortografia.

Non ho il bisogno, né forse il diritto, di inventare una scrittura che non appartiene davvero alla nostra storia. Se proprio dovessi costruirla, sembrerebbe una lingua adagiata su una terra parallela: quella da cui i miei avi furono costretti a fuggire.

Per questo, scrivere in italiano mi sembra più dignitoso che tentare un latino o un greco reinventato, almeno così dimostro coerenza con ciò che mi ha formato: le vicende del passato, le radici che mi hanno cresciuto, le voci che hanno nutrito la mia memoria.

Sono arbëreşë perché sono stato formato con la saggezza della casa, fuori la soglia di casa, dentro la chiesa che fa Katundë arbëreşë e scrivo solo l’essenziale, perché è qui che ho ascoltato le parole che hanno valore per continuarle a sostenere vive.

Per questo non cerco lo scritto del llitirë, non mi interessa costruire un alfabeto artificiale, ma preferisco custodire ciò che resta vero e spontaneo nel parlato.

La mia identità non è sulla pagina di quel calamaio scagliato, ma è nell’eco di una lingua che vive ancora fra le nostre mura, nei saluti, nei proverbi, nei silenzi condivisi e più di ogni altra cosa non mi considero uno scrittore di arbërishtë: sono un testimone parlante di ciò che ci ha reso e ancora oggi ci rende vivi.

Non sono un prodotto di quella deriva senza respiro, “che vegeta in fondo al mare a bruciare”, come dicevano le nostre madri, quando si facevano cose inconsulte o di termine, senza vergogna, le stesse che lasciavano un problema vergognoso irrisolto, è il legame disgiunto che seminano alcuni, quando parlano, cantano, suonano e scrivono poesia senza rispetto della diaspora e l’impegno preso dai nostri avi in esilio.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.O.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano e Olivetano)

Napoli 2025-11-18 / martedì

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