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DA BALCANI DEI GOVERNARIATI AI BALCONI ALBANISTICI

Posted on 24 novembre 2025 by admin

GJIROKASTER, ALBANIA - JUNE 07, 2014: Unidentified locals in a street scene at the center of historic town of Gjirokasteron June 07, 2014 in Gjirokaster, Albania. World Heritage Site by UNESCO

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se i Balcani furono lasciati dagli Arbëreşë, adesso non possono fare Balconi per emulare regione storica”; questo proverbio, per gli arbëreshë, non deve essere inteso solo come detto diffuso, ma un paradigma che palesa lo stato in cui si svolgono le cose che dovrebbero essere identità, senza confronto tra la montagna istituzionale e il palco locale.

Di fronte all’immobilismo delle istituzioni tutte, il solitario “Immortale Arbëreşë” è costretto a muoversi lungo percorsi tortuosi colmi di asperità e chine faticose e, farsi carico della tutela dei valori storici, identitari, oltre a difendere la lingua, le tradizioni e la memoria collettiva, racchiuse in quelle cavita o solchi di quella desertica montagna.

Giacché quando le istituzioni non riesce a produrre azione secondo i principi solidali di una genuina montagna, la responsabilità di preservare la cultura, ricade inevitabilmente sui piccoli solchi che generano fioritura, grazie al dolce sudore dei degli operosi e infaticabili cultori di pensiero e, sono proprio questi a rendere l’eco che la montagna si rifiuta di accogliere, nel più chiaro messaggio di appartenenza.

Ed è grazie a queste azioni instancabili che gli abitanti, le famiglie, le parrocchie, le associazioni locali si “imbibiscono” dell’antico valore consuetudinario arbëreşë.

E se l’attenzione si sposta dal piano immateriale, lingua, rituali, usanze, a quello materiale e territoriale, gli spazi abitati, le architetture, i paesaggi, la distanza tra tutela dichiarata e tutela reale si rivela quasi oceanica.

E per gli arbëreşe, il paradigma del “Maometto che va alla montagna” non è solo una necessità, ma è diventato l’unica risorsa di sopravvivenza di quella identità che di giorno in giorno s riverbera sempre di meno.

Infatti, a conferma di questo paradigma, sono stati quasi sempre i singoli professionisti, intellettuali, studiosi, linguisti, ecclesiastici, educatori, ad assumere il ruolo di veri protagonisti (la montagna) della storia arbëreşë, a iniziare dal Settecento fino ai giorni nostri.

Le istituzioni, di ogni ordine e grado, sono rimaste per lo più inerti, osservatrici distante e, incapaci di assumere una responsabilità organica verso la tutela delle attività portate nel cuore e nella mente dei diasporici provenienti dai Balcani.

Se volessimo denunciare o, più cautamente, evidenziare questa sproporzione tra l’azione del singolo e quella istituzionale, il risultato sarebbe evidente: persino la legge 482 del 1999, pur nata per la salvaguardia delle minoranze ma, rappresenta la prova formale di un lassismo sistemico, o forse di una vera e propria deriva istituzionalizzata, o meglio il punto di non ritorno del vivere senza più orizzonti che possano illuminare la memoria.

La norma esiste, ma spesso non viene applicata con efficacia, lasciando che la tutela resti sulla carta mentre la vitalità dei territori e della lingua continua a dipendere dall’iniziativa di pochi, non da una visione collettiva e strutturata, o magari segnando per gli altri che verranno la strada colma di echi da seguire.

Ad oggi non si ascolta nemmeno un principio di una probabile coerenza ma di contro e con metodo, si moltiplicano, teorie e narrazioni che potremmo definire paradossali, scollegate dalla realtà geografica, storica e identitaria sin anche del luogo.

Infatti sono preferiti e proposti teoremi astratti, privi di riferimenti precisi al tempo, al luogo e soprattutto all’appartenenza culturale delle comunità arbëreşe che non vive nei borghi medievali o nelle antiche Hore greche, ma negli articolati Katundë.

È come se i territori fossero evocati solo nominalmente, appellati in modo generico, senza alcuna volontà di riconoscere la loro specificità storica, linguistica e antropologica.

Questa mancanza di coerenza non è solo un errore metodologico ma il segno di una distanza profonda tra la realtà vissuta e le narrazioni istituzionali, che non conosce il valore di città chiusa medioevale e città aperta rinascimentale.

Si parla dei luoghi senza parlare con i luoghi; si parla degli arbëreşë senza coinvolgere le menti più allenate a ricordare, parlare e ascoltare.

Così, mentre si produce un linguaggio burocratico e confuso, i territori concreti con i loro nomi, le loro memorie e le loro ferite rimangono ai margini del discorso ufficiale anzi gli si impedisce di parlare perché non sono abituati a imitare il gallo sopra la montagna inquinata.

Si ricorre sempre più spesso ad appellativi di matrice greca, germanica o medievale, senza verificare la loro reale attinenza storica e collocazione geografica.

Questi riferimenti, applicati in modo arbitrario, finiscono per essere estranei alla storia e all’identità degli arbëreşe e non appartengono né al loro tempo, né ai loro luoghi, né alla loro struttura consuetudinaria.

Come se ciò non bastasse, vengono talvolta copiate idee altrui, senza un’adeguata certificazione scientifica o storico-documentale e magari per necessitò copiare i titoli di tema senza avere un progetto condiviso da porre in essere per andare e salire su quella montagna che ancor non si muove.

Questo processo, privo di metodo e di fondamento, conduce spesso alla produzione di pubblicazioni che non fanno che ampliare la deriva culturale: testi che, anziché chiarire, confondono; anziché costruire, disgregano.

È un fiume di contenuti “contaminati”, privi di connessione con le pieghe della storia, con il vissuto comunitario o con il costruito materiale degli arbëreshë.

Il risultato è una stratificazione di narrazioni improprie che non solo non rappresentano la realtà arbëreshe, ma la deformano, alimentando ulteriormente quella distanza tra istituzione e territorio che ormai ha raggiunto proporzioni preoccupanti.

Oggi siamo letteralmente invasi da statue incappucciate, segnate da emblemi di matrice musulmana, come se questo fosse il volto autentico della nostra memoria.

Ma nessuno ricorda, o forse non vuole ricordare, anche se la porta del maschio Angioino lo dimostra che e la nostra identità non è mai stata rappresentata da un pecorone, docile e lamentoso.

Il nostro simbolo era un drago: nobile, fiero, antico, che nel corso della storia non ha mai smesso di gridare rabbia e dolore.

Loo stesso che resistite nei secoli, portando con sé la memoria di una diaspora, di un sacrificio, di una speranza.

Ridurre tutto ciò a un’immagine passiva e incerta significa oscurare la forza che ha attraversato la storia arbëreşë e significa dimenticare che quell’identità non è sopravvissuta per caso, ma per dignità.

Il simbolo della comunità non è dunque un silenzio rassegnato, bensì un grido che ancora chiede ascolto.

E finché quel drago continuerà a vivere nella memoria dei pochi che lo riconoscono e sanno come valorizzarlo, ci sarà ancora spazio per una narrazione autentica, capace di scuotere la polvere accumulata sui secoli e restituire verità a un popolo spesso raccontato da altri, raramente da sé stesso.

Nel corso degli ultimi decenni si è smarrito il senso dell’essere Katundë non si riconoscono più i suoi colori, i suoi suoni, le sue forme.

Oggi si confonde sempre più spesso il senso dei rioni con la semplice toponomastica e il nome sostituisce il vissuto, in tutto, l’etichetta diventa più importante della memoria.

Si arriva persino a mescolare ciò che accade davanti alla soglia di casa con ciò che viene definito rione, come se tutto fosse equivalente, come se il luogo non avesse più livelli di significato.

In questa sovrapposizione, si perde la misura del parlato e dell’ascolto e, le parole non vengono più accolte né comprese, non arrivano alla mente e, ancor meno, al cuore.

Eppure è proprio lì, nel cuore e nella mente, che il linguaggio dovrebbe dare accesso al sapere, spalancando le porte della conoscenza che i rioni, un tempo, custodivano gelosamente.

Il rione non è solo un nome su una mappa, ma una trama di relazioni, racconti, gesti quotidiani e, quando si confonde la toponomastica con l’identità, si rischia di cancellare la voce dei luoghi e di ridurre la memoria a mera registrazione burocratica.

Si è interrotta sin anche la trasmissione del sapere legato agli atti di vestizione e, non si racconta più il ruolo, il significato di indossare zoha, gupun, merletto, né tantomeno cosa rappresenti e cosa voglia dire, portare con orgoglio una kesa.

Forse queste ultime memorie sono diventate troppo complesse per essere comprese, troppo profonde per essere spiegate con parole semplici.

E allora si preferisce riposizionarle nel comò, dove possano restare intatte, difese persino dalla polvere di chi, passando distrattamente, trascina i piedi a terra senza sapere di calpestare una storia.

Il Katundë non è solo un luogo fisico, ma è universo simbolico, continuamente confuso o scambiato per altro senso di un abito, di un colore, di un gesto rituale, che fa smarrire non soltanto una tradizione, ma una parte consistente dell’anima collettiva.

Oggi, molti si accontentano di termini carpiti, raccolti qua e là, come fossero etichette da applicare alla realtà.

Ci si ferma ai titoli, senza comprendere la sostanza, anche se un termine preso in prestito non potrà mai spiegare né risolvere i percorsi della credenza che, per secoli, hanno attraversato le vie dell’agro.

La fotografia di un luogo o la descrizione di uno stato penoso non bastano a restituire la verità di quei luoghi di segnatura, dove il sudore veniva lasciato lungo il cammino, prima di rientrare a casa, dopo una giornata di lavoro agricolo vissuta come atto di fede e appartenenza.

L’agro non era solo spazio di produzione ma, era spazio di credenza, di ritualità, di relazione con il cielo e con la terra.

Ridurlo a semplice scenario, osservato e descritto da lontano, significa ignorare la sua anima profonda e, quando si perde quella visione, il titolo resta, ma la storia si spegne.

Tutto questo fa sì che la montagna Balcana, un tempo luogo di identità e di resistenza, diventi oggi sempre più un semplice Balcone da cui affacciarsi e osservare da lontano, credendo di poter comprendere la prospettiva di un luogo della storia con un solo sguardo fugace, come se bastasse un titolo o un gesto superficiale per racchiudere secoli di memoria.

In questo atteggiamento si rivela un egocentrismo moderno, dove la convinzione di ciò che si vede da un balcone sia sufficiente per comprendere la vita della montagna.

Ma la montagna non è un panorama, è un vissuto, non è un punto di osservazione, ma un percorso da attraversare, in quanto essa è radice, non vetrina.

E confondere il balcone con la montagna significa trasformare la storia in immagine, e l’identità in spettacolo.

P.S. L’arbëreşë non si insegna, si impara davanti al focolare domestico accompagnati dagli abbracci materni.

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.O.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano e Olivetano)

Napoli 2025-11-24 / lunedì

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