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GLI ALBANOFONI PER COMUNI INTENTI vhlamieth arbëreshë

Posted on 08 aprile 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Chi si accinge alla lettura di questo saggio nella fiducia di trovarvi esposte valide tesi di critica  o di estetica architetto­nica delle pertinenze arbëreshë è destinato alla più grande delusione.

Ma chi, invece, è ansioso di comprendere le autentiche motivazioni, culturali e sociali, della con­servazione del patrimonio architettonico a vantaggio della vita dei minoritari, troverà qui la più chiara, convincente e moderna enunciazione.

È utile essere, poeta, storico dell’arte, naturalista, ar­chitetto, ecologo, teologo, filosofo, sociologo, economista, scrittore; e tutte queste discipline insieme nella loro radice comune, poterle far confluire in simili intenti e offrire il significato reale al principio della unità ed universalità della cultura arbëreshë.

L’arberia deve realizzare una cultura non astratta e chiusa in se stessa, ma che vuole e deve concretamente aprirsi a tutti per trasmettere i suoi prodotti, affinché possano essere subito disponibili per il migliorare la vita che la cultura alimenta.

In questo progetto devono coesistere due presenze, quella dell’uomo triste, introverso e infelice e l’altra dell’uomo capace di percepire tutto quan­to offre la natura e il mondo circostante, al fine di comprendere l’essenza delle cose e di trasfigurarle attraverso una visione completa e superiore.

Il prevalere dell’una o dell’altra di tali presenze, determina comportamenti, giudizi ed atteggiamenti che mostrano, all’esterno, una comunità sensibile, generosa e umana oppure il suo opposto.

Ciò che conta, dunque, non è la ricerca delle contraddizioni esi­stenti, ma è la comprensione delle lezioni fondamen­tali che fornisce la  misura della sua vita.

Bisogna seguire, con coerenza e rigore, il percorso che, dall’osservazione del­la natura, attraverso la poesia, la riflessione sulle arti e l’ar­chitettura in particolare, conduce a meditare sull’ambiente determi­nato e sulla condizione della vita degli uomini che vissero ed, infine, alla coscienza del rapporto esistenziale tra essi e l’ambiente di natura, d’arte e di storia che li avvolgeva.

La eccezionalità dei minoritari consiste, appunto, nel dover compiere tale percorso, cogliendo con estrema sensibilità i significati delle cose e rendendone partecipi gli altri attraverso i messaggi lasciati sul territorio .

Poiché non è una filosofia o una teoria estetica che ci vene tramandata, ma un messag­gio che si configura precipuamente in una fondamentale intuizione, si può definire come il sentimento di una costante analogia tra l’esperienza estetica e quella morale.

Esse sono caratterizzate da una inseparabilità che trova il suo significato più profondo nel fatto che non si possono vituperare o sprecare la natura e i pro­dotti dell’arte minoritaria senza che l’uomo senta che la stessa estraniazione è stata perpetrata nel suo intimo.

Prendere coscienza di tutto ciò, del profondo rapporto esistente tra arte e la comunità o, meglio, della esistenziale relazione tra l’uomo e ciò che ha prodotto la natura, da lui stesso o da lui e dalla natura insieme.

Se all’interno della comunità gli uomini non raggiungono il principio fondamentale di comuni intenti, l’itinerario di solitudine ed ostinato prevaricamento finirà per appiattire i valori di solidarietà che hanno rappresentato il loro punto di forza, incernierate nelle regole non scritte,  integrate da rigide metodiche.

Protocolli in cui le manifestazioni o progetti atti alla valorizzazione della minoranza devono lasciare una traccia dell’eco pubblicitario, oltre a essere meticolosamente trascritti, in modo che gli eventi non rimangano lettera morta, ma fornire l’esperienza utile a manifestazioni future per il continuo progredire.

Allo stato, solo la volontà di comuni intenti rappresenta l’unica arma da adottare, per rilanciare il modello arbëreshë, valorizzando gli aspetti etnici attraverso protocolli a cui ogni comunità deve capitolare, così come identicamente fecero con i
Principi di Bisignano, realizzando i presupposti economici che sollevarono l’intera provincia da quel intervallo storico che la stava soffocando.

È utile realizzare manifestazioni che abbiano regole predefinite da rispettare, in altre parole realizzare una sorta di convenzione che rimanga sempre in vigore, dettata degli stati generali, cattedratici, comunali e letterali.

Una convenzione per la prosecuzione dell’etnia albanofona a cui ogni centro, al fine di produrre il bene per l’intera comunità, sia consapevole che le manifestazioni non possono prescindere da regole comuni, utilizzando quegli antichi principi della famiglia allargata, che hanno fatto la forza degli arbëreshë.

Non vi è dubbio che l’iniziativa deve partire dall’alto dell’Istituzione Regionale preposta, al fine di stipulare una convenzione in
cui le linee guida producano la valorizzazione di tutti i siti di etnia minoritaria senza prevaricazioni, in un accorato girotondo, simile alle “Valle” le tipiche danze di Pasqua, in cui gli albanofoni tutti usano identificarsi.

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CULIECET NDE PASCH

Posted on 04 aprile 2012 by admin

NAPOLI ( di Atanasio Pizzi) – Dei riti che accompagnano l’etnia arbëreshë nel corso dell’anno solare, quello della Pasqua è anticipato da un singolare consuetudine: accumulare selezionando un rilevante quantitativo di uova.

Il rito ha inizio ad opera delle domme, intente a raccogliere in una cesta di vimini, riposta su uno dei due bauli di casa e di giorno in giorno depositarvi uova che le  galline di casa giornalmente depositavano;  il cesto poi sarebbe stato colmo quando, la Pasqua era  alle porte.

Gli eventi che potevano rallentare tale consuetudine  era l’efficienza organizzativa del pollaio di casa in specie se  Poliàtë mu bhën Closh” e questo diventava un problema, risolvibile, solo con l’abbondanza dei cesti delle vicine.

Le uova, segno fondamentale della Pasqua, sono l’ingrediente primario per realizzare i manufatti dolciari, che diverranno l’emblema sulle tavole degli arbëreshë.

Il rito, per la produzione degli ornamentali e articolati manufatti Pasquali, aveva inizio con la setacciatura della farina per poi produrre, con gesti e ritualità autoctone, l’impasto che prima dell’alba, doveva essere posto a lievitare, così durante tutto l’arco della mattina la preziosa amalgama avrebbe avuto il tempo per ottimizzarsi senza particolari espedienti. Continue Reading

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Protetto: 150° – PERCHÉ GLI ARBËRESHË NON SONO SALITI SUGLI ALTARI?

Posted on 01 aprile 2012 by admin

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ARBËRESHË – Italo-albanesi

Posted on 30 marzo 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’arberia è nei fatti disunita e senza fini comuni, ha una bandiera che non è la propria, non ha un centro politico comune che abbia rilevanza nelle sedi della Nazione Italiana.

Smembrati in 50 e più comuni, indipendenti l’uno dall’altro, senza alleanze, senza unità di interessi materiali e non, inceppati con il progresso, privi di manifatture che vivono dell’incremento di duecento anni orsono e le attività commerciale non splendono certo della diversità di cui si va tanto fieri.

Eccellenze  territoriali che abbondano in una provincia, difettano in un’altra senza che si sia mai posto un adeguato senso comune per ristabilire un ideale equilibrio.

Trenta o più modelli linguistici ci uniscono in una fratellanza che se da un lato ci fanno dialogare gli uni agli altri dall’altra ci pone alla stessa stregua di  estranei.

E tutti questi paesi, sono governati dispoticamente privi d’intenti comuni, è indubbio che una regione che si potrebbe definire arbëreshë esiste e potrebbe formare un grande gruppo politico economico e sociale unitario, ma allo stato è pura utopia.

Non vi sono cinque, quattro, tre, o più Arberie, esiste una sola, i suoi confini sono delineati nei contesti più suggestivi del sud Italia; il risultano di simboli della loro natura. Continue Reading

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LA CANZONE DEL CANE TURCO

Posted on 29 marzo 2012 by admin

 

 

 

 

 

NAPOLI – (di Atanasio Pizzi) –  Gli usi, i costumi e le tradizioni popolari degli albanesi in Calabria, anche se hanno subito
ingerenza, hanno conservato, in buona parte, la schiettezza della loro terra d’origine.

A Santa Sofia d’Epiro il linguaggio è quasi originale, la si noti nella canzone qui di seguito riportata:

 

Linghirjan di vochiche

Tinghe pe eia pevo u.

Unghe pe da pevoti.

Iscia gna Turca te aio vota.

Ma gna vascia ta liturid,

Liturid pra va sceccia.

Poi me raun te gna erna:

Se, ti zot, e ti gra mastra,

Lascom ta liturid,

Ta Teja gna pica uja.

Ghat goja, chieni Turcu!

Unga dua te cupa Jote,

Se u dua te grusti imma,

Mo pregasti tanazon

Te driggon diza ribara,

Za ribara e za grusara

Za grusara nga ghiacu isaji,

Appena sosi fialzan

Marrivati za ribari,

Za ribari eza grusarì,

Za ribari nga ghiacu i sufi

Turcona ma fundacosan,

Vasciana ma je rumbiena,

Conca viena me sosudidh.


La traduzione italiana è rilevata da una Rivista del 1890, così tradotta:
Discorrevano due fanciulli

 

Tu non vedesti ciò che vidi io

Io non vidi ciò che vedesti tu

C’èra un turco a quella volta,

con una giovane legata,

legata per la treccia per la treccia,

e mani e treccia.

Poi giunsero ad una fontana:

O tu, Signore e gran signore,

allargami la legatura.

Affinchè io beva un po’ d’acqua

Che ti mangino la gola,

cane turco, non ne voglio alla tua coppa,

perché voglio al mio pugno

Poi pregò il Signore di mandarle alcuni difensori,

alcuni difensori e parenti,

difensori del sangue suo.

Appena che ebbe finita la preghiera,

arrivarono i difensori,

alcuni di­fensori e parenti,

difensori del sangue suo. I

l turco stran­golarono,

la fanciulla gli tolsero.

La canzone è terminata.

Un argomento, come si vede, che si riporta al secolare odio verso i turchi, invasori della terra d’Albania, violenti e selvaggi, che, per le efferatezze commesse avevano co­stretto i vinti a fuggire in cerca di una patria adottiva.

Ma la cosa che ha più rilevanza, sta nel fatto, che la poesia è scritta con l’alfabeto delle magiche 21 lettere.

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MILANO 1-9 APRILE 2012 – LA PASSIONE DI CRISTO NELLA TRADIZIONE POPOLARE ARBËRESHË.

Posted on 29 marzo 2012 by admin

GINESTRA  (di Lorenzo Zolfo) – Le immagini della Via Crucis del Venerdì Santo di
Barile, sacra rappresentazione della Passione di Cristo con personaggi viventi, la più antica della Basilicata e probabilmente del Sud Italia, approdano in Lombardia. Dal prossimo 1 aprile e fino al 9 aprile al Circolino di Crescenzago di Milano si possono ammirare le foto della Via Crucis di Barile, dove Fede, tradizione e storia si tengono per mano. E’ una giornata in cui il paese rivive la sua vicenda umana con orgoglio e passione, conservando una tradizione che costituisce la storia naturale di questo popolo, custode geloso della propria civiltà. L’idea di allestire questa mostra è venuta ad un emigrante di Barile, Giuseppe Carfagno. Romanzi, racconti, poesie, e poi fotografia, pittura,
scultura: Giuseppe Carfagno è l’incarnazione dell’animo poliedrico. L’esperienza di docente, ed il conseguente quotidiano rapporto con generazioni sempre nuove, lo spingono all’incessante ricerca di finalità e metodi espressivi originali, ed alimentano la sua potente vena artistica. Autore di 20 tra romanzi e raccolte narrative, giocoliere impudente di realtà quotidiane come divulgatore infaticabile e poi insaziabile ricercatore e coinvolgente umorista, Carfagno scommette su passato e futuro come farebbe un bambino, senza paure. È l’audacia di chi guarda alla vita con la voglia di stupirsi, che lo porta poi a stupire noi. Contattato, il prof. Carfagno, spiega i motivi di questa mostra: “L’idea nasce quasi due anni fa. Era agosto, avevamo da alcuni giorni inaugurato una grossa mostra fotografica al Palazzo Frusci, dal titolo “Sessant’anni di scatti fotografici a Barile”, con foto di mio padre e mie lungo un arco, appunto, di sessant’anni.  Arrivò un gruppetto di giovani di Firenze, di passaggio per turismo e, vedendo alcune immagini della Via Crucis, mi dissero: – Perché non ne organizzi una anche a Milano? Così saranno in molti a conoscere questa spettacolare rappresentazione e una volta che avranno visto queste foto, vorranno di sicuro vederla anche dal vivo. E’ anche così che si sviluppa il turismo. Mi sembrò un’ottima idea. Ecco, è stato quell’invito, quello stimolo, a far scattare la  molla. Ho trovato la sala: il refettorio di una splendida abbazia medioevale, Santa Maria Rossa; ho trovato persone disponibili, i membri del Circolino, il Cral collegato, ed ecco che, dopo alcuni mesi di impegno collettivo, la mostra è pronta. Vi sono più di cento opere, quasi tutte di medio-grande formato. La più grande rappresenta una panoramica di Barile, mentre sonnecchia alle 6,30 d’un mattino d’estate, di un metro per cinque. Occupa per buona parte la parete di fondo. La mostra è
dedicata a Remigio, mio padre, che a Barile, dal ’55 al ’75, ha scattato tantissime foto, specialmente alla Via Crucis. Nel 1960 ha realizzato anche un cortometraggio che verrà proiettato nei giorni della mostra”. La mostra è composta da tre sezioni:il percorso dei personaggi lungo le vie del paese (5km) con alcuni confronti col passato, che mettono in evidenza i cambiamenti nei costumi dei personaggi e la continuità della devozione;il backstage:
i personaggi sono ritratti alla fine della vestizione e prima del percorso;i volti: primi piani di alcuni dei personaggi più caratteristici.

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Protetto: SE IGNORATE I FRATELLI GIURA, COSA FESTEGGIATE: LI, DI FRONTE?

Posted on 24 marzo 2012 by admin

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Protetto: U FIASHE ARBERESHE E SCRUEGHE GLITIR

Posted on 21 marzo 2012 by admin

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Protetto: SHPITH E CATUNDETH ARBHËREHË

Posted on 16 marzo 2012 by admin

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Protetto: CATOI: UN MODELLO DI PROTO ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE MINORITARIA

Posted on 13 marzo 2012 by admin

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