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Z., TEBE E AGNOIA (Zëtònàtë)

Z., TEBE E AGNOIA (Zëtònàtë)

Posted on 20 maggio 2023 by admin

Laffresco-in-cui-è-rappresentato-il-mito-di-EdipoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – È facile immaginare una scena pittorica realizzata, tra due episodi emblematici della vita di “Terra”, secondo la volontà del tempo breve (dove raffigurare la nascita ad Est, e il Termine a Ovest); concretizzando così, il tutto, in tre momenti distinti: Z., la Ricerca dell’inesistente; Tebe, la città di Edipo ed Agnoia, la capacità di trascurare il sapere.

Zètema è per Socrate, Zëtònàtë per la R.s.d.A. sono la ricerca certa e rigorosa di ogni nozione, di ogni valore utile a delineare la storia vera e, noi potemmo aggiungere, privata di ogni sorta di gàllinarë.

Il tema che ogni proclama deve seguire non può esclusivamente mirare a diventare leggenda o filosofia di mito, ostinandosi a innalzare cose che non fanno altro che arricchire di contenuti i disastrosi percorsi dell’ignoranza.

Quando si affronta un tema per rilevare ed esporre i trascorsi della storia, non si tratta di illustrare o comporre la più suggestiva, conveniente o illusoria leggenda, oltremodo orfana dei minimali principi di confronto, altrimenti si termina con l’alimentare il braciere dell’ignoranza, col la polvere degli errori rubata per innalzare glorie occulte.

Non si opera producendo o disegnando tragedie inventate da altri paralleli o meridiani e, siccome sono del passato dovrebbero essere vere, una favola una leggenda rimane sempre tale, pur se è stata garantita da Z.

Per questo, ad oggi urge spiegare e raffigurare, avvenimenti, luoghi e stipule di archivio, in tutto, una tessitura attenta, confrontata con le cose esistenti, questo e solo questo è il modo per fermare il mitizzare o auto eleggere, sé stessi, per il riconoscimento, con variegati colori della palese non conoscenza.

Questi accenni di cromatica apparizione, della moderna storiografia, sono l’introduzione per risvegliare l’interesse verso, un’emergenza a dir poco epocale, alla quale, per certi versi, non hanno voluto rispondere eccellenze senza eguali, e chi legge e compone le cose della storia, si deve rendere conto che il momento che viviamo ha bisogno, di gruppi di lavoro in molteplici discipline e, non di semplici giullari di corte, sempre meno formati dei cortigiani e falsi regnanti.

Andare alla ricerca di Z. con le inquietudini di Edipo in compagnia di Agnoia, al giorno d’oggi e molto semplice, giacché non tutti studiano leggendo le cose del Baffi, con l’educazione profusa da Teresa Caldora, come ebbe fortuna di avere il figlio Miche.

Essere un esperto in diplomatiche non è certo mestiere che possono fare i comuni giullari/e, in altre parole, tutti quelli/e, allungano la coda in archivio e nel contempo allungare le orecchie, per capire lo strombazzare dei Doria con le navi per il macero.

Non sono più concepibili esposizioni a dir poco inesistenti di fatti uomini cose e luoghi privi di alcuna struttura di ricerca comparata, il cui fine termina sempre con lo svolgersi di fatti e cose banali, se non addirittura inesistenti o attribuite ad altri faccendieri dell’epoca.

Ripetere due giorni di letture e componimenti dell’ultima ora e, quindi senza radice, serve solo ad incantare i comuni viandanti; certamente, non quanti hanno nel cuore, nella mente la storia e, non abbisognano di leggere le cose, perché gli esperti leggono a casa per poi esporre in pubblica conferenza.

Oggi non servono gli scolaretti furbi, i quali non avendo studiato a casa, interrogati alla lavagna, lasciavano il libro aperto, al primo banco per truffare il professore.

Certamente sono bugiardi con se stessi e con il sistema sociale denominato sapere per questo ancora oggi per ricordarsi le menzogne devono scriverle, giacché, figure storiche di poca memoria.

I bugiardi nella storia si dice che siano tutti cresciuti nei pressi dei reflui che dal Trapeso, ai torrenti producevano maleodoranti vitamine per la mente e quanti li respiravano in adolescenza, non certo incameravano lucidi sostanze per la mente.

Solo quanti hanno avuto la fortuna di sviluppare il proprio acume, seguite da madri e nonne speciali, note come Basile Caruso, Guido e Miracco hanno ereditato i principi della decenza, garbo, solennità e del fuoco, perché la formazione della saggezza viene trasmessa con somma di completa grazia, solo da regine, del costume, del conversare, del fuoco e della casa.

Solo chi è stato allevato con questi protocolli, oggi prova dolore immenso nel vedere o sentire compromesso senza misura i quattro principi cardinali del nostro essere minoranza, ovvero, Idioma, Consuetudine, Canto, Costume e Religione.

Vedere spezzettate queste storiche radici, ritenendole al pari della “nduglja insaccata a gennaio “e, ricevere sin anche l’avvallo delle istituzioni di ogni ordine e grado, è il termine della disciplinare Zetema, dove ad essere protagonista di ogni cosa non è la storia.

Le competenze di ricerca non sono delle istituzioni che hanno solo il compito di formare, un po’ come facevano le quattro nonne; la mono disciplina, fa solo danno e se un dipartimento si illude perché ha avuto esperienze, in discipline specifiche mente e fa danno.

Vero è che riferire di storia, architettura, ambiente e ogni sorta disciplinare non presente nei risicati piani di studio perseguiti, senza riferimento a cose materiali ed immateriali di una ben definita macroarea, è solo auto eleggere i portatori di code e origliatomi delle navi al macero.

E terminato il tempo di appellare le cose o i gruppi di generi secondo termini di “IA” perché chi studia e conosce i processi sociali, sa bene che il temine non ha radice di nobili principi anzi è tutto il contrario di buone cose e nobili principi.

Ormai si va avanti con l’esempio di bambini e dei peggiori che vogliono dare lezioni si ambiente costumi e progetti pei i domani e nel contempo all’uomo accadono le cose più penose che l’uomo comune avrebbe ma immaginato accadessero.

Irriverenze di una tale leggerezza che un tempo si prospettavano per spaventare le nuove generazioni o spaventare le più adulte, oggi si organizzano con una tale incoscienza, che non ha precedenti, come rievocazioni delle peggiori giornate della nostra storia accompagnati da incoscienti suonatori; santi protettori presentati con effigi a dir poco blasfeme, imponendo alla mano benedetta, di dover apparire come quella dei mammasantissima o appiattire il confine tra cosa pubblica e credenza religiosa.

Non è concepibile che sia rimasta la natura l’unica capace di redimere e far riflettere gli omini del continuo poltrire, sicuri che poi gli astanti un giorno possano essere premiati.

Oggi si vorrebbe tutto elettrificato dalla luce del sole, e vagare con e pile cinesi, senza guardare che chi viaggia per cielo, ogni volo di passaggio, inquina più di mille auto che fanno traffico nelle nostre città.

Alle cose della natura che dovrebbero rendere migliore la vita degli uomini, mancano solo picconi, pale, carriole e zappe; ora mi chiedo, invece di fare e raccontare le inesattezze della storia che è cosa raffinata e complicata che altri compilano da decenni.

I tanti addetti, perché non tornano alle cose del passato e, senza migrare come fecero i genitori, i quali vergognosi di fare i contadini a casa propria lo andavano a fare nelle terre di confine.

Oggi nella nostra regione serve rendere l’agro migliore, sotto l’aspetto produttivo dei cunei agrari, senza bisogno di risalire al tempo del Monte del Grano, o magari fare solo attività utili dell’equilibrio idro geologico, senza appesantire cementificando anfratti, che ormai sono pronti per la tragedia.

I bambini devono andare a scuola e studiare, i genitori produrre e confrontarsi tra loro per valorizzare al meglio tutte le consuetudini in eredità in fraterna continuità con l’ambiente naturale buono; i preti benedire e infiorare le chiese, le mamme crescere ed educare i figli, almeno, presentarli con decenza di colori e significati beneauguranti per l’onore della casa, senza esporre i minori, per una irragionevole grazia, con l’incompreso collare di una scellerata attesa materna.

Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, notoriamente, incantate e distratte verso la conoscenza, utile o meglio indispensabile, per la valorizzare e promuovere la storia le cose e gli uomini, in tutto, le eccellenze locali, “maliziosamente”, hanno taciuto o per così dire, con il braccino della mente molto corta o incolta, danno valore con men­daci ed ingrate osservazioni di alcuni stranieri che, non potendo fug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, non hanno potuto altrove trovare agio, sanità e quiete, sotto  questo cielo Arbër, proposto con la pro­tezione delle nostre maliziose regole, nate per valorizzare le cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il ruolo, immaginandolo campanile.

P.S. Figure testi e conclusioni non sono liberamente interpretabili o diffuse se non con il consenso di liberatoria dell’autore che ne detiene il significato e il valore culturale fruibile in sola lettura.

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I PORTICATI IN TERRA DI SOFIA (Deretë Thë Valljtë)

I PORTICATI IN TERRA DI SOFIA (Deretë Thë Valljtë)

Posted on 07 maggio 2023 by admin

CatturaNapoli AdrianoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’abitato del casale Terra di Sofia, specie la parte antica e, antecedente al secolo XVIII, si articolava lungo vie, incrociate da vichi e spazi circoscritti, da cui si accedeva anche da porticati generalmente Arcuati a tutto sesto, con orizzontamento in legno nello sviluppo lineare.

Il sistema consentiva di accedere al tessuto urbano dove ruderi, fondaci, botteghe e case, disegnavano un labirinto, privo di edificati di rappresentanza, complessi monastici, se non la chiesa matrice.

Un insieme costruito di rudimentali elevati o componimento caotico di chiara ispirazione orientale/bizantina, influenza trasportata nel cuore e nella mente, di quanti giungevano dall’Oriente Mediterraneo, per unirsi, previo confrontarsi, con gli indigeni in sofferenza.

All’interno della maglia edilizia della Iunctura così organizzata, i vicoli ciechi, anticipavano, la ‘privatizzazione’ o ‘semi privatizzazione’ di un ben identificato contesto di famiglie, legate da vincoli di parentela allargata, e per questo in contiguità; i fondaci relativi di primo insediamento, per tanto, erano comparti abitativi con Giardino e Orto Botanico annesso.

I porticati rappresentano la misura o meglio il metro di afflusso e deflusso di un a ben identificata porzione dell’abitato gli sheshi, oggi noti come Rione di pertinenza, la cui radice si può identificare nella toponomastica consuetudinaria o ancora se presente e non violata, in quella di primo approdo della legge 1188/1927.

I porticati ancora presenti o meglio che resistono alle innovazioni di recupero, non secondo la scuola del restauro, restituiscono ancora oggi un piano strategico secondo il quale, chi veniva e volesse confrontarsi con i residenti, non aveva un accesso all’interno del centro antico, sormontando cavalli o animali da soma, ma procedere al seguito o o anticipando il transito del quadrupede.

Sono tre che delimitano il rione di “Ka Rìnë Relletë”; quattro, il Rione Spizj; due sono quelli che delimitano l’antico Trapeso; e tutti allestiti lungo il confine del centro antico di radice bizantina.

Tutti i supportici, uniscono i primi livelli di abitazioni in sicurezza dagli estranei in osservazione, essi sono realizzati tra abitazioni nobiliari o comunque famiglie e casati, legati da patti o vincoli di parentela, per gestire in sicurezza abitazioni e nel contempo, circoscrivere vanelle di pertinenza, corti, giardini, orti botanici comuni o privati, in tutto, spazi di scambio e confronto, denominate in Arbër “Vallj”.

Sicuramente l’abitato in Terra di Sofia, aveva altri supportici, ma le vicende storiche del costruito, sottoposto alle prove degli eventi tellurici, che non hanno mai smesso di mettere alla prova il genio degli elevati, lasciano presupporre, un antico costruito storico, con altri passaggi di inchino a completare la parte esposta a sud e sud-ovest.

Fare un resoconto del sistema urbanistico dell’epoca e una impresa non semplice ma con le dovute cautele, magari confrontando altri impiantì urbani limitrofi o di macro area, si potrebbero estrapolare misure parallele, se non simili e, definire teoremi, storicamente provati, da affidare come memoria delle generazioni a venire per componimenti più complessi.

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ED ECCO APPARIRE ALL'ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

ED ECCO APPARIRE ALL’ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

Posted on 17 aprile 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le istituzioni, l’organizzazione e le curiose considerazioni sversate verso la Regione storica diffusa degli Arbër, ad oggi, perché poco conosciuta o per meglio dire maliziosamente velata, per meglio dare spazio e lustro a ignari osservatori stranieri, parlanti e non.

Questi che fug­gendo dalle miserie e le turbolenze delle loro contrade di provenienza, si sono illusi di trovare, altrove,  pace, sanità o quiete mentale; quella che sotto il nostro immenso tetto di accoglienza e rispetto per lo straniero, come disposto dalle consuetudini, le migliori che onorano l’umanità; per  ignari fosforescenti luminari, sono stati intesi come arretratezza culturale, traducendo le nostre fondamentali attività di rispetto dell’ospite vagante, in prostrazione, ignoranza o inadeguatezza di cogliere cose della storia che ci appartiene.

A ben vedere ciò che allo straniero, appena colto è sfuggito è il rispetto, o meglio, il decoro della, ingiustamente, malmenata patria, la quale, siccome storicamente non usa un libro di manuale ne usa stendere al sole pubblico le proprie intimità, o stato fisico delle cose, a quanti volessero deliziarsi di materiali curiosità, diventa impossibile per lo straniero errante trovare le notizie che rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole solo a un Arbër.

Questo è lo scopo che si vuole con­seguire col il presente lavoro e, chi volesse apprendere deve leggere così può conoscere cosa è la nostra regione storica per capire anche cosa è una capitale, e diventare giudice esterno pubblico e imparziale.

Nel comune conversare, pubblicare e diffondere le cose che dicono siano parte essenziale delle regioni, di quella lingua di terra che si insinua, fiera nel mediterraneo centrale, manca sempre il concetto di guida capitale.

Si riferisce per non seguire la scia incompiuta delle terre che segnano i contorni della Regione storia diffusa degli Arbër, qui accade spesso che quanto si fa la conta, dei centri abitanti di questo insieme diffuso, questa varia e si modifica, seconda del bimbo in età scolare che conta, e secondo dell’impegno e la volontà che in genere hanno gli scolaretti, la conta varia da ventisette a cinquanta, senza mai comunque contemplare mai capitale, per cui dovrebbero essere solo paesi senza una regola.

O meglio se volessimo essere severi, come avrebbero dovuto fare molti, anzi, troppi maestri della età scolare vissuta, si sarebbe dovuto iniziare prima indicando una capitale e, poi la variopinta conta, di Casali, Borghi o fossati con ponti levatoi in difesa.

Questi generalmente un elenco di sostantivi di aggregati urbani, senza tempo epoca e senso, in tutto una regione culturale priva di contenuti identitari, palesando, che l’insieme culturale al centro mediterraneo è resta ignoto agli attori, o meglio a quanti fanno il mestiere di comparse culturali.

Mai nessuno ha saputo contare e spiegare perché la regione storica è composta da 109 agglomerati edilizi paralleli edificati dagli Arbanon, a cui sia stata mai aggiunta aggiunge la capitale che dal IV° secolo, prima di Cristo, senza soluzione di continuità, si esprime con la metrica dell’idioma Arbër.

Nessuno espone mai i motivi perché siano stati edificati o quale esigenza ha intercettato proprio quei luoghi e chi li ha circoscritti in ventuno macro aree.

Ad oggi non vi è alcuna consapevolezza del dato fondamentale che Napoli sia la capitale di questa regione storica, irremovibile, o dei morivi che la determinarono e fecero scaturire il protocollo di accoglienza e integrazione di un numero rilevante di minoritari, i quali con educazione dei fatti della storia non si sono mai sovrapposti o insediati in luoghi appartenenti o dove vissero altri popoli ancora presenti.

Chiese, conventi edificato civile, luoghi di confronto, percorsi articolati, farmacie private, vicoli articolati e supportici completano il senso della capitale dald0le per diritto l’inclusivo numero di 110.

Vero è che proprio in questo luogo antico si evidenziano per la prima volta le forme Alessandrine, importate dalle regioni del Nilo bizantino, menzionato, immaginato e, mai smesso di formarsi, parlando solo ed esclusivamente la lingua antica, avendo come riferimento le tipiche disposizioni urbanistiche e architettoniche, mai compromesse e ancora presenti nella capitale così come nei restanti 109 Katundë.

Napoli per questo è il luogo dove storicamente, tutte le eccellenze dei paesi Arbër si sono formate, riverberando poi il loro sapere senza eguali in tutto il globo, luogo illuminato e illuminante, che senza soluzione di continuità da oltre un millennio è ritenuto porto sicuro per la formazione degli Arbër, provenienti da ogni parte della regione storica.

Un luogo dove il tempo non consuma la consuetudine, l’idioma, il genio, la religione, i costumi, le buone intenzioni sociali degli uomini, perché qui tutto viene opportunamente tutelato per il futuro delle generazioni a venire.

È a Napoli che nasce la prima università che doveva tutelare l’idioma degli Arbër e non come avviene nell’enunciato della legge 482/99 dove si tutela la lingua moderna di quella terra abbandonata dalla metà dei residenti proprio per evitare le regole della su citata legge.

Oggi purtroppo e con rammarico duole affermarlo, con dati di certezza, l’essere forgiati a valorizzare gli ultimi, ovvero quelle figure, che hanno fatto danno in tutto l’ottocento, sino agli inizi del novecento, rimanendo perennemente scolaretti a cui venivano oltremodo corretti i compiti stilati in malo modo, perché capaci solo di accompagnare la mula che doveva far ruotare la macina ed essere inutili accompagnatori di quadrupedi da traino in luogo circoscritto.

Mentre ne contempo a Napoli educati e discreti esperti professori delle diplomatiche delinearono le linee guida della lingua degli Arbër, mai da nessuno comprese per essere arricchite, interpretate e divulgate, anzi utilizzati vilmente per attribuire colpe di una infamia senza precedenti.

La conferma che la metropoli partenopea sia Palepoli che Neapolis, non sia una cattedra a misura dei comunemente, lo racconta l’episodio qui citato per grandi linee, avvenuto poco tempo addietro, i cui protagonisti abituati a esporre argomenti e cose a platee di incultura o mediocre formazione, hanno dovuto correre ai ripari e cambiare titolo all’evento.

Questi mai approdati nella capitale nel trasferitisi, a presiedere un evento a dir poco inopportuno hanno dovuto piegare la loro debolezza culturale, “del discorso di tizio” poi rendendosi conto della presenza di una saggia platea, cambiare registro e seguire i consigli di chi sedeva nel fondo della sala, che con saggezza e garbo suggeriva di variare il tema e riferire “con il sottratto di tizio, a spese di sempronio” oltremodo quest’ultimo lasciato in pena ad essere ancora inforcato un’altra volta idealmente, perché di questo luogo resta a tutt’oggi resta figura illustre e complicata da comprendere per la mandria approdata nella capitale.

La figura rima della storia culturale degli Arbër, qui in questa nota su citata, oltretutto è la stessa che tracciò nel 1765 le prime trame dei sostantivi linguistici spiegati e grammaticalmente riportati, mai compresi capiti e saputi leggere da alcuna figura, o addetto preposto di questa storica e incompiuta grammaticale.

La stessa ripresa dal figlio di questi, con garbata educazione e fine riferimento, cercando di far emergere per essere diffuse, nel 1860, analizzando e diplomaticamente confrontando, documenti e attività, che doveva avere come risultato, quanto non era stato mai prestito, ma vere e proprie rapine di documenti, ricambiati con pene di studio, le stesse che restano, ancora accatastati, in chissà quale scaffale privato, preferiti lasciarli marcire, in quanto conferma scritta.

La capitale degli Arbër è il luogo ideale dove apprendere come vivere e apprendere atteggiamenti e principi, per dare solida continuità alla patto che gi Arbër hanno fatto con la terra di origine; la capitale è il luogo dove per fare abiti femminili di rappresentanza e da sposa, si tessevano, seta e cotone in egual misura; la prima per dare lucentezza e la seconda per imprimere memoria di piega; la capitale è il luogo dove la mente degli uomini produce cose buone e le strade portano il nome delle più antiche attività; la capitale ha le chiese orientate per rispettare la maggiore che indica l’origine di provenienza e di credenza degli storici abitanti.

La capitale è un luogo da vivere e non per appuntare gli episodi e le persone care del passato solcandone o sminuendone la memoria con fatica e pene fuori misura; la capitale non si disegna sui muri degli elevati della memoria, perché le cose vanno vissute e dare continuità agli uomini migliori che hanno saputo distinguersi.

La capitale non è uno sversatoio pubblico dove fare cumuli per galli che segnano il tempo, abbagliati dal sole; la capitale non è neanche un lavinaio dove indossare la parte meno nobile del vestito da donna e andare china e schiena agli ospiti, esaltandosi a ballare con la zòghà sollevata e senza vergogna dare il fiore quando si parte.

La capitale è il luogo dove se saggi con misura, avrai sempre un palco da dove esporre cose in apparenza contorte, perché chi ti è amico fraterno. Pronto ad aiutarti a estrapolare il meglio di luogo e cose.

La capitale ti accoglie anche al tempo della guerra, ti fa studiare per migliorarti e salvare gli altri, senza preferenze di genere o di ricchezza.

Va a questo punto sottolineato con forza, il dato secondo cui, è questa città ad aver dato i natali culturali alle figure più emblematiche della storia espressa in forma di puro genio, sono proprio questi ad aver seminato una realtà culturale che tutt’Europa dal XVII secolo al IXX secoli ci ha invidiato e corsi nella capitale a copiare o prendere appunti dai testi,

Cosi come hanno fatto i mediocri o meglio, gli eterni secondo, che per viltà correvano nei paesi di famiglia, a rifugiarsi per non assumersi tutolo di responsabilità o pene di carcere.

Napoli è la capitale poco dopo l’insediamento del Re Carlo III, dopo la compilazione della sua guardia privata, denominata Real Macedone, viene preferito un prete Arbër, per la guida spirituale dei suoi fidi militari, una scelta non casuale, infatti il prete venne chiamato dal piccolo Katundë di Calabria Citeriore nelle colline della Sila greca.

Nella Capitale partenopea e in particolare nel fianco ad ovest della “Cala di Chino” aveva luogo il presidio storico culturale Europeo, dove furono preparate le strategie portarono il collegio di San Benedetto Ullano a Sant’Adriano.

L’opera irripetibile, o meglio scissa oltre un secolo dopo, venne sostenuta e proposta caparbiamente ad opera del Baffi, i Bugliari e del Bellusci, con il vile a remare contro e pensare terminazioni dei liberi pensatoi, gli stessi che con la loro opera consentirono a Garibaldi il passaggio senza confronto, nelle terre in Calabria citeriore e non solo.

E sempre nella capitale che venne pensato, progettato e poi realizzato il primo ponte al mondo, su catenarie e pilastri singoli, che lasciò senza respiro la migliore ingegneria europea dell’epoca, che sperava di vedere il re cadere nel fiume e bagnarsi le vesti dal pubblico corso solo per questo risultato, che come ben sanno gli autori, l’opera ancora oggi resite alle innumerevoli battaglie degli uomini e del tempo.

Sempre nella capitale della Regione storica diffusa degli Arbër nacquero i primi giornali e settimanali con gli inserti di cultura, avvenimenti e costume, al fine di rendere merito alla cultura diffusa iniziando dal basso, o porre le basi canore delle manifestazioni oggi ritenute a torto memorie di battaglie e guerre cruenti.

Le vicende che confermano che la capitale degli Arbër, che tutelano il nostro patrimonio identitario in esilio perenne è “NAPOLI”.

Se alcuno, avesse dubbio o ripensamento, è solo da considerare al pari di quelle figure estranee segnalate in premessa, se poi la loro caparbietà vuole ragione, venite a Napoli: ma questa volta non come ospiti, ma allievi con il ricamo a contorno del collo, come quello appeso al muro, mi raccomando non dimenticate di apporvi il fiocchetto blu sopra il grembiulino.

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VALIJE” ABRACCI DI UNA INTEGRAZUINE A BUON FINE O FESTA DI SANGUINARIA BATTAGLIA VINTA? (Mëma thòi ezënj Vale Vale)

VALIJE” ABRACCI DI UNA INTEGRAZUINE A BUON FINE O FESTA DI SANGUINARIA BATTAGLIA VINTA? (Mëma thòi ezënj Vale Vale)

Posted on 13 aprile 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nelle trattazioni pubblicate e oralmente diffuse, relative all’argomento Valije, non si producono altro che strappi lungo il Lavinaio e, quando trascinati dalla corrente assieme ei tronchi infruttuosi, degenera ogni cosa in banalità senza futuro, come non faceva la consuetudine tramandata per valori indelebili Arbër.

L’argomento, ormai ha superato tutti i limiti della decenza, dirsi voglia, spaziando oltremodo dal ballo, a battaglie e ogni sorta di attività, che vorrebbe la storia colma esclusivamente di attività negative, dimenticando oltre modo i tempi che furono Kalabanon, Arbanon, Arbër, questi ultimi in particolar modo, inclini a dare sé stessi per le giuste cause di amore e fratellanza.

Qui non si tratta di Pasqua, Pasquetta o giorni non comandati, non si tratta del calendario Bizantino, Giuliano, Gregoriano, Romano, del Popolo Napoletano Marmoreo o di qualsiasi odine cavalleresco in voga o alla moda del momento passato, ma a ben vedere si confondono, Cruente battaglie di sangue, con una festa, un momento di giubilare incontro, tra esuli Arbër e indigeni delle colline del mediterraneo peninsulare, per confermare lo storico patto di integrazione tra popoli con diversi e distinti attività di credenza, mai più avvenuto e concordato nelle colline o di un qualsiasi anfratto del mediterraneo.

Tuttavia a ben vedere e dare senso forte e completo a questa manifestazione è opportuno riportare quanto scriveva Pasquale Baffi nel 1775, pubblicato dall’editore anonimo nel 1835 in terza edizione, del discorso sugli albanesi, senza citare la fonte illustre che forniva quelle antichissime nozioni tradotte dal geco antico e trovate, non nella casa di Salita Sansebastiano 16, ma nello “studio al 61” della medesima cala”.

Testualmente qui riportato: “primo pensiero de’ bugliaart d’Albania che sul cadere del secolo XV esularono in Italia, quello di fondare una patria che salvasse contra al tempo, ei figli, e la propria memoria che lasciavano a loro. Non che ponessero in libri alcuna legge, ma ad imitazione di Licurgo piantavano gli statuti ne’costumi e nella disciplina per l’eternità. Essi nelle chiese su’ cui altari i più distinti impressero i loro stemmi, separarono per ogni famiglia i luoghi, e i sepolcri; e come nella patria antica, qui ancora si reputò degradato chi avesse contratte nozze co ‘ forestieri. Essi anche designarono un mese a primavera durante il quale i villaggi degli Esuli ereditari fossero aperti ad ospitare le mutue rusalles, quei grandi cori mascherati che celebravano l’antico paese e gli alti fatti che vi si erano compiuti. “

Se a queste aggiungiamo le note delle eccellenze del XIX secolo, dell’Arbër, critico musicale, Vincenzo Torelli di Maschito, del Magistrato scura Vaccarizzo e del Civitese Serafino Basta.

Questi sono alcune citazioni che chiudono solidamente l’interpretazione della Valije e, non consente in alcun modo a gratuite interpretazioni, senza fondamento storico e consuetudinario, di fare parte, con forme a dir poco inopportune del motivo di questo appuntamento, sigillo di un’integrazione solidamente portata a buon fine.

Torelli/Scura:” Nei Villaggi vivono dei ricordi delle cose gloriose della patria cantano le gesta di Miloscino, Costantino e del Castriota, cantano melodie mai accompagnate da strumenti musicali e le loro giaculatorie sono insieme di tonalità, femminili e maschili adeguatamente e ritmicamente eseguite a voce o gruppi di voci, queste attività prevalentemente erano svolte in maniera maniacale ogni giorno nel andare a svolgere le attività agro, silvicole e pastorali, durante l’esecuzione e al ritorno a sera sviliti dal lavoro.

Se a queste brevi note rilevate dal critico musicale e poi pubblicate dal noto Vaccarizioto, aggiungiamo le note storiche del “Basta”; il quadro di cosa siano e cosa sono alcune Valije e completo; vero è che non lasciando vie di interpretazione inopportune o addirittura gratuite.

Nel Volume XI Calabria Citeriore Fase I; dal titolo” Il Regno delle due Sicilie Descritto e illustrato – opera dedicata alla Maestà di FERDINANDO II: Seconda Edizione, Alla fine della Pagina 84 e l’inizio della successiva nel paragrafo: Etimologia è trascritto quanto segue: “E’ tradizione tra noi, che i nostri padri avessero edificato i primi abituri in due punti diversi, e la vetustà delle case esistenti nel Piano di Magazzino, e nell’estremità superiore del paese ci persuadono a favore. Esistevano in questi due piccoli villaggi due diverse famiglie condizionate entrambe di cognome [……….]; dominate dallo spirito di ostilità, l’influenza che esse estendevano sui loro coabitanti manteneva una viva dissensione, e coglievano l’occasione nei tre giorni di Pasqua, quando solennizzavano i Piekisit (Vecchi), per venire a fatti d’arme, e sfogare i loro rancori. Le cause produttrici dei loro rancori dell’odio dei [……….], che indusse la colonia a scindersi in due partiti, hanno dovuto essere valevoli anche a dare una diversa denominazione ai rioni che abitavano. Nella platea della Curia Arcivescovile con Porcile nel 1469 e San Basile nel 1510 Vien ricordato il nostro paese col nome di Castrum Sancti Salvatoris, la denominazione che apparteneva a piano di Magazzino”

A questo punto è doveroso trare conclusioni e delineare una nuova è più appropriata strategia di studio interpretativo, dell’evento Vallija, le stesse divulgate senza ragione di essere storia o atti reali che appartengono a tutta la Regione storica, la stessa che così facendo, nel breve tempo non avrà più ragione di essere annoverato e riproposto con queste inadatte divulgazioni orali.

Notoriamente il sostantivo Vale, sta ad indicare il conviviale accompagnarsi e non essere mai soli, ezënj valè-valè, raccomandavano che le nostre madri dicevano al fratello che accompagnava la sorella adulta, o un fratello più piccolo, nell’andare da un posto ad un altro, in onore e sicurezza.

Ma era anche il recarsi ogni giorno nei campi a lavorare, che era semplice da attuare soli o senza un momento canoro conviviale, ironica e stimolante canzone, di genere, specie se diretta alla propria amata o amato.

Erano proprio questo modo di procedere a rendere piacevole il duro lavoro agreste; con canti di genere come annotava Scura su indicazione dei principi del canto di Torelli, in genere ad iniziare, erano le donne a cui rispondevano gli uomini, aprendo un suggestivo e stimolante susseguirsi di ironiche e sotto intese affermazioni.

Tutto avveniva con suggestivi e cavallereschi atteggiamenti, in forma malinconica alcune volte, ma sostanzialmente ironia di genere, dove ad essere poste in evidenza, erano le gesta di uomini o donne per la particolare attitudine, non solo fisica, ma questa, pur se piacevole sempre presentata e coperta da solide velature o similitudini ambientali.

Malinconiche sì, ma la maggior parte delle volte erano abbracci ideali o dichiarazioni d’amore, nei confronti del genere amato o ambito ad essere corrisposto.

Oggi tutto è tradotto e confuso in atti di guerra gli abbracci ideali in forma di ballo sono scambiati in atti di accerchiamento e pene di o ricatti da infliggere, ma non è cosi, infatti i conduttori generalmente due maschi per lato del semicerchio, rappresentano l’uomo, ovvero l’operosità o la forza, di contro  le ragazze o donne che lo completano, rappresentano la parte gentile, ovvero il corpo che genera, da difendere equando ti avvolge tutto diventa magia e genera specie, identità: la vita di quel popolo.

Le Valie non sono una festa di un popolo bellicoso, violento e bellicoso, pronto a presidiati e ricattarti, in quanto esse rappresentano la lucentezza e contengono tutte le cose migliori di ogni Arbër, in forma di generi, costui, credenza; i colori migliori che il genio degli Arbër ha saputo selezionare per riverberare a conferma dell’integrazione e il buon fine a cui si è addivenuti per la conservazione della identità del popolo più longevo del bacino mediterraneo.

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USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

Posted on 06 aprile 2023 by admin

Colore

NAPOLI (Atanasio Pizzi Basile) – Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, perché poco attente alla conoscenza utile per le minimali cose da valorizzare, maliziosamente, hanno taciuto dando valore con men­daci ed ingrate osservazioni, di alcuni stranieri non parlanti, non potendo sfug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, non hanno avuto, per questo, modi di trovare altrove agio, sanità e quiete, sotto questo amenissimo clima proposto con la pro­tezione delle maliziose regole, nate per valorizzare le cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il loro ruolo immaginandolo campanile.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il loro ruolo immaginandolo campanile.

A rivendicare dunque il decoro della nostra ingiustamente malmenata patria, rendeva necessario un sito come Scesci i Passionatit che in  forma di manuale, ne met­tesse con chiara  parsimonia lo stato fisico e morale di ogni cosa e figura, in modo che anche uno svagato lettore che vo­glia solo deliziarsi di materiali, curiosità e avvenimenti, sia co­stretto suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi  nello stesso tempo quelle notizie che possano avere un posto sicuro, rendendo facile l’acquisire di tutte le comodità dilettevoli della storia e le cose Arbër.

Tale scopo si vuole giunge col presente lavoro e siate voi tutti giudici, o pubblico imparziale.

Se si esamina la storia degli interventi urbanistici nei “Centri Antichi IN Regione Storica”, si ha la misura di come in queste latitudini, le basi del restauro siano stati argomento mai approdato, così come l’analisi delle “tipologie edilizie” e ancor meno le direttive dei piani del colore, tutti indispensabili, per difendere questi ambiti irripetibili della storia del Mediterraneo.

Vero è che ha preso scena l’interesse del colore, non per valorizzare ripristinando lo stato storico dei fondamentali identificativi per valorizzare li luogo, ma si persegue il mero raffigurato, oltremodo, in contrasto con le leggi del buon senso, ignoto sin anche ai preposti d’ambito.

È palese constatare che nell’immagine comune, gli edifici del centro antico devono rinnovarsi, grave diventa non tener conto della radicata tradizione costruttiva e formale, che in passato ha caratterizzato l’ambiente e lo scenario urbano.

II gusto si evolve ma, soprattutto, mutano i processi produttivi in edilizia, mirando sempre più alla riduzione dei tempi di lavorazioni c dci costi, ormai uniformati ogni cosa e soprattutto luogo.

Tale esigenza va in contrasto con l’istanza di conservazione dell’immagine tradizionale e consolidata locale, di un ben identificato centro antico e, come ormai, diventata consuetudine, tendere a semplificare ulteriormente il linguaggio storico delle facciate, trasfigurando completamente il volto del costruito.

Ad esempio, in pochi anni molti edifici ottocenteschi riccamente decorati e colorati con tre differenti tinte di coronamento, allo scopo di esaltarne i valori plastici, sono stati oggetto di pittura, come gli stessi balconi e finestre, concepite per l’affaccio sulla strada e l’esposizione all’aperto di piante ornamentali, sono stati manomessi perdendo ogni valore di filtro tra l’interno dell’abitazione privata e lo spazio pubblico.

Molti altri esempi di alterazione delle caratteristiche architettoniche e decorative delle facciate potrebbero essere citati, ma è sotto lo sguardo di tutti la metamorfosi esteriore del centro abitato a causa di iniziative molto spesso di carattere individuale,

Tuttavia, addentrandoci nel nocciolo della questione e osservando il clima culturale odierno, ci si rende conto, che questo tema non ha mai raggiunto la maturità teorico-disciplinare, che potesse, dopo tante esperienze negative di varia natura, dar luogo almeno un barlume di ragione utile a sollecitare le oscure menti preposte, che preferiscono, prospettive diseducative di blasfemia se non addirittura mussulmana credenza.

La realtà dei fatti resta stesa alla luce del sole, in prospettiva storta, con le inopportune esibizioni di “non arte”; violenza gratuita verso, gli inanimati elevati, in altre parole gli inermi e statici paramenti pronti ad accogliere, o meglio subire questi messaggi a dir poco inutili.

Infatti sono gli stessi cittadini e proprietari utenti, a cui vanno aggiunti i turisti della breve sosta, che restano confusi alla vista dei concetti raffigurati di finitura, senza testa, corpo, ma dell’apparire di una coda che stridula o meglio raglia arte in strada quando è troppo tardi per tornare a casa.

Ancora oggi, infatti, la redazione di un Piano del Colore, a queste latitudini apparentemente mediterranee è un argomento ignoto, specie per gli innumerevoli dissacratori di pareti, che qui corrono scellerati, poi se il consenso arriva con il mutismo è anche degli uffici preposti, spinti dal comune disinteresse verso la tutela della storia, l’argomento assume le sembianze di emergenza sociale, a cui porre rimedio e rispondere con energico disappunto.

Ciò che ad oggi sfugge è il dato che l’abuso artistico cosi realizzato, sia dal punto di vista burocratico per le prassi edilizie private violate, potrebbe diventare un balzello civile e penale non irrilevante.

Se a questo sommiamo il dato inconfutabile che ostinandosi a compromettere superfici di muratura e imbrattare manufatti lignei, come infissi, porte finestre e lucernai, difficilmente le attività di recupero o restauro moderno, poco potranno fare se non compromettere ancora di più, con il pigmento anomalo sparso sulle superfici lignee e gli elevati storici del costruito.

Ma non è nemmeno raro imbattersi in atteggiamenti opposti, laddove il cittadino avverte che qualcosa non va, per questo riassume il disagio con una sentenza sbrigativa, rivolta a questo o quell’imbrattamento, dicendo per esempio che “è come un pugno in un occhio”, ma non basta, come sono inutili azioni di ribellione popolare, come parole indirizzate al vento che porta via, specie se rivolti alle istituzioni che nel contempo immaginano cose, di lumi d’ignoto a venire.

La radice di colore dei centri storici del meridione e specie dei paesi elevati dal XIII secolo, nasce dai rudimentali elevati, di primo insediamento, per questo, fare un’analisi specifica di luogo ed elementi naturali tipici, fornisce un quadro d’insieme pittorico, secondo il quale l’esigenza primaria degli abitanti di queste colline fu di mimetizzarsi, il più possibile, realizzando parallelismi cromatici con l’ambiente naturale e, per lo scopo assunse il ruolo di murazione ideale prima, per quanti trovarono luogo in queste colline boschive, agli albori del Età Moderna.

Paesi che si affacciano con discrezione sulla valle del Crati, offrendo gradevoli prospettive, attraverso le quali si poteva assistere al miracolo dell’apparizione notturna e della sparizione diurna.

Montuosità che per la forma dei suoi antichi canaloni, assumeva le sembianze di elefanti mastodontici, che voltavano le spalle al Crati per andare sulle rive del Tirreno.

Lo stesso fenomeno si verificava nel declivio della preSila Greca, un sistema di paesi o meglio Katundë, disposti a quote ragguardevoli e sicure, che per incanto sparivano alla visione diurna e apparivano con le fioche e tremolanti luci rossastre al calar del sole.

Oggi tutto questo non esiste più e se si va per panorami tra le colline a destra o a sinistra del fiume Crati, si possono individuare e riconoscere paesi ad oltre venti chilometri, a vista d’occhio, e pure senza occhiali, per le inopportune pigmentazioni, per non aprire pena verso le inadatte coperture.

Le pigmentazioni del nuovo costruito, per così dire, di radice pompeiana o addirittura a impronta d’arlecchino, priva di senso e di colore, va oltre i limiti della riservata decenza, che nel secolo scorso era ancora cultura, anzi oserei dire, un modello di convivenza e rispetto dell’ambiente naturale.

Tutto ciò che un tempo rappresentava la fioritura naturale di un ben identificato costruito, nel corso delle stagioni, nei Paesi, Katundë, o Frazione ha perso ogni sia connotazione per le finalità di convivenza ambientali e naturali.

Il genio degli abitanti che vivevano questi luoghi, ha ispirato sin anche il sancito dell’articolo nove della Costituzione Italiana, sono stati proprio questi ambiti ad ispirare chi dispose le basi e colse i germogli indispensabili a questo fondamentale pezzo della Costituzione del bel paese Italia.

Il colore dei numerosi centri antichi detti minori, è un esperimento naturale, che nasce dalle esigenze degli abitanti, sin dalla notte di tempi.

A ben vedere, mentre chi si insediava nelle isole o nella terra ferma a ridosso delle vie del mare, rendeva visibili il luogo abitativo, con colori forti ed appariscenti, una sorta di faro diurno per tornare a casa.

Diversamente da quanti si insediavano tra le colline e costruivano le case, cercando un compromesso tra gli elevati composti di elementi naturali locali di pigmentazione, realizzando una sorta di parallelo con lo stato agreste di fioritura d’aree.

Questo dà ragione ai numerosi elevati di pietra locale alettate e rifinite con impasto di calce, sabia torrentizia calcarea e argilla, utilizzata poi anche per dare continuità e coloritura muraria all’esterno.

Cosi come i coppi di copertura a doppia regola, realizzate con argille rossastre locali e poi infornate con scarse temperature, il fenomeno serviva a far germogliare in estate particolari muschi, che germogliavano il parallelismo cromatici della lamia di displuvio, con il contesto arboreo circostante.

Questo spiega anche il fenomeno di poca visibilità a distanza dei centri abitati di giorno e poi di notte, con le luminarie, apparire come miraggio collinare.

Per questo sostituire tetti con inadatti apparati moderno lamellari, dipingere momenti di vita e corredi, sulle superfici dei riservati elevati di luogo, diventa un esperimento senza senso e rispetto della storica consuetudine locale, ma quello che più duole si interrompe una volontà antica, la stessa che oggi potrebbero essere il vanto identificativo che magari, “i Borghi medioevali non hanno e ne avranno mai per costituzione formale”.

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Ma questa appena accennata è un’altra storia, ancor più amara, che tratta di Case favellanti, Minareti, Camini, Gjitonia, Scesci, o suonatori la Baglama seduti sulle resta delle colonne greche, uno scenario anomalo e ben lontano “thè mesi” materno, preferito dalle giovani leve al pitturarsi di Arberia.

 

 

P.S. non si dice Qendër, ma Mesë o Mesj chi non lo sa, si informi prima di scriverlo e mettersi al centro della tavola, sopra il ricamato a uncinetto, che non è un palco e ne una cattedra, ma solo un componimento casalingo per quando arrivano ospiti a ubriacarsi di vino.

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GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

Posted on 02 aprile 2023 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Questa giaculatoria storica nasce per le figure meno utili per la ricostruzione degli eventi solidi della Regione storica diffusa degli Arbër.

Essa rappresenta una preghiera povera indirizzata al popolo dei comuni, per questo fatta di contenuti semplici, tale che, possa essere fondamenta, anche di quanti credono di avere titoli e mai distaccatosi dell’età prescolare, gli analfabeti o illetterati diffusi, in altre parole, da ogni abitante che vive e non sa di essere parte della minoranza storica, più longeva e solida del vecchio continente.

L’esigenza nasce a seguito degli appuntamenti culturali svoltisi in assenza, nel corso del tempo che hanno visto arrivare, vivere e terminare la pandemia 19.

Questa, invece di essere utilizzata come monito e riflettere sulle innumerevoli pene culturali degli ultimi due decenni, è stata una parentesi delle pagine più pietose e irriverenti che la storia ricordi, con finalità di tutela delle cose materiali ed immateriali della regione storica diffusa, tra le più devastanti.

Iniziando a riflettere immaginando che la minoranza fosse viva per l’esclusiva eredità parlata; qualche figura a dir poco, formata, ha furbescamente ritenuto, potersi inventare storia, alfabetari e cavalieri senza cavallo a sostegno di Don Chisciotte in perenne discussione, qui non con i mulini a vento, qui trasferitosi a per colloquiare con l’architettura, l’urbanistica e addirittura le solide case, che come tutti sanno non parlano perché sono episodi unici della storia.

Sopportare che figure deboli della storia, saltino la fila e si dispongano in mostra, più dei geni è storicamente comprovato, per questo lasciano sempre il tempo che trovano, tanto gli ultimi saranno sempre in ombra, mentre i primi brillano per luce propria anche se lo spazio per loro è in fondo alla piazza gremita che comunque ascolta e apprende nozioni.

Quello che oggi è diventata indecenza sono le attività di tutela indecenti, dei fatti culturali e le attività di valorizzazione degli elevati storici, continuamente violentati perché, muri inermi, senza braccia, gambe e piedi per scalciare o “sucuzzare”, verso quanti le impropriamente colora con irriverenza, le cose e gli elevati d vivere per portarli in auge.

Nonostante la storia di questi edificati che hanno dato i natali ad eccellenze del mondo della cultura, della scienza esatta, delle lettere, della politica e la conservazione e tutela delle cose che oggi ci indicano con luce la nostra radice, si preferisce deturpare, spruzzando per ribellione ogni sorta di componimento in colore senza la ben che minima vergogna.

Tutto questo nella più demenziale inconsapevolezza degli atti commessi contro i saggi, i quali, stanchi e abbandonati dalla plebe, che evita pure di rimborsare trenta tre danari e fare opera gratuita di rimedio del violato senza riguardo.

Affinché questa elevazione di giaculatoria smuova le coscienze di tutti è bene precisare di cosa parliamo:

Il salto di quota che caratterizza le colline della regione storica e ogni Katundë, dalla zona bassa a quella più alta individuato sia classificato o rientri in un unico tema così come segue; individuato un elevato di credenza, si articola nei suoi pressi un pennino, identificabile quale pettine di nascenti di elevati abitativi che disegnano vichi, rampe, supportici, case e spazi o slarghi, utilizzati per realizzare elevati; il pennino mira a definire quattro rioni che strategicamente legano tutti gli oltre cento paesi riedificati dal 1479 al 1563 secondo lo stesso impianto di cui è composta la capitale, in epoca ducale dalle stesse genti provenienti dal mediterraneo del sud est.

I pennini restituiscono «strette vie a gomito, gradinate, in parte coperte da portici o supportici con volta con copertura piana e sin anche voltata, per superare il dislivello, cis’ come avviene nella città ducale partenopea che darà qualche secolo dopo la metrica per fare Katundë.

È dunque caratterizza questo fitto tessuto di vichi, fondaci, vanelle, botteghe e case, un «labirinto di vicoli», senza edifici pubblici di rappresentanza né grandi complessi religiosi di rilievo, in altre parole un apparente carattere caotico di chiara ispirazione orientale, bizantina o islamica, dovuto alle influenze dirette di giungevano dall’Oriente.

All’interno della maglia edilizia della Iunctura (legame) ducale, i vicoli ciechi diventano occasione, ideale per ‘privatizzare’ o ‘semi privatizzazione’ in un contesto di famiglie legate da vincoli di parentela. residenti in contiguità; i fondaci,

invece, sono comparti abitativo-commerciali che derivano direttamente dalla tipologia di luogo di apparente confusione, ma dove elemento ha compiti e ruoli ben identificati, perché proprietà intrinseca di ogni facente parte di quel luogo.

Specie lungo i pennini sorgono case con orti, giardini e spiazzi terrazzati che riproducono una tipologia rurale e persino tuguri scavati nelle pareti tufacee o di estrazione più morbida secondo una tipologia rupestre molto diffusa, come sappiamo, in tutta l’area di espansione dei paesi collinari.

Questa qui esposta è una breve trattazione di quello che poi divengono i veri presidi per la valorizzazione di un antico consuetudinario tra i più solidi del bacino mediterraneo.

VincenzoTorelliUn sistema abitativo che oggi è la radice di numerosi centri antichi del meridione italiano, lo stesso posto nelle disposizioni di numerose amministrazioni e il più delle colte non ne comprendono o non sanno misurarne il valore.

Vero è un dato inconfutabile, il quale statisticamente non promette nulla di buono specie dalla emanazione della legge 482/99 che invece di attivarsi verso il costruito e le attività di Genio locale posto in essere mena a voler sottolineare il modo in cui si deve scrivere una lingua; e siccome questa è antica la si vuole santificare sgrammaticando con caratteri latini e greci, immaginando che solo questi nel globo terreno erano gli unici alfabetari.

Le consuetudini e le attività proto industriali e la definizione dei cunei agrari per il sostentamento e quelli della trasformazione, erano definiti pensati ed organizzati in questi luoghi di raccolta e accoglienza delle genti Arbanon.

Vere e proprie culle della tradizione, sono esse a riverberare le cose della storia, recarsi ancora oggi in questi luoghi, che vivono senza tempo, se educati ad ascoltare, accogliere e fare proprie quale fosse l’operosità in lamenti della fatica del passato, si potrebbe partire e parlare con la lingua giusta il racconto delle cose Arbër.

Noi siamo la generazione allevata dalle nostre madri, le nonne e le vicine di casa che per abituarti ad ascoltare ti dicevano; figlio benedetto siediti qui e ascolta (Nga e ulu këtu, paçurat); atto che nella stagione lunga (l’estate) aveva luogo di fianco la porta e seduti nel sedile di controllo e in inverno (la stagione breve) davanti al camino, raccontando gesta e avvenimenti dolci e sin anche cruenti per in passaggio generazionale del parlato Arbër.

fratelliLa trattazione dei sostantivi che trattano del corpo umano e gli elementi naturali primi, per il sostentamento della specie, in tutto, lo storico protocollo divulgato ai quattro venti, ancora oggi ignorato dai preposti, nonostante i fratelli Grimm lo abbiano diffuso e urlato ai quattro venti.

Per concludere questo breve, si vuole aggiungere un dato fondamentale, monito per quanti fanno e cercano di scrivere una delle storiche forme di vita basate su base di confronto orale.

Codice di appartenenza compreso solo dal più grande, l’unica, eccellenza in campo di analisi e comparazione linguistica scritta che l’Europa e il globo intere riconosce agli Arbër: Pasquale Baffi il dolce e fantastico lettore e scrittore di Greco e Latino, l’eccellenza più alta, che compreso il valore dell’idioma Arbër, la sua radice comparata con quanti per la via Egnazia transitassero per raggiungere la gloria dell’anima; lui il Baffi non ha segnato mai un punto, una virgola o una parentesi, pur avendo titoli ed argomenti elevati per farlo, in Arbër.

Vita Mons Giuseppe BugliariSe egli non ha preso penna e scagliato calamai a chi ragliava, ha compreso il valore per non esporre il patrimonio identitario al libero e indemoniato ballo tondo che si sarebbe spezzato, come è stato, irreparabilmente.

Vero è che promuovere vicende di comunemente per eccellenza, senza avere consapevolezza di chi siano stati e cosa abbiano fatto: il prelato Bugliaro Giuseppe, Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Mons. Domenico Bellusci, Vincenzo Torelli, Luigi Giura, Pasquale Scura, Mons. Giuseppe Bugliari, Terenzio Tocci, Giorgio Ferriolo, Giuseppe Albanese e tanti altri, che nei casi più banali hanno dato lustro agli Arbër nel mondo per i loro lumi, oltre a mettere in gioco il loro fisico per ideali comuni; è una grave mancanza di rispetto delle cose che fanno grande la Regione storica diffusa degli Arbër.

photo_2023-04-02_13-36-02Se nei giorni scorsi un Artista Albanese, ha riunito alla Piazza Mercato di Napoli più persone di quante si è abituate a vedere nelle manifestazioni di lettura o scrittura degli ultimi decenni, un numero di partecipanti che mancava dal 10 maggio del 1831, sempre realizzato da un Arbër lungo il corso del Volturno, è il segno evidente che gli Albanesi come gli Arber uniscono più genti con eventi di radice, da quanti si ostinano a imporre alfabetari.

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LA KEY OF TODAY - DI ALFRED MIRASHI MILOT - A NAPOLI (Gnë kjcë i shëtrumbùerë ndhë mesë thë sghjeroj Napulë)

LA KEY OF TODAY – DI ALFRED MIRASHI MILOT – A NAPOLI (Gnë kjcë i shëtrumbùerë ndhë mesë thë sghjeroj Napulë)

Posted on 30 marzo 2023 by admin

photo_2023-03-30_13-51-37 (5)NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Sono stato in piazza Mercato, ad assistere all’assemblaggio dell’opera di Milot che apparirà, nel corso di quest’anno, in numerose città, le cui trame edilizie del passato, avranno modo di attivarsi come cunei culturali, in memoria di futuri multietnici in dialogo a venire.

Per giungervi come atto beneaugurante ho percorso la via del Lavinaio proveniente da Castel Capuano, senza passare, dove era il Castello del Carmine e, giunto sulla piazza ho salutato fraternamente l’artista e le autorità convenute, per l’inaugurazione ufficiale del manufatto arrivato dall’Albania.

L’opera, realizzata in acciaio corten, ha dimensioni ragguardevoli e per questo, non passerà inosservato, segnando grazie alle sue dimensioni, il valore indelebile di fratellanza e apertura di dialogo tra popoli.

Nel caso di Napoli, proprio quella Piazza per la sua storia, in forma di primati irripetibili di operosità, pur se mescolati con episodi, o meglio, solchi della memoria di tutti i suoi abitanti, restava in attesa di vedersi sollevati i veli, che impedivano, la tanto desiderata ripresa di attività e dialoghi, interrotti da tempo; mire e politiche senza dialogo comune del passato.

Quindi “Grande Merito” e onore sul campo ad Alfred Mirashi, detto “Milot”, per essersi incamminato in questa avventura, lui, proveniente dal centro di quella terra da noi Arbër ritenuta madre, è approdato esponendo questa sua opera, frutto dalla radice dell’educazione della sua famiglia natia; materna in arte sartoriale; e paterna in attività di pigmenti; aprendo così il percorso di dialogo smarrito tra Napoli e Albania.

Milot, approda non in un posto qualsiasi nella vasta area Metropolitana di Napoli, ma sceglie il centro antico, concentrandosi proprio in Pizza Mercato, lo stesso luogo dove un dialogo di “libero pensiero”, fu interrotto il pomeriggio alle ore 18, dell’undici di Novembre del 1799, iniziato secoli prima con l’eroe nazionale Giorgio Castriota, in quello stesso largo una mattina di primavera del 1464.

Oggi 30 marzo 2023, alle ore dieci, l’artista del “Nuovo libero pensiero”, apre alle nuove generazioni una via possibile, proveniente proprio dalla stessa regione Albanese.

La forma della chiave, rende merito alle attività di dialogo antico tra Napoli e Albania, un tempo due regni, storicamente uniti da patti di sostentamento dei familiari reali e del popolo in sofferenza perché migrante.

Un messaggio antico, prima con gli Angioini e poi con gli Aragonesi, dove gli attori protagonista di prima linea, sono l’eroe albanese con altri principi, tutti al seguire del re di Napoli in trionfo, dopo l’epica battaglia di Terrastrutta, nei pressi di Greci, il 18 agosto 1461.

La collocazione della chiave di Milot in piazza del Mercato a Napoli, apre un dialogo nuovo tra Albania e gli Arber, questi ultimi ancora numerosi, vivono e tutelano radici antiche, in forma di consuetudini e attività in oltre cento paesi dell’antico Regno di Napoli, oggi identificati come; “Regione storica diffusa degli Arbër”.

La chiave è il primo passo riconosciuto dalle autorità politiche culturali e della credenza, del Genius loci Albanofono, oggi come quello di ieri, lo stesso abitualmente posto in secondo piano a favore di altre forme, ormai vetuste e non più in grado di esprimere la forza di un componimento come quello realizzato da Milot.

Finalmente un evento nuovo, proveniente dall’Albania, qui nella antica capitale del regno, finalmente arrivano segnali nuovi, che non sono di mero vanto culturale, ma attività che superano i confini terreni e si riverberano come la luce del sole su tutto la terra.

Finalmente non solo lingua, ma arte storia fatta di cose materiali e immateriali come è la chiave torta o gli ambiti del costruito di Napoli tra spiaggi e pianoro della città greco romana, architettura e urbanistica Bizantina, la stessa che era realizzata in Albania e in ogni altro luogo dove si voleva tutelare e far germogliare le Cose dell’antica Albania.

Anche Milot ha seguito la strada che va dall’Albania a Brera per diventare figura di eccellenza; anche lui compone cose non parlanti ma silenziosi significati di fratellanza, senza prevaricazioni, il suo è acciaio forgiato con lo stesso entusiasmo dei battiti della macchina da cucire della madre, suoni mai dimenticati, per questo sono componimenti colmi di materni sentimenti, messaggi di matrimonio tra le genti del mondo.

Il suo è un traguardo che le istituzioni tutte dovrebbero tenere ben appuntato in agenda per le cose culturali del futuro, in senso di Genio.

Vero è che la chiave di questo artista, ha fatto più strada e trascinato tanto del mondo Arbanon e non solo, più di ogni altro evento senza arte, questa è la prova evidente che gli ambiti con protagonisti gli Albanofoni, non sono un mero esperimento in idioma o comunemente definita lingua altra.

Arbër e Albanesi devono essere grati a questo grande artista del centro della madre patria, per il forte riscontro mediatico raggiunto e da domani in poi avranno gli Albanofoni tutti, più luce nel mondo; lui non ha scritto libri, non ha composto alfabetari, ma come Luigi Giura, da Maschito, ha trafilato acciaio per costruire ponti di dialogo.

Ho salutato l’artista a manifestazione terminata, non prima di un fraterno dialogo, con tutte le autorità intervenute Partenopee e Albanesi in quanto rappresentante Arbër.

Un abbraccio terminato con una stretta di mano posata per tre volte a battere sul cuore mio e di Milot, un rituale mirato a sottolineare un patto di fraterna amicizia, che non smetterà mai di rigenerarsi nelle terre della regione storica diffusa degli Arbër, fatta di arte architettura e genio innovativo nato dell’Albania di ieri e in quella di oggi, per domani migliori.

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MIGRANTI CON LE BRACCIA STESE AL CIELO A FAVELLAR UNA LINGUA IGNOTA  (kushë nënghe ka më deun sàthe punognë vete për deitë)

MIGRANTI CON LE BRACCIA STESE AL CIELO A FAVELLAR UNA LINGUA IGNOTA (kushë nënghe ka më deun sàthe punognë vete për deitë)

Posted on 06 marzo 2023 by admin

Baia sommersa, qundo ad essere sommersi sono snche gli approdiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge a sud del meridione Italiano, accolsero un numero elevato di profughi provenienti dai governariati allocati a nord e a sud della via Egnazia, via che da Durazzo mira ad Est.

Le genti, provenienti da queste regioni, migravano per non essere piegati a volontà e credenze altre, vedersi rapiti i figli, allevati secondo regole pagane, per questo famiglie intere, lasciavano ogni cosa materiale e prendevano la via del mare, con il cuore e la mente pieni di sentimenti di radice .

Non si contano le partenze in pena, del su citato intervallo storico, tuttavia, si narrano gli approdi con bambini, bambine, donne, uomini genitori e prelati, tutti in sofferenza e mal vestiti, per non dire ignudi.

Di queste frotte di genti dell’epoca, si annotava, il favellar una lingua ignota, senza cogliere la misura della pena, malinconica di dolore per le cose abbandonate nelle terre, ad est, oltre il fiume Adriatico sino dove diventa Jonio, che senza veli palesavano dolore.

Certo che cogliere solo braccia stese verso il cielo, forse in cerca di calore ideale, doveva attrarre di più l’attenzione degli osservatori viste le copiose lacrime che sgorgavano amare, per i domani incerti di sale, misura certa della tragedia in corso.

Si deduce che le cronache del tempo annotarono solo frammenti di cosa avveniva, senza che nessuno rilevasse, se li vi fossero barche o resti di generi, nessuno ricorda quanti corsero ad aiutarli, quale fu il tempo in balia delle onde o quanti non ebbe ristoro al sole, perché in mare ignoti per sempre.

Da quel tempo, per i discendenti di quella dinastia non fu mai domenica, l’uomo e le società di quegli abbracci naturali, forse hanno mutato il modo di vivere, fare accoglienza e dare notizia, tuttavia, quelle spiagge continuano ad essere teatro di identiche vicende, senza che nulla sia stato rinnovato, prima, durante e dopo lo sbarco e per i meno fortunati, rimasti per sempre in mare.

Vero è che l’esperienza segnò, con violenza la memoria di queste genti, le quali, tutte e senza eccezione alcuna, si diressero, senza prender fiato, lontano dal mare, con cui per secoli non ebbero più nulla da spartire, se non il sale, preferendo quello di cava che fa le colline.

Cento passi e anche di più, oggi valgono uno per ogni paese che gli scampati allestirono lontano dal mare, qui sicuri e lontani dalle onde, si adoperarono per il ricordo mediterraneo parallelo, in forme dolci e simili a quelle di terra di origine.

È il mare che segna, per sempre, una delle minoranze più caparbie del meridione oggi viva e vegeta, i quali, senza più guardare indietro, preferirono allocarsi distanti da quello che sembrava semplice via, per cercar buona fratellanza terrena.

Tutti partivano per sfuggire a un modo di vivere imposto, pronti a sopportare ogni peso che non calpestasse la propria credenza, disposto a confrontarsi prima con il mare, poi la china diversamente articolata, gli eventi naturali, che prima o poi termina e fa splendere il sole.

Disposti alle fatiche più avverse, come avveniva nel XIV secolo, disponendosi in vecchi casali abbandonati da innalzare, oltremodo colmi di pene da sanare, grotte da scavare, terre da bonificare e nel contempo rimanere fedeli alla promessa data ” BESA“, ovvero garantire continuità alla propria radice, nonostante fossero definirti, con sostantivi a dir poco inopportuni quali: portatori di malattie, violenti, senza leggi, orfani senza misura, attentatori e sin anche colpevoli dei ratti storici attribuiti loro dagli indigeni che sottraevano le elemosine di Francesco, quello di Paola.

saleAnomalia ancora in voga al giorno d’oggi, nonostante la cenere con cultura abbondi, non si è stati in grado di eliminare questi “immeritato marchi per classificare generi sconosciuti”.

Gli esempi in tale senso sono innumerevoli, ma quello che oggi identifica il meridione quale culla della dieta mediterranea, non è un errore, attribuirlo o aggiudicarlo a queste genti di minoranza approdati dal mare e venuti dalla Via Egnazia.

A tal fine va sottolineato che i migranti, sono stati identificati quale valore minore al sociale di queste terre e non indispensabili, in prima accoglienza, prevalendo il protocollo, secondo cui non era riconosciuto alcun diritto, in discendenza delle aree poste a coltura, costringendoli il più delle volte a migrare per terra alta, quando il referente passava a miglior vita.

Nonostante nell’antichità, le grotte furono trasformate in abituri, realizzati elevati aditivi, le terre selvagge piantumate e rese produttive; la diffidenza verso quanti erano giunti per mare della via Egnazia, restava identica, anzi, con lo scorrere dei decenni, diventava pena sociale, a cui indirizzare ogni genere di colpa, senza dubbi o processi a discolpa.

Condanne decise a priori, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare durante il giorno, o al ritorno a casa dopo il lavoro nei campi, come se fosse conferma di un mal tolto o latrocinio compiuto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo all’alba, di dover restare entro recinti solidi da costruire in altre parole una sorta di arresti domiciliari, nei propri sheshi, ad esclusione dei “Prati di confine pastorale”, non erano certo questi atti di fiducia, verso quanti sostenevano l’economia dell’epoca con sudore e patimenti irripetibili.

A tal fine è bene precisare che i “contraenti senza appello”, avevano come pena certa, l’amputazione di un arto per ogni evasione o ritardo del rientro, tutto ciò sottolinea ancora una volta quanta fiducia era rivolata ai migranti, dalle istituzioni tutte.

A ben vedere, senza soluzione di epoca, visto e considerato le notizie di cronaca diffuse dai media, nel nostro tempo che corre a due velocità, oggi più della sottrazione fisica degli arti, amputano la morale.

Ma gli imperturbabili, operosi e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare con la sella, inventarono “il Basto”, un oggetto da carico e di trasporto per cose non per la struttura dell’uomo.

Poi venne il “termine” dell’accanimento degli uomini e iniziarono le avversità della natura con terremoti, carestie, pandemie e ogni sorta di avversità.

Storicamente tutte queste attività che trovarono identica applicazione contro l’uomo, si scontrarono, con l’infinita caparbietà di queste famiglie Kanuniane, le quali, non hanno mutato nulla della propria radice di fare fratellanza onesta, distinguendosi così per la limpida esistenza, confortata ad iniziare dal 1734, con le attività sociali e clericali poste in  essere dalla ascesa di re Carlo III.

Nascono così le figure del sapere della dinastia dei minoritari, eccellenze in campo delle cose di politica, cultura, scienza esatta e ogni genere di studio per valorizzare queste terre di approdo, condividendo con tutti i profughi di simile radice lontano dal mare.

Tuttavia le questioni economiche e produttive non persero il senso di prendere l’infinita china senza “termine”, perché illuminata la via della cultura, il trionfo di tutti, rimaneva sempre valida la buia questione economica dei pochi.

Sono gli stessi che nascono e si moltiplicano nel corso del terremoto del 1783, scacciati dai promontori sicuri e solidità di quelle terre, definite ” meno pericolosi” dagli esperti dell’epoca come quelli dei recenti teoremi secondo cui i paralleli mediterranei sono uguali, ripetendo ancora l’infinita anche nel corso del primo decennio del secolo appena iniziato e dover ancora migrar per terra.

Tornando alle epoche del passato, riprendiamo con gli avvenimenti del 1796 quando i soliti noti, cercarono di agevolare i più poveri, con la misura riportata testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano, secolo XVIII°, la di cui stesura lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando un nuovo di un calvario interminabile di sudore senza guadagno; secondo cui :Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Quanto qui citato è la “filiera insediativa” affrontata dalla minoranza oggi definita Arbër, i pionieri che non mirano ad invadere, sottomettere o distruggere le terre dei mille abbracci naturali, ma per vivere in pace con gli indigeni.

Se a questo aggiungiamo il dato che migravano secondo piani prestabiliti, tra quanti credevano alle direttive fondamentali dell’Ordine del Drago, le cose non ebbero come abbiamo accennato, svolgimento o attuazione secondo il protocollo ordinistico in forma perfettamente cavalleresca o almeno dignitosa.

Tuttavia la minoranza, assieme alla maggioranza rimasta nella terra di origine, ebbero il  coraggio di assumersi l’onere di tutelare l’intero patrimonio per la discendenza, nel seguente modo:

  • i minori furono disposti e lasciati insediare lungo arche ben definite a ovest del fiume Adriatico sino al mar Jonio, dalle istituzioni laiche e cristiane dell’epoca pronte ad accoglierle, trascinando per tale fine il patrimonio immateriale;
  • di contro in terra madre chi restava avrebbe continuato a marchiare i confini di origine con l’antico appellativo segnandone volta per volta la parte sottratta.

Tuttavia nel breve e medio termine a prevalere, è stato il volano della diffidenza verso un nuovo modello identitario, che si affiancava a quello indigeno nel meridione Italiano, in grave sofferenza economica e sociale, ragion per la quale non sempre è stato lasciato libera espressione alle cose dei profughi Arbanon.

La novità fu che poi nei fatti chi rimase in terra madre a difendere confini segui le previsioni dell’epoca, diversamente dai migranti che si dovettero rimboccare le maniche e superare oltre la diffidenza non poche avversità.

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La discriminazione è dovunque, non abbandona mai le generazioni dei profughi di mare, poi migranti di terra, avendo l’indice sempre puntato e pronto a descrive “inopportune e inadatte classificazioni di prevaricazione”.

Questo è l’infinito che non cambia, per quanti usano vagare alla ricerca di luoghi paralleli, comunemente appellata casa, tuttavia essere convinti di possedere cinque sensi e sentimenti leali di cose buone, è il valore aggiunto che hanno gli Arbër, definiti per questo, dalle “Istituzioni Italiane Alte”; modello di accoglienza e integrazione, tra i più vivi e longevi del mediterraneo e quello che più vale “non somma di assoluti”.

 

P. S.   La cultura è poca, spetta ai saggi farne tesoro e non sprecarla per Strade e “Prati” dove pasce gli eletti dell’ignoranza in astinenza.

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CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

Posted on 28 febbraio 2023 by admin

braccia stese al cielo 2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge più estreme del meridione “abbracciarono” un numero molto elevato o meglio imprecisato, di profughi provenienti dai governariati, disposti a nord e a sud, della via Egnazia da Durazzo verso l’est; questi, cercavano tutti, di sfuggire per non essere piegati dalle credenze mussulmane, che chiedevano anche pedaggio.

Di essi non si contano le volte che posero in essere i protocolli di partenza in pena, ma si narra solo di approdi che vide numerosi, donne, bambini e uomini, e genitori, mal vestiti o con poco nulla in dosso, favellavano una lingua ignota, colma di dolore, lacrime e braccia stese verso il cielo per cercar calore.

A quei tempi le cronache annotarono solo questi elementi e null’altro, nessune rilevò, se li vi fossero barche o resti, nessuno annotò quanti corsero ad aiutarli e neanche per quanto tempo furono lasciati in balia delle onde di quell’epoca, o quanti non trovarono mai ristoro al sole, non asciugandosi mai.

Da quel tempo remoto gli uomini hanno cambiato molto o quasi tutto nel modo di fare per vivere secondo procedure sociali in linea con le cose evolute prodotte e messe in campo, ma quelle spiagge continuano ad essere a tutt’oggi, il teatro delle identiche cose, senza che nulla venga rinnovato in meglio, prima e dopo essere sbarcati o li nei pressi delle spiagge trattenuti per sempre in mare.

Il mare che segna per sempre una delle minoranze più numerose del meridione, è ancora distante da quello che si vorrebbe buono per quanti  vanno per trovare fratellanza, ma, non finisce qui, in quanto la china per l’integrazione, successiva,  non è poi così semplice come immaginato dai provetti naviganti, in quanto, si potrebbe definire, per essere buoni, diversamente articolata.

Come avveniva un tempo dove si affidavano prima vecchi casali abbandonati e colmi di pene da coprire, grotte da scavare, terre da bonificare, gabelle da corrispondere, nonostante si ritenevano definirli, sporchi, colmi di malattie, assassini senza scrupolo e ladri attentatori sin anche delle offerte di Francesco di Paola.

La loro presenza ha avuto sempre poco valore, permanendo labile per i primi cinque decenni, giacché, il loro operare su un determinato territorio non vedeva riconosciuto alcun diritto, per la discendenza che a morte avvenuta del capo famiglia responsabile, costringeva gli altri a emigrare per terra.

Nonostante le grotte fossero  trasformate in abituri aditivi, le terre piantumate e produttive; la diffidenza verso le genti un tempo della via Egnazia, restavano identiche, anzi, con lo scorrere del tempo, diventare addirittura discarica sociale a cui imputare ogni genere di colpa, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare asini o cavalli, durante il giorno, per rallentare eventuali fughe di malaffare, come se compire l’atto di riposare dopo la giornata di lavoro, fosse una conferma di un mal tolto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo l’alba, di restare agli arresti domiciliari, nelle proprie case, esclusi i “Prati di pascolo”, pena l’amputazione di un arto per ogni evasione compiuta, la fiducia rivolata a questi migranti non deve essere molto cambiato nel corso degli ultimi cinque secoli, dalle istituzioni tutte.

Ma gli imperturbabili e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare asini o cavalli inventarsi “il Basto” , essa infatti non era una sella, ma presentato in primo impiego come oggetto da carico o da trasporto da soma.

O come gli fu imposto dal 1563 di costruire recinti di mura, entro cui vivere i domiciliari, dal tempo del tramonto a quello del sorgere del sole, altrimenti finire di essere senza arto per ogni trasgressione di un ipotetico reato.

Poi venne il  termine dell’accanimento degli uomini, iniziando cos’ le attività della natura, con terremoti carestie e ogni sorta di avversità in malattie, ciò nonostante la tempra di queste famiglie senza tempo, ha saputo adeguarsi e con caparbietà sollevare mura di solidità per l’esistenza, difendendosi e iniziare a trovare conforto dal 1734 con le nuove regole sociali ispaniche di re Carlo III.

Nonostante tutte le cose della politica e della cultura fornirono figure di rilievo per la valorizzazione culturale di queste terre di approdo, le questioni economiche e produttive non persero il senso di calpestare, quanti rimanevano legati alle terre per la sostenibilità economica e produttiva.

Tuttavia, nonostante regole e le esigue possibilità di affermarsi va diffondendosi un dato e rimangono inconfutabili che le generazioni dei migranti approdati nelle spiagge, con storia di braccia stese verso il cielo a favellar in lingua ignota, è un dono naturale riservato solo a quanti vi nacquero e non a quanti cercano di inventarsi.

Per non riferire le pene inflitte nel corso del terremoto del 1783, quando numerosi furono scacciati di casa per terre migliori dicendo loro gli esperti ” li è meno pericoloso” teoremi ancora in voga sin anche nel 2009.

Anche quando le istituzioni dell’epoca cercarono di agevolare i più poveri, la misura di ciò viene riportato testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano del 1796 che lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando la misura di un calvario interminabile.

Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Come si può ben vedere la discriminazione ti persegue dovunque, e non ti abbandona mai, anche quando ti allontani fuori dai bacini germani, depositando fiducia negli altri  per promuovere germogli del tuo essere caparbio Arbër che vive libero da stereotipi il 2023.

Purtroppo ancora non è noto l’enunciato della moltiplicazione o non somma degli assoluti, anche dei trascorsi Arbër, in controtendenza del principio che due o più bicchieri di acqua a settantacinque gradi, riversati in un contenitore unico, sommano la quantità del liquido, diversamente dalla temperatura, che non varia.

Quando si discute delle cose materiali, immateriali in storiografia di temi assoluti, come, Lingua, Consuetudini, Metrica del Canto e Religione, non si produce nessuna sommatoria per un risultato numerico perché essi sono assoluti solitari non di somma, perché i numeri di simile calura o mira formativa non si sommano.

L’esempio dei bicchieri di acqua a settanta cinque gradi, rende chiaro lo stato delle cose, in vicende relative all’indagine per definire glie ambiti identitari della Regione Storica diffusa degli Arbër.

Per questo, ostinarsi dopo sei secoli, nel riferire cose e fatti di simile calura, non aumenta lo stato di benessere della culla di crescita, scambiati per catini in misura termica; allora prima di un’altra volta, sappiate che pur se nota come città del sole, le cose copiate restano assolute e non cambiano il senso  dei “discorsi copiati” che non saranno mai somma di calore, perché valore assoluto ben noto.

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UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

Posted on 24 febbraio 2023 by admin

527-765x1024NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile- Storico) – In Terra di Sofia, ormai non si è più in grado di distinguere, a iniziare dalla fine del secolo appena trascorso, la storia vera dalle favole inventate; prova lo sono i pomeriggi di calura estiva, quando imprudentemente si elevano “Termini” d’inopportuna memoria.

Nient’altro che rovesci degli storici sacrifici di sangue, che segnano indelebilmente il corso del lavinaio del nobile casato ormai sotterrato completamente, oggi diventato l’ameno del cruento Giuda.

Questo accade, quando si affidano agli asini, i compiti in casa per organizzare parate e si imitano le impronte del cavallo del re, disponendo sin anche la fida gendarmeria, che suona inni di nobili propositi, invece di fare il mestiere primo; ovvero, imprigionare Scriba, Asini e Falsi Re, pronti a ricevere applauso dagli astanti ignari.

Purtroppo questo è il tempo che scorre quando non si possiede la volontà di perseguire la meta del santuario, ma, in continua mutazione si preferiscono Diavoli, bardati a Mezza Festa, senza alcuna consapevolezza delle urla che quel luogo diffonde, perché  un “Dante”, lì in Terra di Sofia, è nato cresciuto e seminato germogli di sapere nobile.

Questa metafora vuole evidenziare la mancanza di un mulino, in grado di macinare e separare finemente, la farina dalla crusca, quest’ultima, la sfoglia che avrebbe dovuto difendere la locale cultura.

Tuttavia, quello che più duole, è il ripetersi con volontà perversa, delle cose più infamanti dopo due secoli dallo essersi svolte e penosamente avvenute; prima a “Giugno” in forma di tradimento, poi ad “Agosto”, con vestizioni di tradimento, concludendo alla vigilia di novembre con la pena di condanna a morte.

Non è comprensibile, come tanta perversione passi in quel “ Lavinaio”, al cospetto della Madre venuta da Costantinopoli e come se non bastasse, germoglia e fiorisce incultura, vilmente copiata e sottratta al genio locale.

Per le genti che vivono a impronta di Costantinopoli e Alessandria, il “Lavinaio”, avrebbe dovuto scorrere secondo i dettami dell’inverno e dell’estate, con protagonisti il giorno, la notte, il sole, il vento e le forme naturali irrigue, le stesse che in comune accordo, rendono merito al progredire della vita degli uomini.

Tuttavia da oltre otto stagioni, questa ritmica, ha terminato lo svolgersi in linea con la natura, in quanto vede il terzo genere, ovvero quello irrispettoso del ruolo di nascita, preferendo fare la sposa di notte che non può aver marito.

Lo stato delle cose è divenuto così inopportuno, avvilente, demenziale e deleterio, al punto da piegare le nuove generazioni, queste ultime, ancora acerbe, vivono senza cognizione alcuna, di fatti e cose del passato, non solo dal punto di vista immateriale o puramente conoscitivo, ma addirittura svengono privati della direttrice di approdo; infatti l’ipogeo, per ben due volte, nel tempo di poco men di un secolo è violentato, piantumando e sradicando ulivi nei campi, dove quanti passato a miglior vita, e quindi  inermi finiscono per essere addirittura frullati per impasto di cemento.

La Terra di Sofia fa parte di una delle arche delineate a Capua da Scanderbeg nel1464, quella che nel corso della storia ha preso l’impegno con saggia devozione, secondo le disposizioni dell’Ordine del Drago, la stessa che nel XVIII secolo preferì Carlo III per guidare spiritualmente la sua personale armata.

Questo luogo dopo qualche anno ebbe modo di dare i natali a una schiera di luminari, cui purtroppo, fece parte anche chi è considerato il giuda storico di questi esuli: il modello di accoglienza e integrazione mediterranea ancora vitale, grazie a pochi.

Ad oggi purtroppo chi studia la storia di questo luogo, pericolosamente invertita in favore della sacra famiglia perversa, impegnata non a privilegiare tempo, luogo e genio, ma tenere ben distante o fuori i circuiti della cultura che conta, adoperandosi a far diventare questa nobile disciplina un tema di commercio di insaccati privi delle essenze dell’orto botanico di Sofia.

Quando tutto questo abbia avuto inizio, per i comunemente non tema di rilievo, ma per dare ragione a  fatti e cose, si può sicuramente affermare che tutto ebbe inizio il pomeriggio dell’undici Novembre del 1799 quando il carro scortato dai Bianchi da Carcere di Castel Capuano, prese la via del Lavinaio e recarsi in Piazza Mercato, il circo di quel tempo, che per finta inforcare male poi, sgozzava come capretti i giovani e liberi pensatori.

Chissà come si si sentita sola Teresa, nel fare quel percorso al fianco del suo amato Pasquale, che andava incontro alla morte, in altre parole un funerale in solitudine con il promesso defunto, che con la sola forza degli sguardi divideva quell’ultimo amplesso di amore.

Dove stavano e cosa facevano, i falsi estimatori paesani, i parenti menzogneri, chissà come hanno impegnato i trenta denari, magari sommandoli a quelli di Giacinto e Paolo in Terra di madre Sofia, per imprestare grano, proprio dove si trova il Termine, di fianco al “Lavinaio” dove ogni 18 di agosto, scorre sangue e trascina grano.

Le cose della storia a terra di Sofia, sono come individui bendati che vorrebbero raccontare cosa è avvenuto in quel luogo ma non possono, il dovere di ogni buon ricercatore è di saper togliere quelle bende sulla bocca e poi in rigoroso silenzio ascoltare e fare tesoro del parlato di quest’ultimo racconto in pena di lingua Arbër Terminale.

Sofia e i suoi figli sono un esempio da non imitare, sia dal puto di vista sociale e sia per le tradizioni consuetudine valorizzate, giacche sempre pronti a disporre le cose “ritenute buone per gli altri, e mai per sé stessi.

Noti consiglieri e sostenitori di stato gratuito di avvenimenti e vicende, che se affrontato dagli altri unisce tutti mel mutuo muro di gomma, poi quando la stessa vicenda entra nelle proprie case, si affidano al pianto terminale con i capelli sciolti, di chi ha vissuto in solitudine la stessa vicenda.

Come accennato prima, le genti insediatesi il sette settembre 1471, nel corso dei secoli, hanno partecipato con forza alle vicende storiche al pari degli indigeni locali.

Ciò nonostante non usano ricordare i traguardi per opera e genio di molti compaesani, preferendo a questi i giuda seme di morte per danaro.

I lavinai storici in Terra di Sofia sono tre: il primo a est del costruito, il secondo nella parte centrale e il terzo a est, degradanti da sud verso nord lungo il corso prima del Vallone del Duca che va da Ovest ad Esta.

Di questi è proprio quello centrale ad essere il baricentro delle eccellenze storiche in Terra di Sofia, diventato poi nel corso di quel tragico diciotto di agosto, piena di lacrime e grano insanguinato.

Assistere all’esibizione di qualche giullaresco farfallone dopo due secoli, rievocando l’orrenda giornata, per sentirsi protagonista irresponsabile senza velo anzi con fascia e dare la misura locale della vergogna, è stato come se il “ventisette di gennaio” giorno della Shoà, diventasse la giornata del grasso di colatura e lo cibarsi di carne alla griglia.

Un buon pellegrino non smette mai la via del santuario prescelto, anche se lungo il cammino incontra l’orto botanico di Sofia ridotto a discarica o luogo per bambini, che rubano polvere, per spargerla in testa, per sembrare adulti saggi, quando non sono altro che capricciosi di fasce sporche perché mai dismesse.

Allo stato delle cose e per terminare non rimane altro che piangere sui resti delle case che non parleranno mai ai bambini, che resteranno delusi, quando in età adulta scopriranno che quelle sono solo abusi.

In oltre chiedersi se Franco adesso che è passato a miglior vita, ha capito che umiliare Atanasio per il pianto della madre Adelina, davanti la bara di Demetrio non fu mera esibizione.

Caro Franco ovunque tu sia in cielo, devi comprendere che la madre di Attanasio, in quel frangente di dolore per la doppia perdita fisica e quella morale in atto, aveva capito, quando dolore si arreca quando viene riverberato in solitudine e non vuoi finire sola come Adelina, perché le ragioni materna non sono mai condivise quando non sono di casa proprie del figliol prodigo.

Queste note sono il pellegrinaggio culturale nascono quando cresci sotto la guida, prima del parlare secondo la metrica in terra di Sofia, sotto la guida di Madri e Gjitonie che sanno di tradizione e costumi gli stessi di cui si cibano e vestono cibano, poi  da adulto studiare dopo essere stato battezzato in promessa di tornare e spiegare, quando tutto è pronto per la partenza potresti anche trovare nel tuo orto botanico, medici e infermieri che fanno gli invalidi da curare, li capisci che la penitenza da assolvere è iniziata.

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