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MIGRANTI CON LE BRACCIA STESE AL CIELO A FAVELLAR UNA LINGUA IGNOTA  (kushë nënghe ka më deun sàthe punognë vete për deitë)

MIGRANTI CON LE BRACCIA STESE AL CIELO A FAVELLAR UNA LINGUA IGNOTA (kushë nënghe ka më deun sàthe punognë vete për deitë)

Posted on 06 marzo 2023 by admin

Baia sommersa, qundo ad essere sommersi sono snche gli approdiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge a sud del meridione Italiano, accolsero un numero elevato di profughi provenienti dai governariati allocati a nord e a sud della via Egnazia, via che da Durazzo mira ad Est.

Le genti, provenienti da queste regioni, migravano per non essere piegati a volontà e credenze altre, vedersi rapiti i figli, allevati secondo regole pagane, per questo famiglie intere, lasciavano ogni cosa materiale e prendevano la via del mare, con il cuore e la mente pieni di sentimenti di radice .

Non si contano le partenze in pena, del su citato intervallo storico, tuttavia, si narrano gli approdi con bambini, bambine, donne, uomini genitori e prelati, tutti in sofferenza e mal vestiti, per non dire ignudi.

Di queste frotte di genti dell’epoca, si annotava, il favellar una lingua ignota, senza cogliere la misura della pena, malinconica di dolore per le cose abbandonate nelle terre, ad est, oltre il fiume Adriatico sino dove diventa Jonio, che senza veli palesavano dolore.

Certo che cogliere solo braccia stese verso il cielo, forse in cerca di calore ideale, doveva attrarre di più l’attenzione degli osservatori viste le copiose lacrime che sgorgavano amare, per i domani incerti di sale, misura certa della tragedia in corso.

Si deduce che le cronache del tempo annotarono solo frammenti di cosa avveniva, senza che nessuno rilevasse, se li vi fossero barche o resti di generi, nessuno ricorda quanti corsero ad aiutarli, quale fu il tempo in balia delle onde o quanti non ebbe ristoro al sole, perché in mare ignoti per sempre.

Da quel tempo, per i discendenti di quella dinastia non fu mai domenica, l’uomo e le società di quegli abbracci naturali, forse hanno mutato il modo di vivere, fare accoglienza e dare notizia, tuttavia, quelle spiagge continuano ad essere teatro di identiche vicende, senza che nulla sia stato rinnovato, prima, durante e dopo lo sbarco e per i meno fortunati, rimasti per sempre in mare.

Vero è che l’esperienza segnò, con violenza la memoria di queste genti, le quali, tutte e senza eccezione alcuna, si diressero, senza prender fiato, lontano dal mare, con cui per secoli non ebbero più nulla da spartire, se non il sale, preferendo quello di cava che fa le colline.

Cento passi e anche di più, oggi valgono uno per ogni paese che gli scampati allestirono lontano dal mare, qui sicuri e lontani dalle onde, si adoperarono per il ricordo mediterraneo parallelo, in forme dolci e simili a quelle di terra di origine.

È il mare che segna, per sempre, una delle minoranze più caparbie del meridione oggi viva e vegeta, i quali, senza più guardare indietro, preferirono allocarsi distanti da quello che sembrava semplice via, per cercar buona fratellanza terrena.

Tutti partivano per sfuggire a un modo di vivere imposto, pronti a sopportare ogni peso che non calpestasse la propria credenza, disposto a confrontarsi prima con il mare, poi la china diversamente articolata, gli eventi naturali, che prima o poi termina e fa splendere il sole.

Disposti alle fatiche più avverse, come avveniva nel XIV secolo, disponendosi in vecchi casali abbandonati da innalzare, oltremodo colmi di pene da sanare, grotte da scavare, terre da bonificare e nel contempo rimanere fedeli alla promessa data ” BESA“, ovvero garantire continuità alla propria radice, nonostante fossero definirti, con sostantivi a dir poco inopportuni quali: portatori di malattie, violenti, senza leggi, orfani senza misura, attentatori e sin anche colpevoli dei ratti storici attribuiti loro dagli indigeni che sottraevano le elemosine di Francesco, quello di Paola.

saleAnomalia ancora in voga al giorno d’oggi, nonostante la cenere con cultura abbondi, non si è stati in grado di eliminare questi “immeritato marchi per classificare generi sconosciuti”.

Gli esempi in tale senso sono innumerevoli, ma quello che oggi identifica il meridione quale culla della dieta mediterranea, non è un errore, attribuirlo o aggiudicarlo a queste genti di minoranza approdati dal mare e venuti dalla Via Egnazia.

A tal fine va sottolineato che i migranti, sono stati identificati quale valore minore al sociale di queste terre e non indispensabili, in prima accoglienza, prevalendo il protocollo, secondo cui non era riconosciuto alcun diritto, in discendenza delle aree poste a coltura, costringendoli il più delle volte a migrare per terra alta, quando il referente passava a miglior vita.

Nonostante nell’antichità, le grotte furono trasformate in abituri, realizzati elevati aditivi, le terre selvagge piantumate e rese produttive; la diffidenza verso quanti erano giunti per mare della via Egnazia, restava identica, anzi, con lo scorrere dei decenni, diventava pena sociale, a cui indirizzare ogni genere di colpa, senza dubbi o processi a discolpa.

Condanne decise a priori, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare durante il giorno, o al ritorno a casa dopo il lavoro nei campi, come se fosse conferma di un mal tolto o latrocinio compiuto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo all’alba, di dover restare entro recinti solidi da costruire in altre parole una sorta di arresti domiciliari, nei propri sheshi, ad esclusione dei “Prati di confine pastorale”, non erano certo questi atti di fiducia, verso quanti sostenevano l’economia dell’epoca con sudore e patimenti irripetibili.

A tal fine è bene precisare che i “contraenti senza appello”, avevano come pena certa, l’amputazione di un arto per ogni evasione o ritardo del rientro, tutto ciò sottolinea ancora una volta quanta fiducia era rivolata ai migranti, dalle istituzioni tutte.

A ben vedere, senza soluzione di epoca, visto e considerato le notizie di cronaca diffuse dai media, nel nostro tempo che corre a due velocità, oggi più della sottrazione fisica degli arti, amputano la morale.

Ma gli imperturbabili, operosi e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare con la sella, inventarono “il Basto”, un oggetto da carico e di trasporto per cose non per la struttura dell’uomo.

Poi venne il “termine” dell’accanimento degli uomini e iniziarono le avversità della natura con terremoti, carestie, pandemie e ogni sorta di avversità.

Storicamente tutte queste attività che trovarono identica applicazione contro l’uomo, si scontrarono, con l’infinita caparbietà di queste famiglie Kanuniane, le quali, non hanno mutato nulla della propria radice di fare fratellanza onesta, distinguendosi così per la limpida esistenza, confortata ad iniziare dal 1734, con le attività sociali e clericali poste in  essere dalla ascesa di re Carlo III.

Nascono così le figure del sapere della dinastia dei minoritari, eccellenze in campo delle cose di politica, cultura, scienza esatta e ogni genere di studio per valorizzare queste terre di approdo, condividendo con tutti i profughi di simile radice lontano dal mare.

Tuttavia le questioni economiche e produttive non persero il senso di prendere l’infinita china senza “termine”, perché illuminata la via della cultura, il trionfo di tutti, rimaneva sempre valida la buia questione economica dei pochi.

Sono gli stessi che nascono e si moltiplicano nel corso del terremoto del 1783, scacciati dai promontori sicuri e solidità di quelle terre, definite ” meno pericolosi” dagli esperti dell’epoca come quelli dei recenti teoremi secondo cui i paralleli mediterranei sono uguali, ripetendo ancora l’infinita anche nel corso del primo decennio del secolo appena iniziato e dover ancora migrar per terra.

Tornando alle epoche del passato, riprendiamo con gli avvenimenti del 1796 quando i soliti noti, cercarono di agevolare i più poveri, con la misura riportata testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano, secolo XVIII°, la di cui stesura lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando un nuovo di un calvario interminabile di sudore senza guadagno; secondo cui :Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Quanto qui citato è la “filiera insediativa” affrontata dalla minoranza oggi definita Arbër, i pionieri che non mirano ad invadere, sottomettere o distruggere le terre dei mille abbracci naturali, ma per vivere in pace con gli indigeni.

Se a questo aggiungiamo il dato che migravano secondo piani prestabiliti, tra quanti credevano alle direttive fondamentali dell’Ordine del Drago, le cose non ebbero come abbiamo accennato, svolgimento o attuazione secondo il protocollo ordinistico in forma perfettamente cavalleresca o almeno dignitosa.

Tuttavia la minoranza, assieme alla maggioranza rimasta nella terra di origine, ebbero il  coraggio di assumersi l’onere di tutelare l’intero patrimonio per la discendenza, nel seguente modo:

  • i minori furono disposti e lasciati insediare lungo arche ben definite a ovest del fiume Adriatico sino al mar Jonio, dalle istituzioni laiche e cristiane dell’epoca pronte ad accoglierle, trascinando per tale fine il patrimonio immateriale;
  • di contro in terra madre chi restava avrebbe continuato a marchiare i confini di origine con l’antico appellativo segnandone volta per volta la parte sottratta.

Tuttavia nel breve e medio termine a prevalere, è stato il volano della diffidenza verso un nuovo modello identitario, che si affiancava a quello indigeno nel meridione Italiano, in grave sofferenza economica e sociale, ragion per la quale non sempre è stato lasciato libera espressione alle cose dei profughi Arbanon.

La novità fu che poi nei fatti chi rimase in terra madre a difendere confini segui le previsioni dell’epoca, diversamente dai migranti che si dovettero rimboccare le maniche e superare oltre la diffidenza non poche avversità.

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La discriminazione è dovunque, non abbandona mai le generazioni dei profughi di mare, poi migranti di terra, avendo l’indice sempre puntato e pronto a descrive “inopportune e inadatte classificazioni di prevaricazione”.

Questo è l’infinito che non cambia, per quanti usano vagare alla ricerca di luoghi paralleli, comunemente appellata casa, tuttavia essere convinti di possedere cinque sensi e sentimenti leali di cose buone, è il valore aggiunto che hanno gli Arbër, definiti per questo, dalle “Istituzioni Italiane Alte”; modello di accoglienza e integrazione, tra i più vivi e longevi del mediterraneo e quello che più vale “non somma di assoluti”.

 

P. S.   La cultura è poca, spetta ai saggi farne tesoro e non sprecarla per Strade e “Prati” dove pasce gli eletti dell’ignoranza in astinenza.

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CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

Posted on 28 febbraio 2023 by admin

braccia stese al cielo 2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge più estreme del meridione “abbracciarono” un numero molto elevato o meglio imprecisato, di profughi provenienti dai governariati, disposti a nord e a sud, della via Egnazia da Durazzo verso l’est; questi, cercavano tutti, di sfuggire per non essere piegati dalle credenze mussulmane, che chiedevano anche pedaggio.

Di essi non si contano le volte che posero in essere i protocolli di partenza in pena, ma si narra solo di approdi che vide numerosi, donne, bambini e uomini, e genitori, mal vestiti o con poco nulla in dosso, favellavano una lingua ignota, colma di dolore, lacrime e braccia stese verso il cielo per cercar calore.

A quei tempi le cronache annotarono solo questi elementi e null’altro, nessune rilevò, se li vi fossero barche o resti, nessuno annotò quanti corsero ad aiutarli e neanche per quanto tempo furono lasciati in balia delle onde di quell’epoca, o quanti non trovarono mai ristoro al sole, non asciugandosi mai.

Da quel tempo remoto gli uomini hanno cambiato molto o quasi tutto nel modo di fare per vivere secondo procedure sociali in linea con le cose evolute prodotte e messe in campo, ma quelle spiagge continuano ad essere a tutt’oggi, il teatro delle identiche cose, senza che nulla venga rinnovato in meglio, prima e dopo essere sbarcati o li nei pressi delle spiagge trattenuti per sempre in mare.

Il mare che segna per sempre una delle minoranze più numerose del meridione, è ancora distante da quello che si vorrebbe buono per quanti  vanno per trovare fratellanza, ma, non finisce qui, in quanto la china per l’integrazione, successiva,  non è poi così semplice come immaginato dai provetti naviganti, in quanto, si potrebbe definire, per essere buoni, diversamente articolata.

Come avveniva un tempo dove si affidavano prima vecchi casali abbandonati e colmi di pene da coprire, grotte da scavare, terre da bonificare, gabelle da corrispondere, nonostante si ritenevano definirli, sporchi, colmi di malattie, assassini senza scrupolo e ladri attentatori sin anche delle offerte di Francesco di Paola.

La loro presenza ha avuto sempre poco valore, permanendo labile per i primi cinque decenni, giacché, il loro operare su un determinato territorio non vedeva riconosciuto alcun diritto, per la discendenza che a morte avvenuta del capo famiglia responsabile, costringeva gli altri a emigrare per terra.

Nonostante le grotte fossero  trasformate in abituri aditivi, le terre piantumate e produttive; la diffidenza verso le genti un tempo della via Egnazia, restavano identiche, anzi, con lo scorrere del tempo, diventare addirittura discarica sociale a cui imputare ogni genere di colpa, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare asini o cavalli, durante il giorno, per rallentare eventuali fughe di malaffare, come se compire l’atto di riposare dopo la giornata di lavoro, fosse una conferma di un mal tolto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo l’alba, di restare agli arresti domiciliari, nelle proprie case, esclusi i “Prati di pascolo”, pena l’amputazione di un arto per ogni evasione compiuta, la fiducia rivolata a questi migranti non deve essere molto cambiato nel corso degli ultimi cinque secoli, dalle istituzioni tutte.

Ma gli imperturbabili e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare asini o cavalli inventarsi “il Basto” , essa infatti non era una sella, ma presentato in primo impiego come oggetto da carico o da trasporto da soma.

O come gli fu imposto dal 1563 di costruire recinti di mura, entro cui vivere i domiciliari, dal tempo del tramonto a quello del sorgere del sole, altrimenti finire di essere senza arto per ogni trasgressione di un ipotetico reato.

Poi venne il  termine dell’accanimento degli uomini, iniziando cos’ le attività della natura, con terremoti carestie e ogni sorta di avversità in malattie, ciò nonostante la tempra di queste famiglie senza tempo, ha saputo adeguarsi e con caparbietà sollevare mura di solidità per l’esistenza, difendendosi e iniziare a trovare conforto dal 1734 con le nuove regole sociali ispaniche di re Carlo III.

Nonostante tutte le cose della politica e della cultura fornirono figure di rilievo per la valorizzazione culturale di queste terre di approdo, le questioni economiche e produttive non persero il senso di calpestare, quanti rimanevano legati alle terre per la sostenibilità economica e produttiva.

Tuttavia, nonostante regole e le esigue possibilità di affermarsi va diffondendosi un dato e rimangono inconfutabili che le generazioni dei migranti approdati nelle spiagge, con storia di braccia stese verso il cielo a favellar in lingua ignota, è un dono naturale riservato solo a quanti vi nacquero e non a quanti cercano di inventarsi.

Per non riferire le pene inflitte nel corso del terremoto del 1783, quando numerosi furono scacciati di casa per terre migliori dicendo loro gli esperti ” li è meno pericoloso” teoremi ancora in voga sin anche nel 2009.

Anche quando le istituzioni dell’epoca cercarono di agevolare i più poveri, la misura di ciò viene riportato testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano del 1796 che lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando la misura di un calvario interminabile.

Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Come si può ben vedere la discriminazione ti persegue dovunque, e non ti abbandona mai, anche quando ti allontani fuori dai bacini germani, depositando fiducia negli altri  per promuovere germogli del tuo essere caparbio Arbër che vive libero da stereotipi il 2023.

Purtroppo ancora non è noto l’enunciato della moltiplicazione o non somma degli assoluti, anche dei trascorsi Arbër, in controtendenza del principio che due o più bicchieri di acqua a settantacinque gradi, riversati in un contenitore unico, sommano la quantità del liquido, diversamente dalla temperatura, che non varia.

Quando si discute delle cose materiali, immateriali in storiografia di temi assoluti, come, Lingua, Consuetudini, Metrica del Canto e Religione, non si produce nessuna sommatoria per un risultato numerico perché essi sono assoluti solitari non di somma, perché i numeri di simile calura o mira formativa non si sommano.

L’esempio dei bicchieri di acqua a settanta cinque gradi, rende chiaro lo stato delle cose, in vicende relative all’indagine per definire glie ambiti identitari della Regione Storica diffusa degli Arbër.

Per questo, ostinarsi dopo sei secoli, nel riferire cose e fatti di simile calura, non aumenta lo stato di benessere della culla di crescita, scambiati per catini in misura termica; allora prima di un’altra volta, sappiate che pur se nota come città del sole, le cose copiate restano assolute e non cambiano il senso  dei “discorsi copiati” che non saranno mai somma di calore, perché valore assoluto ben noto.

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UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

Posted on 24 febbraio 2023 by admin

527-765x1024NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile- Storico) – In Terra di Sofia, ormai non si è più in grado di distinguere, a iniziare dalla fine del secolo appena trascorso, la storia vera dalle favole inventate; prova lo sono i pomeriggi di calura estiva, quando imprudentemente si elevano “Termini” d’inopportuna memoria.

Nient’altro che rovesci degli storici sacrifici di sangue, che segnano indelebilmente il corso del lavinaio del nobile casato ormai sotterrato completamente, oggi diventato l’ameno del cruento Giuda.

Questo accade, quando si affidano agli asini, i compiti in casa per organizzare parate e si imitano le impronte del cavallo del re, disponendo sin anche la fida gendarmeria, che suona inni di nobili propositi, invece di fare il mestiere primo; ovvero, imprigionare Scriba, Asini e Falsi Re, pronti a ricevere applauso dagli astanti ignari.

Purtroppo questo è il tempo che scorre quando non si possiede la volontà di perseguire la meta del santuario, ma, in continua mutazione si preferiscono Diavoli, bardati a Mezza Festa, senza alcuna consapevolezza delle urla che quel luogo diffonde, perché  un “Dante”, lì in Terra di Sofia, è nato cresciuto e seminato germogli di sapere nobile.

Questa metafora vuole evidenziare la mancanza di un mulino, in grado di macinare e separare finemente, la farina dalla crusca, quest’ultima, la sfoglia che avrebbe dovuto difendere la locale cultura.

Tuttavia, quello che più duole, è il ripetersi con volontà perversa, delle cose più infamanti dopo due secoli dallo essersi svolte e penosamente avvenute; prima a “Giugno” in forma di tradimento, poi ad “Agosto”, con vestizioni di tradimento, concludendo alla vigilia di novembre con la pena di condanna a morte.

Non è comprensibile, come tanta perversione passi in quel “ Lavinaio”, al cospetto della Madre venuta da Costantinopoli e come se non bastasse, germoglia e fiorisce incultura, vilmente copiata e sottratta al genio locale.

Per le genti che vivono a impronta di Costantinopoli e Alessandria, il “Lavinaio”, avrebbe dovuto scorrere secondo i dettami dell’inverno e dell’estate, con protagonisti il giorno, la notte, il sole, il vento e le forme naturali irrigue, le stesse che in comune accordo, rendono merito al progredire della vita degli uomini.

Tuttavia da oltre otto stagioni, questa ritmica, ha terminato lo svolgersi in linea con la natura, in quanto vede il terzo genere, ovvero quello irrispettoso del ruolo di nascita, preferendo fare la sposa di notte che non può aver marito.

Lo stato delle cose è divenuto così inopportuno, avvilente, demenziale e deleterio, al punto da piegare le nuove generazioni, queste ultime, ancora acerbe, vivono senza cognizione alcuna, di fatti e cose del passato, non solo dal punto di vista immateriale o puramente conoscitivo, ma addirittura svengono privati della direttrice di approdo; infatti l’ipogeo, per ben due volte, nel tempo di poco men di un secolo è violentato, piantumando e sradicando ulivi nei campi, dove quanti passato a miglior vita, e quindi  inermi finiscono per essere addirittura frullati per impasto di cemento.

La Terra di Sofia fa parte di una delle arche delineate a Capua da Scanderbeg nel1464, quella che nel corso della storia ha preso l’impegno con saggia devozione, secondo le disposizioni dell’Ordine del Drago, la stessa che nel XVIII secolo preferì Carlo III per guidare spiritualmente la sua personale armata.

Questo luogo dopo qualche anno ebbe modo di dare i natali a una schiera di luminari, cui purtroppo, fece parte anche chi è considerato il giuda storico di questi esuli: il modello di accoglienza e integrazione mediterranea ancora vitale, grazie a pochi.

Ad oggi purtroppo chi studia la storia di questo luogo, pericolosamente invertita in favore della sacra famiglia perversa, impegnata non a privilegiare tempo, luogo e genio, ma tenere ben distante o fuori i circuiti della cultura che conta, adoperandosi a far diventare questa nobile disciplina un tema di commercio di insaccati privi delle essenze dell’orto botanico di Sofia.

Quando tutto questo abbia avuto inizio, per i comunemente non tema di rilievo, ma per dare ragione a  fatti e cose, si può sicuramente affermare che tutto ebbe inizio il pomeriggio dell’undici Novembre del 1799 quando il carro scortato dai Bianchi da Carcere di Castel Capuano, prese la via del Lavinaio e recarsi in Piazza Mercato, il circo di quel tempo, che per finta inforcare male poi, sgozzava come capretti i giovani e liberi pensatori.

Chissà come si si sentita sola Teresa, nel fare quel percorso al fianco del suo amato Pasquale, che andava incontro alla morte, in altre parole un funerale in solitudine con il promesso defunto, che con la sola forza degli sguardi divideva quell’ultimo amplesso di amore.

Dove stavano e cosa facevano, i falsi estimatori paesani, i parenti menzogneri, chissà come hanno impegnato i trenta denari, magari sommandoli a quelli di Giacinto e Paolo in Terra di madre Sofia, per imprestare grano, proprio dove si trova il Termine, di fianco al “Lavinaio” dove ogni 18 di agosto, scorre sangue e trascina grano.

Le cose della storia a terra di Sofia, sono come individui bendati che vorrebbero raccontare cosa è avvenuto in quel luogo ma non possono, il dovere di ogni buon ricercatore è di saper togliere quelle bende sulla bocca e poi in rigoroso silenzio ascoltare e fare tesoro del parlato di quest’ultimo racconto in pena di lingua Arbër Terminale.

Sofia e i suoi figli sono un esempio da non imitare, sia dal puto di vista sociale e sia per le tradizioni consuetudine valorizzate, giacche sempre pronti a disporre le cose “ritenute buone per gli altri, e mai per sé stessi.

Noti consiglieri e sostenitori di stato gratuito di avvenimenti e vicende, che se affrontato dagli altri unisce tutti mel mutuo muro di gomma, poi quando la stessa vicenda entra nelle proprie case, si affidano al pianto terminale con i capelli sciolti, di chi ha vissuto in solitudine la stessa vicenda.

Come accennato prima, le genti insediatesi il sette settembre 1471, nel corso dei secoli, hanno partecipato con forza alle vicende storiche al pari degli indigeni locali.

Ciò nonostante non usano ricordare i traguardi per opera e genio di molti compaesani, preferendo a questi i giuda seme di morte per danaro.

I lavinai storici in Terra di Sofia sono tre: il primo a est del costruito, il secondo nella parte centrale e il terzo a est, degradanti da sud verso nord lungo il corso prima del Vallone del Duca che va da Ovest ad Esta.

Di questi è proprio quello centrale ad essere il baricentro delle eccellenze storiche in Terra di Sofia, diventato poi nel corso di quel tragico diciotto di agosto, piena di lacrime e grano insanguinato.

Assistere all’esibizione di qualche giullaresco farfallone dopo due secoli, rievocando l’orrenda giornata, per sentirsi protagonista irresponsabile senza velo anzi con fascia e dare la misura locale della vergogna, è stato come se il “ventisette di gennaio” giorno della Shoà, diventasse la giornata del grasso di colatura e lo cibarsi di carne alla griglia.

Un buon pellegrino non smette mai la via del santuario prescelto, anche se lungo il cammino incontra l’orto botanico di Sofia ridotto a discarica o luogo per bambini, che rubano polvere, per spargerla in testa, per sembrare adulti saggi, quando non sono altro che capricciosi di fasce sporche perché mai dismesse.

Allo stato delle cose e per terminare non rimane altro che piangere sui resti delle case che non parleranno mai ai bambini, che resteranno delusi, quando in età adulta scopriranno che quelle sono solo abusi.

In oltre chiedersi se Franco adesso che è passato a miglior vita, ha capito che umiliare Atanasio per il pianto della madre Adelina, davanti la bara di Demetrio non fu mera esibizione.

Caro Franco ovunque tu sia in cielo, devi comprendere che la madre di Attanasio, in quel frangente di dolore per la doppia perdita fisica e quella morale in atto, aveva capito, quando dolore si arreca quando viene riverberato in solitudine e non vuoi finire sola come Adelina, perché le ragioni materna non sono mai condivise quando non sono di casa proprie del figliol prodigo.

Queste note sono il pellegrinaggio culturale nascono quando cresci sotto la guida, prima del parlare secondo la metrica in terra di Sofia, sotto la guida di Madri e Gjitonie che sanno di tradizione e costumi gli stessi di cui si cibano e vestono cibano, poi  da adulto studiare dopo essere stato battezzato in promessa di tornare e spiegare, quando tutto è pronto per la partenza potresti anche trovare nel tuo orto botanico, medici e infermieri che fanno gli invalidi da curare, li capisci che la penitenza da assolvere è iniziata.

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LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

Posted on 18 febbraio 2023 by admin

I fratelli Grimm a lavoro

NAPOLI (Lo Storico Atanasio Pizzi Basile) – L’Accademia persegue il fine di tutelare, conservare e divulgare la lingua degli Arber, delineando Termini solidi e indistruttibili, con monoliti atti a circoscrivere le interferenze moderne, le stesse che insistono nel generare fatuo, cercando di vanificare la promessa data, in terra natia nel 1469, quella che ancora oggi i “Cruscofoni” promuovono dentro e fuori i confini della Regione storica diffusa degli Arbër.

Oggi da Napoli con il contributo di parlanti natii delle 21 macro aree, che compongono la regione storica diffusa, si vuole separare la farina, cioè la lingua, identificata con l’Albanese, dalla “crusca” ovvero la corazza che gli esuli utilizzano da quando approdarono nelle terre parallele, dal 1469 al 1502.

Il nobile intento a impronta dell’impresa del Cavaliere Giorgio Castriota figlio di Giovanni, non è stato finalizzato a forme di battaglie per sovrapporsi agli indigeni, ma per tutelare la propria identità rispettando anche le altre Crusche ancora vive.

Un progetto di non facile attuazione, ma la caparbietà che contraddistingue questo popolo, fa la differenza, con  quanti rimasero in terra natia a segnare confini di terra in fermento.

Tuttavia tutti consapevoli allora, che dovevano come noi oggi, affrontare non poche difficoltà, prima di uscire in pubblico confronto, per realizzare un solido progetto, che accolga con misura tutti i Residui nei luoghi di macinazione dei cereali, separando con dovizia di radice, dal grano duro.

Un semplice ma antico atto di rifinitura, noto nel saper distinguere con saggezza la farina di oltre Adriatico, dalla crusca Arbër, ovvero, l’elmo del drago e non del capretto come suolesi rappresentare; come facevano le nostre genitrici quando infornavano buk me Krùnde , per sfamare ogni genere vivente di quelle terre, le stesse genitrici che hanno saputo allevare quanti sanno distinguere, il cattivo dal buono.

L’accademia che germoglia a Napoli, non è altro che un seme antico piantato nella purpignera (in Arber, vurvini i llem llitirit) protetto poi in età parlante, nel recinto del “giardino di l’Ina Casa” da uno dei contadini della lingua Arbër, definito il più eccelso, in Terra di Sofia, dal 1913 al 1964, anno, quest’ultimo, che passo il testimone al giovane parlante adottato a Napoli.

L’unico esponente Arbër vissuto con lo scopo principale di vigilare sul buon uso delle cose materiali e immateriali, portate nel cuore e nella mente delle genti provenienti dalla terra madre.

Il nome, promuove i crusconi senza alcun dubbio come eccellenza (per burlesca modestia, «gente degna di crusca e non di farina»), gli unici in grado di separare, nella lingua, la farina, cioè la lingua più pura, dalla crusca, cioè l’elemento meno valido, ovvero l’elemento della difesa di suolo.

La formazione culturale nella capitale con eccellenze in campo linguistico, sociale, storico, sia materiale ed immateriale, nel campo della musica, del restauro, della museologia oltre a saper leggere e disegnare le cose del passato, consentono quel titolo accademico, un tempo esclusiva delle Botteghe del Sapere o figli in discendenza.

A tal proposito è bene fare una piccola premessa, ovvero, fratelli Grimm, si nasce e non lo si diventa, solo perché si è in grado di favoleggiare, senza adeguata consapevolezza di garbo, educazione e sentimento, come hanno cercato di fare provetti fochisti, saliti sulla Cattedra che non è la stessa cosa di un Camino che unisce la famiglia.

Generando riverberi incontrollati prima lungo le Gjitonie, raccontate dagli indigeni e poi allontanandosi sempre di più, in piazze e palchi, scambiando, deserti culturale con oasi.

I fratelli Grimm sono diventati celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca e più in generale europea.

Le fiabe, per loro natura tramandate oralmente, sono di difficile datazione e attribuzione come la trasposizione letteraria in lingua napoletana Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, che precedette sin anche i Grimm, per più di due secoli.

Tuttavia le loro storie non erano concepite per i bambini, oggi ricordate soprattutto in una forma depurata dei particolari più cruenti, e non mancano di contrarietà a edulcorare le storie.

Resta comunque sempre valido in concetto di Camino, la Crusca che contiene e avvolge la parte genuina di un ben identificato popolo, attraverso l’attenzione che i minori applicavano nell’ascoltare e comprendere le cose materiali e immateriali delle favole.

In dato non è stato compreso dai giullari o saltimbanchi, che invece di comprendere il senso dell’atto che si andava a esternare, disporre, attuare e attuare attorno al camino, ovvero la fucina del parlare una lingua antica, ci si è fermati alla mera falciatura delle favole poi lasciate alle intemperie a macerare.

Le favole non sono altro che il “vocabolario primo”, il più antico, autentico e solidale condiviso dall’uomo, senza carta penna e calamaio, sin dalla notte dei tempi realizzato.

Essendo le favole racconto di generi e parole che si usano descrivono il corpo umano e l’ambiente e le cose naturali che lo circondano per farlo crescere e vivere, in definitiva il messaggio, la consuetudine che i fratelli Grimm, seminavano e diffondevano per unire uomini della stessa terra, in tutto, quello resta e sarà sempre il corpo umano, lo stesso che suda, semina, opera e raccoglie le cose per fare vita.

È naturale chiedersi perché anche noi Arbër, per iniziare a delineare il vocabolario primo, quello che unisce la Regione storica diffusa ad Ovest del fiume Adriatico, con le popolazioni ad Est di detto fiume, non faremo altro che diffondere semplici parole che descrivono il corpo umano e il suo ambiente naturale?

In altre parole, mano, braccia, orecchie, capelli, ecc., ecc.; avrete, come per incanto, adesioni da parte di tutti i parlanti moderni e antichi di questa lingua, perché tutti senza alcuna distinzione comprenderanno il sostantivo, il verbo o aggettivo che sia, senza riserve.

P.S. visto che non ho fratelli, io faccio Grimm e voi sarete la fratria, così la storia si ripete anche per gli Arbër

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LA CULTURA SOPRAVVIVE FUORI DAGLI ISTITUTI IN PENITENTE SOLITUDINE!

LA CULTURA SOPRAVVIVE FUORI DAGLI ISTITUTI IN PENITENTE SOLITUDINE!

Posted on 13 febbraio 2023 by admin

Giotto-cappella-degli-scrovegniNapoli  (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Dopo secoli vissuti entro i paralleli di accoglienza, senza mai palesare di essere d’Arbaria  stato sovrano, gli Arbër o Ghjèghj, vivono con orgoglio il ruolo di cittadini Italiani.

A tal proposito, come la geografia e la politica insegna, essi popolando oltre cento Katundë  delineano la Regione storica diffusa degli Arbër, vero e proprio insieme diffuso e identificativo sociale, linguistico e cose materiali ed immateriali in cultura, ovvero, la minoranza più solida e duratura del mediterraneo, dalla terminazione del medioevo.

L’evidenza di fatti e delle cose, presenta uno scenario secondo cui, l’universo culturale, delle Minoranze storiche di Calabria, Puglia Basilicata, Abruzzo Molise Campania e Sicilia, seguono logiche del vivere in rispetto della terra parallela ospitante, esprimendo così la propria radice, promossa, sia dal governo delle donne e degli uomini, in derivati storici, che promuovono e allevando le generazioni, negli ambiti di Gjitonia.

Tuttavia al giorno d’oggi la globalizzazione e i processi di cultura miscelati, esalta figure di questa “Arbaria”, in attività fuori e dentro il luogo dei cinque sensi, ignorando confini, generalizzando ogni cosa, aggiungendo pene alle  figure genuine, oltremodo,  isolandole secondo direttive, emanate a impronta di quanto disposto il 10 ottobre del 1986.

Pochi conoscono le realtà parallele, che vivono saggi o eccellenze della regione storica diffusa degli Arbër, in quanto, le perimetrazioni dei gruppi familiari allargati, in forma di fratrie, sommate a quelle compassate, restringono gli spazi per la cultura a quanti saggiamente dentro le proprie, case allevano sapere puro, lasciando spazi di libertà a  quanti/e, si adoperano per allevare orecchie d’asino, ai Gjitonj/e, in prove canore di ragli, muggiti, belati e attività, poste al bando di corte dai tempi di Platone.

Correva l’anno 1871 e la Germania che si unificava, voleva riconoscersi in una lingua unitaria, non sapendo come fare, si affidò alla saggezza dei fratelli Grimm.

Questi, due esperti e ricercatori di storia fatti e favole, non dovettero fare sforzi immani e ne si adoperarono a predisporre grammatiche o componimenti di assurde, con inutili parlate locali, ma data la loro esperienza in tale settori, unificarono la lingua Germanica, partendo e avendo come solido, unico, indivisibile e incontrastato riferimento, le cose e gli organi che componevano il corpo umano.

Nessuno sforzo, nessuna favola nessuna, leggenda, o eroico avvenimento di saggi dovettero allestire, per unire il popolo di questo vasto territorio, nelle braccia ben accoglienti del corpo umano e i luoghi, le cose ambientali di cui si nutriva l’uomo geniale, per germogliare simili.

Ad oggi si parla, si esalta, si discute, in rigoroso affanno, per unire la regione storica, sotto un idioma unico e indivisibile; cosa può esserci di cosi semplice e unitario per addivenire a questa soluzione………….. semplice; il corpo umano e non le favole, di cui si occupavano i fratelli Grimm per dilettarsi quando non dovevano fare cose solide, durature e serie.

Di contro dal 23 febbraio1985 e poi via via come cerchi concentrici, hanno raggiunto ogni dove, si producono, regimi in dissenso, escludendo chi promuove nuovi stati di fatto, non in linea con i poteri dei compassi, che fanno musei, immaginandolo il mercato di Zofferano.

Per questo utilizzano barriere per non fare cultura e chiudono gli spazi dell’apparire a quanti fanno innovazione e non riciclo di cose e concetti vetusti, relegando chi tiene fede al diciotto di gennaio, per la promessa data in terra madre: (Besa).

Sono questi valorose figure ad essere condannati e perseguiti secondo dure e continuate umiliazioni, escludendoli dalle cose pubbliche, relegandoli nell’illuminata solitudine, sin anche dalle istituzioni amministrative di ogni ordine e grado, le stesse che  dovrebbero promuovono attività di ricerca e valorizzazione, specie se già pronte nelle menti e nei cuori di queste solide figure di libero pensiero, preferendo promuovere,  il diciotto di agosto l’elogiare  il Brusca locale e non ricordare il nobile giudice di chiesa in pena.

La condanna emanata dai neri, mira esclusivamente a penalizzare le eccellenze buone e sapienti, in altre parole, gli eroi che offrono il proprio impegno, per la tutela di radice identitaria con senso, garbo; il fiorire di radice storica.

La condanna inizia con un ergastolo definitivo senza in difesa, come avveniva per i liberi pensatori del ‘99, cui nel breve tempo si mirava prima alla morte fisica, per eliminare la mente, oggi non più possibile, anche se il fine perseguiva il non diffondere le cose immateriali e il materiale di scritti;  regimi totalitari, che usava eliminare il nuovo pensiero facendo ardere scritti; condanna, applicata in ogni dove, grazie all’opera di faccendieri culturali senza scrupoli, pronti a sterminare ogni sussulto ritenuto alieno del non sapere o germoglio di albero, per la libertà di pensiero.

Comprendere il senso di questa condanna è molto complicato, perché frutto di pazzia e dell’irragionevolezza dell’uomo cattivo, esso trova spazio e vie di fuga, in quanto contrappone, stolti e incoscienti da una parte, la massa del 99%; dall’altra i pochi creativi in raffinato lume all’1%.

Rimane comunque e dovunque l’irragionevole attività dei tribunali con a capo quanti sfornano inopportune sentenze senza appello, decise, per acclamazione di quanti sono nati di vesti povere.

Intanto la condanna fa il suo corso, esclude i malcapitati saggi, da ogni confronto, dibattito o forma culturale che potrebbe abbassare la media delle orecchie in elevato verticale.

Tuttavia, avvolte capitare per fortuiti atti, di riuscire ad accedere al pubblico dibattito, ma subito intercettati, si è ignorati per poi essere                                       esclusi dall’aula di confronto, perché non invitati, o perché potrebbero sciogliersi le catene del fatuo pensiero, che non germogliano il grano buono, ma solo generi ignoti e confusi, i detentori di cose e principi riversi, di concetti ormai in aceto che non diverrà mai vino buono.

L’esercito dei pronti, ad escludere e tenere relegate figure in regime di compasso; arche di ignoranza che, dicono, parlano ed esprimono giudizi verso i saggi, in perenne condanna, spargendo cose che alla fin dei conti imprigionano la mente del popolo in perenne cammino, senza speranza di luce o meta.

Chi ha emanato questo anatema di esclusione, ancora non è consapevole che, gli Arbër hanno avuto, alla fine del medio evo, il condottiero lo Scanderbeg, e nel tempo del rinascimento i dodici saggi luminari o apostoli di cultura, rispettivamente qui elencati:

1) Rev. Bugliaro;

2) Bib. P. Baffi;

3) Vesc. F. Bugliari;

4) Not. G. Feriolo:

5) Vesc. Bellusci;

6) Vesc. G. Bugliari;

7) Edit. V. Torelli;

8) Ing. L. Giura;

9) Avv. R. Giura;

10) Avv. P. Scura;

11) On. F. Crispi;

12) Gri. A. Basile;

a queste eccellenze di religione cultura e arte sempre vive e irraggiungibili, va aggiunto; chi approda per cenare e trova il piatto a tavola, in tutto “il Giuda”, ma questo lo lascio aggiungere, come premio, a chi ha avuto la pazienza di leggere;

13)………………………………….

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(LE MASIES DELL’AGRO CALABRESE); PIETRA MILIARE DELLA PRODUZIONE ARBËR (Válë, Vérë e thë mbielëturáth e Votëvethë)

Protetto: (LE MASIES DELL’AGRO CALABRESE); PIETRA MILIARE DELLA PRODUZIONE ARBËR (Válë, Vérë e thë mbielëturáth e Votëvethë)

Posted on 29 gennaio 2023 by admin

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É IL TEMPO DI APPELLARLA: “REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR”

É IL TEMPO DI APPELLARLA: “REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR”

Posted on 21 gennaio 2023 by admin

Ato

NAPOLI (a cura dello Storico Atanasio Pizzi Basile) – La geografia suddivide i territori del globo terrestre in, Regioni Politiche, Storiche e Ambientali, esse rispettivamente definiscono:

– gli ambiti politici, economici e culturali simili, condivisi da una ben identificato popolo;

– i legami storici di popoli che migrano per la tutela i propri valori identitari, diffusamente disposti nei parallelismi ritrovati;

– i sistemi ambientali di uno specifico luogo, non replicabile o ripetibile altrove.

Parlare di regioni politiche circoscritte, o localmente ambienti naturali, non è l’argomento di cui si vuole in questa breve diplomatica trattare, ma il rispetto, volto nell’appellare, non “Regione Storica ” o identificato popolo, privato del suo territorio, ma Allegoria”, senza regione, in tutte le divagazioni storiche e  nelle analisi grammaticali “diffuse”, in terminazione di “ia”.

Certo che per ogni azione la mira dovrebbe puntare nell’atto di valorizzare le cose del popolo in esame di tutela, non affidarsi a un semplice e isolato sostantivo, verbo o aggettivo, con la terminazione in “ia”, perché così, non sarà mai sforzo sufficiente per valorizzare cultura, luoghi e uomini.

A tal fine si può affermare che non è così che si dà forza, a secoli di storia in sacrifici, per giungere a nobili e duraturi risultati.

Ogni qual volta, che è stato chiesto espressamente memoria, di tele terminazione alfabeta, le molteplici garanzie, dai saggi non sono convenute e una tessitura comune, chiara o comprensibile, se non romanze estratte da altre culture.

Ragion per la quale, prima che lo storico incontro tra i presidenti Italiano e Albanese, avvenisse nel Cortile Adrianeo, è stata inviata ampia missiva al Presidente, che poi nel mitico incontro si è espresso, come qui segue: “gli Arbër sono esempio di accoglienza e integrazione mediterranea e vanno tutelati”.

In ragione di questa elevata affermazione, e rileggendo le direttive legislativo del 26 marzo 2008, n. 63, per il quale l’indirizzo fondamentale di tutela, non deve esse inteso come “mero divieto alla non discriminazione dei minori”, bensì, “sollecito ad acquisire atteggiamenti e misure positive per il prodursi della più solida continuità culturale”.

In ragione del fatto che per principio, gli Arbër, sono sempre stati rispettosi della legittimità, che pretende che i confini etnici non siano violati dalla politica e, in particolare, che i confini etnici all’interno di un determinato Stato … non separino i detentori del potere di tutti i cittadini.

In ragione di ciò si conferma l’urgenza, di promuovere studi multidisciplinari, secondo cui, una identità culturale, non può terminare con l’essere identificati come lingua altra, ignorando i meriti delle attività, ad essi attribuite, in campo sociale, culturale, in consuetudine, credenza, il genio locale oltre al rispetto dell’ambiente naturale e le leggi di quel territorio nazionale, giacché, luogo diffuso di “esempio in modello identitario”.

La Regione storica diffusa degli Arbër, rappresenta un fenomeno mediterraneo che non ha eguali, essa si riverbera identicamente nel corso dei millenni, sempre in egual misura, facilitata dal suo codice antico e per questo conservato nei detti termini diffusi.

Un popolo capace di confrontarsi con le genti indigene di ogni luogo con la fratellanza, la conoscenza, per evidenziare in prima analisi, il voler vivere in pace operosa e il rispetto del luogo di accoglienza, buone intenzioni finalizzate al rispristino delle cose perdute o in pericolo, di quel luogo buono.

Greci, poi Romani nel tempo delle capitali di Oriente e Occidente, i Veneziani e tutti i popoli e le dinastie che hanno dominato il vecchio continente, hanno sempre riconosciuto a questo popolo, le caparbie intenzioni di tutela di uno specifico territorio, sulla base del leale confronto tra uomo e natura.

Cosi come avviene dopo il 1468, il tempo della unica e vera migrazione albanofona, durata sino al 1502, un corridoio di accoglienza per Arbër e Arbën, verso le province del Regno di Napoli.

Un patto progettato, definito e sugellato alla luce dei principi di mutuo soccorso, dei facente parte dell’Ordine del Drago, i quali, prima in favore degli Aragonesi, e poi verso i profughi provenienti dalle terre di oltre adriatico orfani del padre condottiero, allestirono capitoli e arche di preferenza, durati non meno di cinque decenni.

Oggi la minoranza di tema, detiene un potenziale in autotutela relativamente solido, la cui tendenza tende a sminuirlo con provvedimento molto discutibili, in altre parole, con farina di sacchi altrui, terminando di fare come il navigante inesperto con le vele spiegato al vento, senza comprendere come per dare forza alla navigazione e nel mentre il vento termina.

Sono numerosi gli accadimenti e gli avvenimenti che sviliscono la forza identitaria di questo popolo, a cui comunemente sono abbarbicati fatti cose e persone indigene o accadute in altri luoghi, non ultimo e il divulgare promuove e valorizzare l’accoglienza e i percorsi del turismo buono, senza menzionare l’ideatore di questa nuova disciplina della carta stampa del XIX secolo scorso.

Come l’attribuzione al luogo dei cinque sensi degli Arbër, esposta in gogna come mera piazzetta, abbellita da quattro, cinque, forse sei e anche sette porte, (buon peso come si fa al mercato) per terminare il preferire l’indigeno al parente (cosa mai vera ne disposta in nessun loco) poi venne, il mercato a cielo aperto del Criscito per fare pane, senza mai citare il luogo dei cinque sensi o ancor meglio il governo delle donne per fare discendenza e formazione alle nuove generazioni, in altre parole la scuola ancor prima che Greci e Romani ne avessero consapevolezza.

Senza dimenticare l’evento storico passato inosservato, da tutti i cultori e difensori della storia del consuetudinario di minoranza, restati impassibili davanti al genio che costruiva un Katundë nuovo, perché esperto delle terre desertiche prive di Acqua, affermando per questo, (quindi udito e noto a tutti i difensori di cose malevoli), di voler costruire un “nuovo centro antico” in quanto forte in all’allestire  cantiere, in loco meno pericoloso, impastando, centrifugando alchimie in cemento e intrecciando ferri strutturali, “per fare Gjitonie a petalo”.

Il consuetudinario importato dagli Arbër e Arbën, forza indelebile della Regione storica diffusa degli Albanofoni, oggi vive lo stremo delle ultime forze, per questo, occorrono figure di estrazione curriculare, capaci di attingere dal cuore e dalla mente e i cinque sensi, tutto l’inchiostro indispensabile, per diffondere la storia vera, secondo il diktat quanti sono in sintonia con la storia vera.

Per terminare, un piccolo appunto va fatto sul costume tipico Arbër; quello che unisce le cose della casa e della chiesa e fare famiglia, ovvero, il manuale in forma di arte sartoriale, comunemente indossato, per scalciare, ballare e sollevare a mo’ improprio, così tanto da non creare i parametri di educazione minimali, per i quali fu realizzato.

Esso oggi appare come lamento stremo di stoffe ori e merletti, inoperosi delle antiche regine del fuoco, vibrazione di filamenti nelle attività di famiglia, che al giorno d’oggi si traducono, in atti non di valore, ma per soffocare gli stridi di dolore delle famiglie che terminano la missione.

A questo punto urge appellare in raccolta, le eccellenze tutte lasciate a macerare, per sterili campanilismi, il popolo delle cattedre vuote o spazi ameni in attesa di udire certezze; serve alimentare il futuro di verità e certezze, lo stesso intercettato ed espressa dal presidente della Repubblica Italiana, in quel cortile che ha sempre dato lumi solidi alla minoranza, gli stessi disperi del protocollo Arbër, troppe volte depositati in luoghi di buio permanente!

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DICIASSETTE E DICIOTTO GENNAIO DEL 1977 (Dietë e shëtat e gnë, thë moi Janaritë 1977)

Protetto: DICIASSETTE E DICIOTTO GENNAIO DEL 1977 (Dietë e shëtat e gnë, thë moi Janaritë 1977)

Posted on 17 gennaio 2023 by admin

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PIRRRS: PIANO ILLUSORIO DI RIPRESA E RESILIENZA DELLA REGIONE STORICA

Protetto: PIRRRS: PIANO ILLUSORIO DI RIPRESA E RESILIENZA DELLA REGIONE STORICA

Posted on 12 gennaio 2023 by admin

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GNË FILÀRË JONË (Un tema nostro)

Protetto: GNË FILÀRË JONË (Un tema nostro)

Posted on 05 gennaio 2023 by admin

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