Archive | In Evidenza

KATUNDË PER CHI NASCE ASCOLTA CRESCE E PARLA ARBËREŞË

KATUNDË PER CHI NASCE ASCOLTA CRESCE E PARLA ARBËREŞË

Posted on 25 luglio 2025 by admin

librandi Sica

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ad iniziare dalla metà del secolo scorso e in tutto quello ad oggi trascorso, si snodano Katundë arbëreşë dove si usa disgregare in misura progressiva, il valore demografico, culturale oltre i valori paralleli innestati così come importati dalla terra di origine.

L’abbandono dei centri antichi in generale e le pertinenze storiche in particolare, estese sin anche all’agro ormai non più produttive, sono nelle disponibilità e in favore di politiche che non hanno alcun riguardo del patrimonio storico qui depositato.

Vera resta il dato che, gli addetti preposti, trovano più idonee erodere senza impegno o rispetto le storiche località, sulla scorta del dato che essendo scarsamente formati, violentano con arroganza e pressapochismo, lo svolgersi di questa pena ogni stagione e, qui in questo breve si vogliono evidenziare le ragioni riferire ai Katundë arbëreşë.

Il processo penoso fortemente sostenuto e in atto, mette a rischio non solo la sopravvivenza di intere comunità, ma anche la ricchezza dell’insieme culturale che, rappresentano nel cosmatesco mosaico di tradizioni e storia delle colline d’Italia.

In specie le minoranze storiche studiate e indagate in numerosissimi dipartimenti non per l’edilizia tradizionale del bisogno, non per le consuetudini storiche notoriamente mai trascritte, ma per fare esperimenti variopinti senza fonte specifica del pigmento.

Il tutto si concretizza nel dato che non si propone o si predispone alcuna formazione, in favore delle nuove generazioni prima che esse partano, per raggiungere le università più eccellenti d’Europa.

Questa mancanza si traduce nel dato che, una volta formati, non scelgono di tornare, né tantomeno sono mai invitati a partecipare, nonostante i titoli e curricula acquisiti, che potrebbero essere fondamentali per il futuro di questi luoghi di memoria .

Ne si organizzano dibattiti, confronti o seminari formativi, utili per i liberi pensatori restanti locali, che  si presentano sul palcoscenico come unica forza interpretativa e culturale per leggere e valorizzare il patrimonio materiale e immateriale, qui ancora resiliente.

Il tutto si traduce in una diaspora che si rinnova ciclicamente in ogni stagione, impoverendo ulteriormente il tessuto sociale e culturale delle comunità, di ben oltre cento Katundë del meridionale e, questo dato è attribuibile solo agli arbëreşë.

Il protocollo di preparazione locale, connesso che le attività di formazione dipartimentale, potrebbero essere un laboratorio per architetti, antropologi, sociologi, psichiatri, legislatori, urbanisti titolati di storia, visti gli echi qui ancora abbarbicati, in precario riverbero.

Tuttavia si preferisce esaltare il genio degli ultimi o, chi non ha formazione curriculare, competenza e genio locale, esaltando pubblicamente e istituzionalmente l’incompetenza, che ignora il canto muto dei vicoli brevi, intrisi di contenuti in memoria antica.

E solo chi ha titoli e forza per conservare memoria o, vedere, ascoltare, luce di queste fiammelle ondeggianti lungo i cunicoli di vita sociale potrà avvertire quel vento soffice che li sfiora maternamente.

Gli stessi vicoli che se opportunamente osservati e ascoltati, potrebbero fornire spunto per temi di sviluppo, in forma di concorso per giovani titolati, al fine di far rivivere senza soluzione di continuità, quell’antico parlato di operosa arte del bisogno.

Il valore dell’architettura vernacolare ad oggi, è incastonato identicamente, in attesa di essere il punto di forza da cui trarre ispirazione, per annaffiare quella radice stesa al sole, che va dal centro antico, sino ai cunei dell’agro di confine.

Il tutto dovrebbe essere finalizzato a risvegliare il senso di appartenenza, lo stesso dove si nasce e si cresce in solidità familiare, che con caparbietà attende di essere rigenerato, perché identità di luogo, poco nota alle nuove generazioni, ai canali turistici e dei media, che vanno alla spasmodica ricerca delle origini dell’uomo.

Tuttavia questo non deve sfociare nel produrre enormi flussi di rifugiati culturali, affamati di notizie per fare tenerezza, moda per quanti qui approdano in cerca di un palco, non avendone avuto agio nei loro luoghi natii, deturpando la filiera storica di confronto in radice Greca, Bizantina, Longobarda, Cistercense, Arbëreşë, Francofona, Ispanica e molto altro ancora.

Naturalmente gli addetti preposti devono essere molto cauti e non terminare nella ‘turbinosa-manomissione edilizia’, ovvero un’architettura post-vernacolare, in cui si ignorano le tessiture della storia fatte da filamenti di politica, identità, cultura e territorio.

A tal fine è bene precisare che ‘turbinoso’ è di per sé un termine violento per definizione e, questo crea situazioni che non implica una qualità che garantisce tutela, ma potrebbe devastante ciò che esiste già in dormienza secolare.

Se poi il protocollo si applica anche ‘in forma turbinosa all’architettura’ ogni cosa si piega, si torce, si vela e si denuda, disgregando ogni possibile espressione del costruito legato al tempo, perdendo la diritta via che unisce ogni forma indispensabile.

Lo sviluppo dell’architettura dei Katundë, deve essere intesa come un’esperienza virtuosa o a dir poco originale, specie quando si cerca con pennelli inopportuni ‘cromatismi’ di vestire in costume inopportuno luoghi e cose del passato, sin anche dove sono riconosciuti ruoli di memoria storica immateriale, la stessa che purtroppo rimane poco noto a quanti trovano palco per apparire.

Dopo il caos edilizio, dovuto alle risorse qui riversate dagli emigranti, e del bum economico, ha avuto inizio un processo di regolazione urbanistica voluta dal bisogno di imitare tutti le metropoli.

Da allora in questi ambiti vennero riversati e realizzare spazi, per aprire nuove vie veicolari, compromettendo, sin anche i toni di luce genuina smarriti.

Tuttavia anche se il passato poteva sembrare o apparire dittatoriale o intoccabile, esso si riflette nel dato che si voleva mutare le cose, ma quella che ancora prevale è la povertà culturale da palcoscenico, perché si continua ad essere incapaci di valorizzare alcun che, del patrimonio cittadino e, sin anche quello che fa parte dello storico confronto tra generi e natura.

Dalle pietre delle murature, ai selciati, sono tutti sottoposti a cementificazione terminando con l’avere, strade ed edifici trasformati a misura di una passeggiata multicolore, per soddisfare una richiesta assurda e inventata senza alcuna ragione storica.

Ridisegnando così una sorta di nuovo centro antico, camuffando e dando pena alle forme che in questi vicoli hanno riverberato storia e ascolto.

Vale lo stesso principio per la memoria della toponomastica storica, uno degli strumenti fondamentali per la conservazione dell’identità linguistica di uno specifico punto in ogni Katundë.

E quando questa viene trascurata o sostituita da nomi moderni, generici o “italianizzati”, si compromette un patrimonio immateriale che raccontava pene e ricorda momenti, cose, figure e famiglie di una migrazione storica per il bisogno di tutelare la propria identita.

In assenza di un riconoscimento toponomastico ufficiale, già ad oggi compromessi dal rotacismo linguistico, rimane solo la memoria di singoli o prescelti.

Ad oggi, non resta che ridare spazio e scena agli specifici tratti di storia, gli stessi che giorno dopo giorno diventano più difficili da interpretare, tutelare e promuovere in azioni di salvaguardia coerente.

Il rischio è la graduale scomparsa delle tracce visibili e non, della presenza arbëreşë, rendendo più vulnerabili le tradizioni linguistiche, di credenza e architettura che hanno caratterizzato questi luoghi.

Un’efficace politica di tutela dovrebbe, quindi includere il recupero e la valorizzazione della toponomastica storica, come segno tangibile di continuità identitaria e come strumento di riconoscimento giuridico e culturale delle minoranze storiche.

Non solo per rendere la giusta memoria ai suoi abitanti, ma per tracciare e disegnare le linee principali secondo cui il centro storico ha preso forma e consistenza, nel corso di almeno sei secoli.

Ogni Katundë è diventato oggi il palcoscenico da cui offendere, manomettere o affondare la memoria con emblema il formalismo, fatto di intonaci coloriture e informali adempimenti, che ne violano continuamente le prospettive sin anche dall’alto.

Accanto a questo tipo di “Urbanismo Bulico”, sono sorti edificati in sostanza di muri e finestre con vetrate senza senso, sicuramente al contrario della misura discreta come era un tempo fare.

La rinascita evidente a tutti, resta sospesa tra modernità e tradizione, tra caos e disordine, tra colore e monocromia sempre più sfuggente.

Una sintesi del paesaggio urbano, che va dalla qualificata vernacolare del bisogno alla più recente dell’apparire dei boschi verticali, disegnati in progetti dove manca la volontà diffusa di costruire per i cittadini e, renderli indistintamente partecipi al processo di falsa memoria.

O meglio attirarli nel percorso di queste nuove ‘scalfitture’ urbane affasciate con tecnologie che vivono del protocollo del profitto a ogni costo, per generare illusorie gesta instabili e comunque volti soprattutto a illudere quanti si apprestano ad animare Katundjnë.

Tutto questo trova anche conferma con le attività poste in essere dal dopoguerra, segnalando un punto di svolta non solo sul piano politico ed economico, ma anche in ambito culturale e spirituale.

Con la ricostruzione e la progressiva secolarizzazione delle società, le chiese, intese sia come edifici fisici sia come luoghi simbolici del sacro, sono spesso divenute oggetto di, riconversione e, in alcuni casi, di vera e propria manomissione.

La crescente industrializzazione e urbanizzazione ha comportato, in molte aree, la distruzione o lo snaturamento di edifici religiosi per far posto a nuove infrastrutture senza orientamento di credenza.

In lungo e in largo in ogni Katundë, molte chiese sono state modificate radicalmente per ragioni “funzionali”, spesso senza il rispetto del valore storico, artistico e spirituale che esse racchiudevano e, con esse anche i luoghi di sepoltura storica.

A seguito del Concilio Vaticano II, si assiste inoltre a una trasformazione interna alla Chiesa e, molte liturgie cambiarono, gli interni vengono manomessi del loro antico valore e le opere d’arte vengono rimosse, accantonate per essere sostituite.

Questo fenomeno, giustificato come aggiornamento pastorale, ha però spesso portato a una “spoliazione” delle chiese, svuotandole di elementi che ne raccontavano la storia e l’identità.

E la questione assume toni più duri in luoghi di culto, profanati senza alcuna attenzione consapevole di memoria, non quella più antica che e complicata da interpretare, ma almeno delle vicende de tardo secolo scorso.

Qui la manomissione è solo fisica ma ideologica, parte di un più ampio tentativo di cancellare la credenza dalla vita pubblica, per una più moderna e imbiancata.

Negli ultimi decenni del Novecento, l’emergere di una nuova sensibilità per la conservazione del patrimonio culturale ha portato, almeno in parte, a un rinnovamento di questi luoghi.

Tuttavia, l’abbandono spirituale da parte delle comunità, rimane un segno tangibile della chiesa che non è stata solo un luogo sacro, ma anche un centro identitario e comunitario, da ciò la spogliazione, in molti casi, ha significato lo sradicamento di memorie collettive e radici profonde estrapolate per lasciare spazio a piantumati ad uliveto.

Altra manomissione storica inconsapevole è stato il rifacimento dei palazzi realizzati dopo il terremoto del 1783 che devastò la Calabria e la Sicilia orientale, il Regno di Napoli promosse un’imponente opera di ricostruzione nel corso del decennio francese.

I nuovi palazzi, edifici pubblici e abitazioni vennero progettati secondo precise regole regie antisismiche, un raro esempio di prevenzione pensata nel Settecento e realizzato nei primi decenni dell’ottocento.

Le norme imponevano fondazioni su terreni solidi, strutture in muratura con incroci di legno la cosiddetta tecnica del “baraccato”, proporzioni geometriche ben studiate e altezze contenute.

Molti dei centri storici dell’area arbëreşë furono ricostruiti seguendo queste direttive, dando vita a insediamenti armoniosi, funzionali e soprattutto sicuri, con un cuore antico che lì, al centro dell’edificato pulsa senza tregua.

Tuttavia, nei secoli successivi queste architetture furono progressivamente manomesse e non furono più emblema solido della memoria delle famiglie che hanno fatto la storia, ma utilizzate a fini razionali di edilizia popolare.

L’aggiunta di sopraelevazioni, la sostituzione di materiali originari, la manomissione di cortili, il rifacimento delle facciate e l’uso di cemento armato per i numerosi interventi impropri, hanno compromesso l’integrità sismica e quella storica degli edifici.

Le logiche speculative a fini abitativi, unite a un diffuso disinteresse per la memoria costruttiva, hanno cancellato o nascosto gran parte di quell’ingegnoso equilibrio tra forma e sicurezza.

Oggi, molti di questi edifici sono in parte, svuotati del valore di genio costruttivo, in cui furono innestate tutte le conoscenze dell’epoca, ragion per la quale, se idoneamente analizzati, potrebbero fornire elementi fondamentali dello sviluppo e la conoscenza di ogni epoca, da quando vennero realizzati e, tutte le volte che sono stati espansi o arricchiti di superfetazioni.

Essi sono memoria di regole regie antisismiche, in tutto manufatti all’avanguardia, resi visibili solo dove il tempo, la cura e il caso hanno preservato l’autenticità delle strutture.

Oggi non resta altro che ricordare, per fare riferimento alla toponomastica storica l’unica forza in grado di tramandare memoria.

I nomi delle piazze, delle vie, dei vicoli, delle porte di case e le contrade, raccontano ancora oggi, silenziosamente, la visione urbanistica di quei tempi e, riconoscerli per poterli custodire diventa un atto di rispetto verso il passato che si deve imparentare con il futuro.

Diventa un dovere per quanti conoscono e hanno consapevolezza della storia, tramandare concetti, atti di memoria, spece a quanti prendono titoli secondari e si apprestano a formarsi fuori dagli ambiti locali, avendo cosi, un patrimonio storico come base da cui elevare le nuove cognizioni colturali e, costruire una solida diplomatica del luogo natio, a impronta dell’Olivetano, che detiene la memoria storica di Terre di Sofia e del suo agro.

Teoremi che hanno consentito di dare misura storica al protocollo del delocalizzare in età moderna, con cui le istituzioni di potere dal 2014, hanno smesso di adombrare luoghi adagiando nel cassetto più basso del comò il protocollo per smarrire poi la memoria.

Questa è una certezza che nasce dai consigli e i dibattiti solitari dell’Olivetano con le istituzioni del tempo, invitando sin anche chi ascoltava dal camino di Milano, di evitare violenza gratuita in futuro, per chi si trova a confrontarsi con le cose della natura, interpretate male e allestite peggio, in tutto scenari desertici del mediterraneo, scambiati per colline del meridione Italiano.

Storicamente chi per eventi naturali, vive la tragedia di essere delocalizzato, viene per così dire avviato, con promessa da condividere e, per un Katundë arbëreşë quale vale più ne sentire di dover abitare Gjitonia, che al giorno d’oggi equivale a promettere miracoli, ma non quelli buoni che fanno i santi, ma gli intrugli realizzati sotto il noce dai Iannari di ponente.

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                              Napoli 2025-07-24

Comments (0)

corbu 2

MODULOR DEL PARLATO IN VESTE FEMMINILE (ghjuga me dulùrëi thë crjatë tona)

Posted on 22 luglio 2025 by admin

corbu 2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – il Modulor è un sistema di proporzioni armoniche basato sull’altezza media del genere umano in forma aurea, ideato negli anni quaranta del secolo orso, in radice del Partenone, La Gioconda, e in epoca più moderna spunto delle architetture razionali.

Esso si sviluppa e nasce con lo scopo di creare uno standard universale per progettare spazi architettonici che fossero misura, funzionali ed estetica di equilibrio.

Il tutto mira a combinare matematica, antropometria e arte, al fine di guidare il progetto con proporzioni “naturali” e armoniche.

Utilizzato in molte opere di architettura razionale, il Modulor, parte dalle proporzioni del corpo (altezza, proporzioni, movimenti) come base per organizzare lo spazio di vita in modo armonico.

E siccome la lingua arbëreşë, secondo dati storici linguistici estetici e antropologici, usa nomi e radici che derivano da parti del corpo o azioni umane fondamentali per costruire significato formale (Leggi i Fratelli Grimm e le loro favole).

Così anche il Modulor usa creare una scala di proporzioni universali, che poi sono la radice della lingua albanese, dove si utilizzano concetti come “dorë” (mano) “sy” (occhio) “veshë” (orecchio) o “ghjughë” (lingua) come base metaforica o etimologica per costruire altri significati, dando al corpo umano un ruolo strutturale, come il Modulor, lo dà all’architettura razionale.

La visione abbraccia una concezione antropocentrica, dove l’essere umano si ritiene sia il concetto fondamentale e misura della realtà, sia nella costruzione dello spazio architettonico, nella costruzione del linguaggio e le cose di vestizione arbëreşë.

È lecito chiedersi perché, pur avendo una lingua come l’arbëreşë con radici profondamente legate al corpo umano e, quindi a un sistema universale, non si sia sfruttato questo legame per consolidare una lingua che storicamente nasce come un codice essenziale e coeso.

Nonostante questa base antropocentrica potesse offrire un fondamento comune e naturale, l’arbëreşë si è frammentato nel tempo in numerosi dialetti locali, come il riferito degli esperti che la legano alle tipiche parlate di oltre cento Katundë, allo stato delle cose palesate oggi, in competizione tra loro.

Le cause sono storiche e politiche e, l’assenza di una istituzione solida e unitaria mancata a tutt’oggi e per secoli, ha consentito, mentre gli intellettuali si ostinavano a scriverla, la dominazione o le infiltrazioni straniere, hanno sortito alle divisioni geografiche che impediscono lo sviluppo di una norma linguistica unificante basata su principi “organici” come quelli che il corpo umano, con il Modulor, rappresentano.

Tutto questo avviene nonostante l’arbëreşë avesse in sé tutte le forze del luogo natio e di quello parallelo ritrovato per dare linfa buona a una lingua unitaria fondata sul corpo umano, quindi sul comune denominatore dell’esperienza o del bisogno di fratellanza che conferma il valore di appartenenza, concetto che non ha trovato è colto l’occasione di usarli come strumento di standardizzazione.

 Il risultato è una lingua ricca, ma ancora segnata da profonde fratture dialettali almeno a detta dei poco attenti e che non hanno una base colturale come quella dell’architetto che in maniera razionale e precisa, garantisce case a misura per il bisogno locativo.

Se si parte dal teorema secondo cui l’arbëreşë rappresenta la radice storica e linguistica del moderno albanese, come il latino e il greco lo sono per l’italiano, allora è legittimo interrogarsi sul perché molti teoretici albanesi sembrano negare o sminuire questo legame.

Nonostante gli arbëreşë conservino tratti linguistici, arcaici  puri, anteriori alle trasformazioni sociopolitiche avvenute nei Balcani, di sovente vengono relegati a una posizione marginale nel discorso ufficiale sull’identità linguistica albanese.

Questo può derivare da un approccio ideologico, costruire una lingua standard “nazionale” finalizzata a privilegiare forme moderne, più legate al sud di quelle terre oltre adriatico, considerate le più nobili dal punto divista linguistico alle esigenze moderno dello Stato Albanese, piuttosto che riconoscere la continuità storica, custodita nella diaspora arbëreşë.

In breve, se l’arbëreşë è l’antico tronco da cui si è evoluto l’albanese moderno, allora l’attuale negazione accademica di questo legame, si potrebbe paragonare ad ignorare il latino nella storia dell’italiano e, il tutto si trasforma in una rimozione culturale, più che una scelta scientifica.

Il Congresso di Monastir, tenutosi nel novembre 1908, fu un momento cruciale per la definizione dell’alfabeto unificato della lingua albanese, e più in generale per l’identità linguistica e culturale della futura nazione.

Tuttavia, un dato spesso trascurato è racchiuso nel dato che nessuna figura intellettuale arbëreşë, venne invitata, coinvolta o ben accolta nei lavori del congresso, nonostante gli arbëreşë avessero avuto per secoli un ruolo fondamentale nella conservazione e nella trasmissione della lingua, della cultura e dell’identità fuori dai Balcani.

Gli intellettuali arbëreshë dell’Ottocento, dai tempi di Giuseppe Schirò a quelli più fondamentali e di confronto di Pasquale Baffi, tra i primi intellettuali con specifica formazione in grado di studiare, scrivere e codificare l’arbëreşë, molto prima della rinascita nazionale nei territori dell’attuale Albania.

Eppure, al momento di decidere l’orientamento linguistico ufficiale, la loro esperienza fu ignorata escludendo in toto la parlata storica, forse per ragioni politiche e ideologiche, che miravano a costruire una lingua che riflettesse le esigenze immediate di uno Stato moderno nei Balcani, lasciando ai margini la fondamentale diaspora storica, considerata troppo distante o legata a forme linguistiche “antiquate” e, cosi sfuggendo al principio della radice linguistica, che è alla base di ogni parlato solido.

In sintesi, l’assenza di intellettuali arbëreşë o la lettura dei loro postulati al Congresso di Monastir non fu una semplice dimenticanza, ma una scelta storica e politica, che mirava a fondare la lingua moderna senza riconoscere chi e cosa, per secoli l’aveva tenuta viva lontano dalla compromessa e dominata terra dalle altrui patrie.

Esistono poi anche Spazi domestici e specifico femminile, che seguono le tracce di “Zognë i Modulor, rivolto e messo a punto dal governo delle donne in relazione a come vive lo spazio domestico della propria abitazione del vestire.

Questo si traduce in uno strumento per adeguare lo spazio e le cose di un progetto in relazione alle dimensioni delle esigenze tradotte e sostenute al femminile.

Sebbene concepito come riferimenti più a misura, questo schema si potrebbe ipotizzare che trae le sue radici e, influenza anche la moda o la vestizione delle donne arbëreşë.

Qui, le sue proporzioni diventano un codice silenzioso, un protocollo non scritto ma rappresentato, che guida il modo di cucire e allestire abito e vestizione della donna, negli intervalli della vita, con proporzione rispettosa delle consuetudini che fanno il genere femminile, adolescente, sposa, regina della casa, vedova, e vedova incerta, con i giusti colori, per ogni luogo e stagione.

Infatti, ogni parte del corpo coperto tende ad armonizzarsi e rendersi silenziose proporzioni di quella figura disegnata dalla natura con discepolo l’uomo, come se il corpo stesso cercasse una corrispondenza ideale tra misura, colori e bellezza.

In tutto proporzioni del corpo umano che fanno la vestizione regale delle donne senza produrre valenze predominanti, ma atto in cui il corpo umano diventa rappresentanza e orgoglio di appartenenza incontaminata.

Per questo esso diventa non più solo misura dell’uomo, ma misura del mondo attraverso il corpo della donna.
Il Modulor al femminile non riduce, non impone, ma ascolta la curva, l’asimmetria, la vita e, proporzione che accoglie, ritmo che si fa pelle, geometria che non comanda ma danza con garbo regale.

Nel corpo femminile, la verticalità si piega in carezza, la sezione aurea si apre come fiore, e la misura diventa linguaggio d’appartenenza e non dominio.

Non è gerarchia, standard, ma simbolo di vestizione, che non costringe, ma riconosce, definisce, con il Modulor al femminile, il corpo sovrano, non come potere, ma come presenza materna.

Esso diventa orgoglio di forma intatta, rappresentanza di un’essenza libera, incontaminata dal calcolo che esclude, perché ogni spazio generato da questo sguardo non sarà mai solo costruito, ma nato per essere abbraccio dalla sua matrice.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                              Napoli 2025-07-22

Comments (0)

Olivetano

UN ARBËREŞË NON È UN GIULLARE CHE DANZA CANTA E VESTE IN ALBANESE

Posted on 20 luglio 2025 by admin

OlivetanoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi piange non raccoglie mai le sue lacrime, perché le lascia cadere senza neanche contarle, come fanno gli alberi d’autunno con le proprie foglie.

Le lacrime scivolano lungo le guance, come perle mute in dolore e, brillando solo per chi non vede, mentre il lacrimante tiene una mano per stringere il cuore, e con l’altra frena il respiro o cerca un appiglio dello scenario nebbioso.

Gocce di sale amaro di un’anima nuda, che scendono libere, non per essere raccolte, ma per raccontare ciò che le parole non osano dire.

Questa è simile alla metafora del fabbro che opera nell’ombra e costruisce il palco, dove l’attore primo, sotto i riflettori, fa la storia e il fabbro nell’ombra, batte ferro rovente tra silenzi e sudore che plasmano il tempo con le mani colme di ferite e, non si ode nessuno applaudire per tanta operosità.

E mentre sul palcoscenico sale l’attore, che non ha forgiato nulla, ma solo indossato l’armatura costruita da altri e, pur se brilla sotto luci che non ha acceso, recita un copione scritto con l’inchiostro dei lagrimosi sacrifici altrui.

Queste sono metafore che mirano a palesare lo stato, in cui versa il patrimonio degli Arbëreshë, lo stesso che non può e non deve esaurirsi nella esclusiva tutela della inopportuna vestizione Albanistica del parlato.

Sebbene l’idioma costituisca un elemento fondante dell’identità di un popolo, limitarne il rilancio solo ed esclusivamente all’aspetto che contempla il mero parlato, significa ridurre una civiltà complessa e stratificata a un solo codice espressivo.

La filologia è veicolo, ma ciò che trasporta la memoria collettiva, sono i simboli, le pratiche sociali, i codici etici, che hanno bisogno di essere altrettanto custoditi, vissuti e rinnovati a misura.

Titolarsi di forme generiche o accademiche dirsi voglia, per poi fare un mestiere complesso, non fa che innalzare gli errori del passato, ripeterli e rendere tutto l’insieme al pari di un palco pericolante, forgiato dai generici o praticanti attori.

Infatti le lacrime di un pianto non sono mai una ma tante, come qui di seguito si darà agio a tutte le altre lacrime Arbëreşë, dimenticate o non ritenute valide perché seconde alla prima.

È notoriamente diffuso che il genere umano, in ogni tempo e latitudine, ha bisogno di molti espedienti per sopravvivere, resistere, durare e completare il suo impegno di integrazione e convivenza con la natura e il tempo.

Tra queste si potrebbero contare le lacrime: dell’arte, dei riti, del lavoro, della terra, dell’architettura, il modo di alimentarsi, le vestizioni, la narrazione e, poi l’insieme di supporto, formano gli attori di palcoscenico, che in diverse regioni italiane con la narrazione lacrimosa seminano da secoli il patrimonio storico arbëreşë.

E così facendo innalzano germoglio o microcosmo culturale, in cui la lingua è solo uno dei tanti fili lacrimosi che intrecciano il tessuto dell’identità.

Di questi un ruolo centrale spetta al rito bizantino, ancora oggi presente nelle comunità arbereshe e, le sue forme liturgiche e simboliche, che non sono solo mera professione di fede, ma storia che mantiene viva una visione del mondo, una sensibilità spirituale radicata nell’Oriente cristiano.

Proteggere questi riti, formarne nuovi officianti, farli comprendere alle giovani generazioni, è parte essenziale dell’essere minoranza arbëreşë.

Poi sono i costumi tradizionali che non sono semplici ornamenti di pigmento in piega, ma codice complesso di appartenenza, genere, status sociale, legame con la comunità, che delineano quel percorso viario che unisce il fuoco domestico della casa, con l’altare quando si illumina di sole nella chiesa.

La postura, i gesti rituali, le danze, raccontano storie, tramandano valori e rafforzano i legami tra questi due emblemi civili e religioso ovvero casa e chiesa.

Riscoprire questi elementi, attraverso momenti condivisi e ragionati, permette di valorizzare il corpo come veicolo di continuità culturale dei generi che rendono viva questa realtà.

Una popolazione per resistere alle varie epoche deve maturare il concetto di accoglienza attorno a una a un fuoco domestico, e qui entrano in gioco le arti di cose prodotte a memoria dal parallelo, conservato difeso in un vero e proprio archivio di memoria.

Non solo perché porta con sé le tracce di una migrazione secolare, ma anche perché rappresenta il legame affettivo tra le generazioni e luoghi paralleli tutti sostenuti dallo stesso sole e la identica luna.

Valorizzare il patrimonio in senso generale degli arbëreşë significa documentare, raccontare, insegnare, recuperare, comprendere i rituali legati al passato, per essere lasciati intatti alle nuove generazioni, specie a quanti si apprettano a partire per conoscere e confrontarsi con nuovi orizzonti, per confrontarsi e migliorare il patrimonio ricevuto.

Prima che ciò avvenga essi devono conoscere il lavoro manuale, la produzione tessile, l’artigianato ligneo, le tecniche agricole locali e tutto ciò appartiene a un sapere che rischia l’oblio.

Sono questi gli elementi che danno concretezza all’identità e, incentivare il ritorno, dopo essersi formai in buoni artigiani, apre prospettive culturali non solo per preservare la cultura, ma anche per dare dignità economica a chi la vive.

Sino ad oggi hanno tenuto banco le fiabe, le leggende, le storie tramandate oralmente, immaginando che la lingua è veicolo per i contenuti emotivi.

Si è ritenuto fondamentale che attraverso le storie che si costruisce l’orgoglio, si rinsalda l’appartenenza, si affrontano le paure del cambiamento, ma purtroppo oggi in questa società globalizzata non è più così. Raccontare oggi cosa a scuola, in un libro, in un film, è un atto di resa e non serve per affrontare il futuro.

Oggi quella che si deve preservare e saper leggere è la struttura urbana dei centri antichi, perché è in essi che germogliano il frutto di una logica che ha poco a che fare con la speculazione edilizia moderna e molto con la coesione sociale, difesa e adattamento al territorio, che poi diventa la sacralità funzionale della vita quotidiana.

Sebbene ogni Katundë abbia le identiche specificità o tratti comuni che uniscono tutti assieme i centri storici delle culture di radice agro-pastorale, come quella arbëreşë, nessuno forma e sostiene le generazioni che partono per formarsi avendo come bagaglio il sussurrare delle memorie storiche locali.

Ogni centro antico ha un cuore simbolico e funzionale, che nasce secondo i canoni della iunctura fatta di chiesa, piazza e vichi che diventano le sorgenti naturali dove far dissetare le nuove generazioni.

Questi elementi non sono solo spazi pubblici, ma punti di riferimento identitario che se opportunamente analizzati, possono essere intesi e ascoltati come il battito del fabbro e non come lacrime che non vede nessuno perché silenziose.

I Katundë non si sono sviluppati con la logica Cartesiana o di Mileto, infatti vie e i vicoli si snodano come vene che partono dal cuore e raggiungono gli arti, adattandosi al luogo e alle necessità dell’uomo.

Le case sono incastonate come partorite da questa terra, un’architettura che parla di comunità, vicinanza e protezione reciproca come fa una madre con il nascituro che si sente a in famiglia.

Le strade strette non sono un limite, ma un modo per difendersi dal vento che come il passante che corre qui deve passare lento, per diventa anche esso di famiglia.

Nel sistema urbano antico di un Katundë, la soglia tra casa e strada non ha dogana, cosi come il gradino, si controlla dalla piccola panca in muratura lì di fianco allestita, sotto la finestrella di controllo gemellata, dove tutto diventa luogo dell’orizzonte familiare.

La vita, qui in questi vichi irregolari, si svolge all’aperto sotto gli occhi dei vicini e, tutto diventa dimensione di uno spazio urbano condiviso, più sicuro di ogni dove e, il controllo sociale, la solidarietà si esercitano senza stonature conviviali.

Un altro elemento che accomuna i centri antichi dei Katundë, è la libera interazione tra il centro abitato e la campagna lavorata, il simbolo delle città aperte e non chiuse, a modo di recinto borgataro.

La casa non è mai troppo distante dall’orto, dalla stalla, dalle fontane e, i confini tra l’urbano e il rurale sono permeabili senza limiti innalzati.

Questo rapporto diretto con la terra, si riflette anche nella presenza di magazzini, cantine, forni comuni, mulini, frantoi e, fontane di accoglienza, il tutto diventa spazio produttivo che unisce la pertinenza urbana e l’agro, senza murazioni o limiti fisici divisori.

Le abitazioni storiche dell’agro, si sviluppate in altezza, su due o tre livelli, con funzioni distribuite verticalmente: al piano terra la stalla o il magazzino, al primo piano la cucina e la zona giorno, sopra le camere, e poi una lamia di copertura, che ha uno spazio di accumulo per mitigare meglio il clima all’interno dell’elevato in forma di fortilizio, dove le attività primarie sono produttive, di spogliatura secondo i ritmi del continuo giornaliero di sole.

I centri antichi, per via della loro compattezza edilizia, sono esempi straordinari di resilienza climatica, si difendono dal freddo invernale, grazie alla prossimità tra edifici, e si proteggono dal caldo estivo con strettoie ombreggiate e muri spessi, che si trasforma in un sistema urbano sostenibile che non viene mai abbandonato.

Molti centri antichi sono orientati secondo logiche sacre o astronomiche, la chiesa spesso guarda a est, e tutte le tappe di preghiere sono ad essa rivolte, le strade seguono le curve del sole, la casa tiene conto dei venti dominanti, nulla è casuale, ma sapienza che ha guidato la costruzione dello spazio.

Capire i sistemi urbani dei centri antichi in forma di Katundë, significa anche interrogarsi su come conservarli e viverli oggi quegli storici e ripetitivi sette rioni.

E difendere questi spazi non vuol dire musealizzarli, ma dare loro nuova funzione senza snaturarne l’identità, così come quella di tanti paesi, villaggi, frazioni, contrade, dove ancora molto rimane incontaminato e steso al sole per essere interpretalo adeguato rispetto.

Il tutto per essere tramandato in termini di sostenibilità, socialità, bellezza e resilienza, alle nuove generazioni, che in questa stagione sono pronte a partire e, se consapevoli del tesoro che qui in casa li attende, potranno formarsi seguendo la memoria dei luoghi natii.

E quando un giorno saranno richiamati potranno valorizzarli, iniziando dalla conoscenza profonda delle logiche millenarie, le stesse che hanno saputo creare spazi adatti e utili per l’essere umano, nella sua vita operosa.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-07-19

Comments (0)

GLI ARBËREŞË NON HANNO MAI TUTELATO SECONDO UN CSTRUTTIVO INIZIO (nà nënghë bëmi pishjalljoka ne rèdhë pà butë)

GLI ARBËREŞË NON HANNO MAI TUTELATO SECONDO UN CSTRUTTIVO INIZIO (nà nënghë bëmi pishjalljoka ne rèdhë pà butë)

Posted on 18 luglio 2025 by admin

CASA

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Puoi guardare una montagna per ore, pregustando l’arrivo in cima, tuttavia nessuna vetta si avrà modo di raggiungere e vivere con il pensiero, se non per azioni mirate allo scopo.

È come una porta che appare chiusa finché non fai il primo passo e, scoprire dalla nuova prospettiva che la rende aperta.

Ogni minoranza storica rappresenta un patrimonio culturale, linguistico e identitario di valore inestimabile. Tuttavia, nel corso di almeno due secoli, molte di queste macro aree hanno subito fenomeni di marginalizzazione, assimilazione forzata o perdita progressiva delle proprie radici di germoglio e fioritura.

Un progetto di tutela dovrebbe partire dal riconoscimento del ruolo fondamentale che queste minoranze hanno svolto e assumono oggi nei processi sociali, che attendono attuazione per la sostenibilità della memoria collettiva e della diversità culturale del Paese Italia.

L’obiettivo principale è promuovere la salvaguardia e la valorizzazione di questo patrimonio, attraverso interventi concreti che ne sostengano la lingua, la cultura, i diritti e la piena partecipazione alla vita sociale, di cui possono essere radice.

La prima fase del progetto dovrebbe perseguire il principio di un’attenta analisi dei bisogni fondamentali per questa comunità, in ascolto diretto con i suoi membri, con i quali delineare in condivisione i percorsi di tutela della propria fioritura sostenibile.

Le idee sono importanti, ma senza l’azione restano sogni chiusi in un cassetto e, se all’idea non si dà seguito con azioni razionali e non di impeto, resta solo teoria, buona forse a parole ma sterile nei fatti.

Certamente avendo cura di non avere discepoli o praticanti politici, con mente e mani non libere ma intrise di colori e prospettive disegnate per ambire a fini che tradiscono l’essenza stessa del pensiero libero e della responsabilità civile.

La via intrapresa secondo cui la sola sostenere il parlato affiancandolo a inadatti alfabetari in grado di sostenere la memoria e la forza di un popolo, storicamente radicato in abitudini durature, si dimostra oggi più un’aspirazione idealistica che una via concreta da promuovere e caparbiamente proseguire.

Eppure, proprio lì, nelle parole tramandate, nei canti, nei racconti pronunciati in una lingua antica, si cela il codice o meglio la chiave della storica resistenza culturale.

Oggi, quel teorema largamente diffuso rende più precario l’equilibrio e la tutela di questo esempio di integrazione mediterraneo ritenuto unico e irripetibile, visti i tempi per maturare.

L’attività in senso generale è un gesto che non guarda solo al passato, ma costruisce un futuro dove la diversità non è debolezza, ma radice fatta di luoghi fatti, cose e generi.

Gli arbëreşë non sono i soliti giullari che parlano una lingua strana per intrattenere il padrone o prelato di turno.

Appartenere a una minoranza storica è paragonabile a uno scrigno o un baule antico che pulsa ragioni di vita, in cui si conserva un valore inestimabile, una memoria collettiva, una visione del mondo, una storia di resistenza, un progetto antico ancora applicabile alla società moderna.

Il suono del parlato non è un’opera musicale esotica, ma un codice identitario, un ponte che può unire tempo, genere umano e natura.

Difendere un simile protocollo non è nostalgia, ma un atto di cultura, un gesto di giustizia verso un popolo che, senza gridare o manifestare, ha custodito un’eredità preziosa per loro stessi e per tutti i popoli maggiori ad essa confinanti.

Quando non si è mai viaggiato lungo questi ambiti con mira specifica perché non si è mai dato senso ad un inizio o essere mai partiti mai partiti.

È una riflessione che può avere anche un senso metaforico, che conferma che a volte non realizziamo nulla perché non facciamo nemmeno il primo passo.

L’analisi dei modelli abitativi vernacolari rappresenta un punto di partenza fondamentale per un progetto di tutela delle minoranze storiche, in quanto rivela l’intimo legame tra cultura, ambiente e organizzazione sociale. Le tipologie edilizie tradizionali, spesso costruite con materiali locali e secondo tecniche tramandate oralmente, non sono semplici strutture abitative, ma testimonianze tangibili dell’identità culturale di una comunità.

Emblematico, in questo senso, è l’interesse mostrato da Le Corbusier, il padre dell’architettura razionalista europea, che durante i suoi viaggi in Italia studiò con attenzione l’architettura rurale e popolare e monastica, da cui trasse spunti fondamentali per il suo linguaggio formale.

Questo denota come anche le espressioni architettoniche più moderne riconoscano il valore e la sapienza insiti nell’abitare tradizionale.

L’indagine sui modelli abitativi vernacolari, attraverso rilievi, documentazioni, interviste e presa visione dello stato attuale, consente dunque non solo di salvaguardare un patrimonio, ma anche di costruire ponti tra passato e futuro, tra tradizione, che analizzata secondo protocolli annoverati diventa innovazione, in chiave sostenibile e partecipata.

Per questo il progetto di analisi condotto e diretto dall’Olivetaro Partenopeo rappresenta un pilastro essenziale di tutela della comunità minoritaria storica arbëreşë.

Questo approccio parte dallo studio delle tipologie edilizie tradizionali, costruite con materiali locali e tecniche tramandate di padre in figlio, capaci di riflettere la cultura, le condizioni ambientali e le esigenze della vita quotidiana delle macro aree in esame.

Le risultanze abitative tradizionali quali Turàtë, Kallivetë e Shëpitë, immersi nei modelli di iunctura, consentono di cogliere la relazione tra spazio domestico, identità culturale e sostenibilità ambientale. Integrando un’analisi tipologico‑funzionale, esempio secondo il metodo sviluppato nelle macro aree collinari o pre montane si può contestualizzare ogni abitazione dentro una logica comunitaria e ambientale, costruendo una base solida per interventi di recupero, valorizzazione o didattica territoriale che ad oggi non ha mai avuto attenzione istituzionale, non avendo la legge di tutela delle minoranze, ovvero la legge 482/99, alcun riferimento nei meriti dell’articolo nove della costituzione.

In virtù delle testimonianze raccolte e per volontà del cuore che custodisce il sapere delle madri,
si decreta e si rende noto che il matrimonio, così come tramandato nelle Terre di Sofia,
non fu mai semplice accordo tra famiglie, ma rito sacro, vestito di silenzio e cucito con pazienza.

Per mano di donne sagge, tra cui si annovera la stimata sarta di questo paese, mia madre il cui ago non fu mai strumento di mestiere soltanto, ma penna con cui ricamare la storia degli affetti, gli stessi che furono mantenuti vivi in gesti antichi, che davano al giorno delle nozze il valore d’un’incoronazione.

Il corredo non era ostentazione, ma promessa e, ogni lenzuolo, ogni fazzoletto, ogni bordo d’abito,
raccontava la storia della sposa e della sua casa dove il bianco candore della stagione lunga non era vuoto, ma pieno di attese, il pane, spezzato a tavola, era vincolo più saldo dell’anello.

Si ricorda dunque, e si tramanda, che l’amore non nasce nell’abbondanza ma nella cura;
che le nozze vere non risuonano in clamore, ma in silenzi condivisi secondo l’antica voce,
quando vi era chi sapeva disporsi per ascoltare.

In omaggio a chi ha saputo serbare queste verità nelle mani e nei giorni, e affinché la memoria non si perda tra le mode, venga questo Editto custodito, non nei libri soltanto, ma nei gesti che si ripetono,
come aghi che passano il filo tra generazioni.

Dato oggi, in spirito e in affetto, da chi porta nel sangue e nel cuore l’arte antica del matrimonio vissuto.

Tra le pieghe del tempo e il silenzio delle colline dove sorge Terra di Sofia, vive ancora la voce degli antenati.

È una voce che senza soluzione di continuità parla una lingua antica, che racconta memoria, pregando rivolgendosi a Dio nella forma più intima dell’identità arbëreşë.

In ogni gesto quotidiano, in ogni rito familiare, in ogni festa di paese, si rinnova il legame profondo con le radici di un popolo fiero, venuto da lontano ma radicato con forza nella terra che oggi chiama casa.

Il passaggio generazionale delle consuetudini non è solo trasmissione di usanze o custodia dell’anima.

Perché nei racconti dei nonni, le figlie le nipoti e le pronipoti davanti le case in pietra, i più giovani scoprono chi sono.

È nelle ricette tramandate, nei costumi tradizionali indossati con orgoglio, nella lingua parlata ancora oggi in alcune case e chiese, che si intrecciano memoria e futuro.

Ogni generazione che accoglie, rinnova e trasmette le consuetudini del mondo arbëreşë diventa anello di una catena preziosa, che resiste all’omologazione e tiene viva una cultura minoritaria, ma straordinariamente ricca.

Non si tratta di semplice folklore, ma di identità viva, che si evolve senza mai dimenticare le proprie origini, quando si tramandano tradizioni.

In tutto questo c’è un atto d’amore che vuole onorare la storia, dei padri, della comunità, in esso c’è un senso di responsabilità che non pesa, ma nobilita e oggi significa essere ponte tra passato e futuro, custodi del tempo, e chi si assume questa responsabile arte viene eletto dalla storia narratore di una bellezza che ancora ha molto da dire.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-07-18

Comments (0)

ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

ARCHIVIO E ANAGRAFE DEI KATUNDË ARBËREŞË

Posted on 12 luglio 2025 by admin

Word_clouds

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il vernacolare del costruito, la toponomastica e i soprannomi all’interno delle pertinenze territoriali e del costruito di un Katundë Arbëreşë sono gli uffici, stesi alla luce del sole in forma sociale e condivisa, che fanno archivio e anagrafe di questi luoghi colmi di storici confronti di operosità.

Per questo l’insegnamento della scrittura di una lingua storicamente parlata può risultare inopportuno, quando non si tiene conto del suo contesto sociolinguistico e culturale.

Le lingue orali, spesso sono legate a tradizioni popolari, di comunità locali o minoranze, che sviluppano nel tempo forme espressive, non sempre adattabili ai modelli dello scritto standard.

Per questo imporre una codificazione scritta può snaturare la ricchezza della lingua, ridurne la spontaneità ed escludere coloro che non si riconoscono in una norma obbligatoria, senza un reale consenso o coinvolgimento della comunità parlante, innescando così processi di trasformare di un patrimonio vivo innestando artifici scolastici, ben distanti dall’uso autentico e quotidiano.

Codificare una lingua parlata spesso significa selezionare una varietà prestigiosa o centrale a scapito delle altre periferiche o di confine non parallelo.

Questo può portare all’emarginazione delle varianti, che sono la parte integrante dell’identità culturale di una comunità.

La standardizzazione scritta tende a sopprimere la ricchezza interna del parlato, privilegiando le lingue più diffuse e comunque altre, innescando la conseguente omologazione che conduce alla perdita di biodiversità linguistica di uno specifico intorno storico.

Quando una lingua parlata diventa oggetto di insegnamento scritto, può assumere tratti formali, normativi e comunque non in linea con la realtà d’uso.

Questo può scoraggiare l’uso spontaneo della lingua, specialmente tra i parlanti nativi, che si trovano oltremodo disorientati dalla nascita.

L’insegnamento scolastico della lingua scritta non deve mirare a trasformare il mezzo di comunicazione naturale in ogni ambito di studio rigido, allontanando i giovani dalla sua pratica quotidiana.

Specie oggi dove ogni settore di studio si espande verso la conoscenza del parlato più diffuso, a scapito delle minori che rimangono nicchia da sottomettere, come lo fu per gli Arbëreşë sei secoli orsono.

Allo stato delle cose odierne è possibile valorizzare una lingua orale senza forzarne la scrittura, facendo uso della documentazione audio e video, l’insegnamento orale, la promozione culturale attraverso canzoni, e narrazioni, come lo fu per i germanofoni nel 1871.

La trasmissione orale, se sostenuta da strumenti moderni e digitali, può garantire vitalità e trasmissione intergenerazionale della lingua senza bisogno di forzarla in una forma scritta.

Una lingua è patrimonio di chi la parla e, qualsiasi iniziativa di normazione o insegnamento dovrebbe partire da un processo partecipativo e condiviso, non da decisioni calate dall’alto.

È fondamentale la comunità coinvolta sia protagonista del processo e, ogni forma di standardizzazione deve nascere da un consenso collettivo, non da esigenze accademiche o istituzionali di parallelismi territoriali ormai omologate ad altri dinamismi.

Tra queste valga di esempio la comunità arbëreşë, che rappresenta un prezioso mosaico culturale, dove si tessono e si intreccia storia, lingua, religione, canto, gastronomia e sapere di radice esclusivamente consuetudinaria.

Tuttavia, spesso la tutela delle minoranze si è concentrata quasi esclusivamente sulla salvaguardia del parlato promosso e diretto in forma ostinatamente scritta, rischiando di ridurre la complessità di queste identità a un solo elemento, scollegato dal vissuto quotidiano.

Misura ne sono le attività dipartimentali orientate in tal senso, lasciando solo piccoli episodi senza ascolto per chi si dirige o previlegia altre strutture, in grado di sostenere questi miracoli di resilienza culturale.

Da questa premessa e per evitare che la minoranza arbëreşë venga percepita come “folclore statico” o come un’eredità “fuori tempo”, è necessario adottare un approccio integrato che valorizzi non solo la lingua, ma l’intero ecosistema culturale e sociale.

Ciò significa sostenere pratiche vive, come l’artigianato, i cunei agrari e della trasformazione, le tradizioni religiose, il sistema vernacola che fa iunctura, la cucina tipica, il canto e le narrazioni orali, il tutto secondo un dialogo aperto con la contemporaneità e con le nuove generazioni.

Valorizzare una minoranza oggi non significa conservarla in una teca, ma attivarne il potenziale culturale, educativo ed economico, rendendola parte dinamica del tessuto sociale.

Solo così la cultura arbëreşë potrà continuare ad essere, non solo memoria del passato, ma risorsa viva in grado di riverberarsi con forza nel futuro.

Nel paesaggio delle macro aree arbëreşë, se si osserva l’architettura vernacolare si ha la misura che essa non è solo estetica, ma tradizione materiale di un sapere antico, nato dal bisogno e affinato dalla convivenza con l’ambiente naturali e la forza dell’uomo che cambia con lo scorrere del tempo.

Case in pietra locale, cortili interni, forni comuni, strade strette e piazze raccolte, raccontano una storia fatta di adattamento, resilienza e senso della comunità.

Questi spazi, spesso trascurati o minacciati dall’abbandono, non sono solo testimonianze del passato, ma strumenti attivi di continuità culturale.

Essi parlano una lingua silenziosa ma potente, quella dell’abitare collettivo, della sostenibilità spontanea, dell’uso sapiente delle risorse.

Da ciò si dedurre che rappresentano il punto d’incontro tra identità e territorio, tra cultura materiale e visione del mondo che segna il suo progredire.

Valorizzare l’architettura vernacolare arbëreşë, quindi, non è un’operazione nostalgica, ma un atto di rinnovata consapevolezza e il dato restituisce dignità a forme di sapere legate al costruire con intelligenza, al vivere con misura e abitare con senso, ma soprattutto riconoscere che la cultura non si conserva o si scrive, ma si abita confrontandosi e parlando.

L’architettura posta in essere dagli Arbëreşë, le comunità insediate in sedici macro aree del meridione Italiano a partire dal XV secolo, rappresentano un esempio significativo di adattamento culturale e ambientale.

Essa si sviluppa su più livelli, rispecchiando le esigenze sociali, economiche e simboliche delle diverse epoche.

La base del paesaggio costruito arbëreshë è l’architettura vernacolare, realizzata con materiali locali come pietra, legno e laterizi crudi.

Le abitazioni tradizionali erano semplici case a uno livello, spesso con tetti a falde ricoperti di coppi, disposte lungo tracciati irregolari che seguivano la morfologia del terreno.

Le stanze erano distribuite in maniera funzionale, e solo in tempi di stabilità abitativa organizzate con stalle o magazzini al piano terra e l’abitazione vera e propria al piano superiore.

Gli spazi domestici fuori l’uscio della porta, erano condivisi tra più nuclei familiari, a testimonianza di una cultura fortemente comunitaria o meglio di iunctura familiare.

Con l’evolversi degli insediamenti e l’incremento dei rapporti l’agro che diventava piò solido e generando fioriture di certezza, l’architettura arbëreshë iniziò ad assumere un carattere più urbano.

Si svilupparono così tipologie edilizie “a profferlo”, ovvero costruzioni addossate lungo le strade principali, con affacci direttamente sullo spazio pubblico.

Queste case, più compatte e articolate, presentavano spesso piccoli balconi, ingressi monumentali e talvolta decorazioni modeste, segnando un passaggio verso una maggiore rappresentatività sociale, pur mantenendo una forte coerenza con l’ambiente e le tecniche tradizionali.

A partire dal XVIII secolo, con la nascita di una piccola élite locale e l’integrazione nel tessuto politico e amministrativo del Regno di Napoli, emersero anche edifici di rango superiore, ovvero i palazzotti nobiliari. Questi edifici, spesso ubicati nei punti più visibili o centrali del centro antico, si distinguevano per la monumentalità della facciata, l’uso di portali in pietra scolpita, lo stemma familiare e la presenza di corti interne o loggiati.

Pur riprendendo modelli architettonici del barocco meridionale, molti di questi palazzi conservano elementi legati alla cultura mediterranea tipica delle coline degli appennini, talvolta visibili nei simboli, nelle iscrizioni o nella disposizione degli spazi interni.

Altro aspetto fondamentale è la toponomastica storica, infatti essa rappresenta un archivio invisibile ma essenziale steso al sole e, i nomi di luoghi, strade, fonti, campi, boschi, alture e distese si custodisce la memoria profonda di una comunità.

Per gli arbëreşë, la sopravvivenza di antichi toponimi, purtroppo molto spesso alterati e incompresi, anche se a volte sorprendentemente intatti, testimoniano o meglio tracciano una geografia emotiva e culturale che resiste al tempo.

Questi nomi raccontano origini, migrazioni, legami con la terra e con il sacro e, non devono essere recepite come sterili etichette, ma frammenti di una narrazione collettiva, radicata nel paesaggio e tramandata oralmente.

Salvaguardare la toponomastica storica significa quindi proteggere una mappa identitaria, capace di rivelare molto più di quanto un semplice cartello possa dire.

Recuperarla, studiarla e restituirla alla comunità e, magari integrandola nei percorsi turistici o nei sistemi di segnaletica, vuol dire dare voce a un territorio che ha ancora molto da raccontare.

Nei paesaggi rurali, la toponomastica dei cunei agrari (frazioni di terre coltivate, appezzamenti, coltivi, confini) rappresenta molto più che indicazioni catastali, in quanto essa è storica, funzionale e culturale. Questi cunei agrari e della trasformazione prendono spesso nomi descrittivi, legati alla forma del terreno, alla qualità del suolo, alla presenza di acqua, all’esposizione o al coltivo praticato, all’uso o il confine sociale che rappresentarono e costituiscono un’autentica “mappa orale” della quotidianità contadina.

Ad esempio, toponimi come “pratj”, “lljmë lljtir”, o “mallj” descrivono rispettivamente pendii ampi, declivi o limiti di utilizzo, mentre nomi come “Kotà”, “kjusà” o “rashi” indicano caratteristiche specifiche di terreno o posizione topografica, in tutto il Catasto ambulante e, gli agricoltori o contadini conoscevano perfettamente la toponomastica dei cunei, identificando i confini e la destinazione dei terreni senza strumenti cartografici o documenti ufficiali.

Il paesaggio per questo, narra e i nomi raccontano non solo aspetti fisici, come pendenza e suolo, ma riflettono anche pratiche agricole, come le coltivazioni prevalenti o l’uso del suolo.

Per questo, individuare il sapere locale, quasi sempre trasmessi oralmente, testimonia un patrimonio di conoscenze geografiche, agrarie e sociali, radicato nella memoria collettiva.

Il tutto poi diventa identità territoriale che serve ad integrare la toponomastica rurale nei progetti culturali e turistici, contribuendo così a costruire una mappa identitaria che parla di come si lavora e si viveva la terra parallela ritrovata dagli Arbëreşë.

A tal fine servirebbe allestire forme in didattica territoriale o laboratori sul campo, cartellonistica naturalistica o app geolocalizzate che possano divulgare agli studenti e ai visitatori i nomi originari e le storie legate ai campi.

Il fine mira a conservare la memoria digitalizzando sia il mappare segnala i luoghi dei cunei agrari con i loro toponimi significa preservandone la visioni del paesaggio altrimenti destinate a scomparire.

La toponomastica dei cunei agrari è una memoria attiva del territorio, un patrimonio simbolico e pratico di relazioni, saperi e lavoro.

Inserirla in un progetto di valorizzazione significa rendere visibile la cultura contadina e, dunque l’identità non solo nelle piazze o nelle chiese, ma anche e soprattutto nei campi, nei muretti a secco e nelle pietre di confine.

In una comunità parlante priva di forma scritta, fanno parte di questo patrimonio di memoria anche i soprannomi non sono semplici etichette: sono parte viva della memoria collettiva. Spesso custodiscono storie, legami familiari, tratti distintivi o episodi che hanno segnato l’identità di una persona. In assenza di documenti ufficiali, un soprannome può diventare l’unico segno duraturo del passaggio di un individuo nella storia della comunità.

Per questo, è fondamentale tutelarli: conservare i soprannomi significa proteggere la lingua orale, le relazioni sociali e la cultura locale nella sua forma più autentica.

I soprannomi sono spesso espressione di creatività linguistica e ironia popolare, possono rivelare dinamiche sociali, gerarchie implicite, ruoli nella comunità o tratti del territorio.

Studiarli e conservarli aiuta a comprendere l’identità collettiva e i meccanismi con cui una comunità si racconta nel tempo e nella storia.

In comunità senza scrittura, i soprannomi aiutano a distinguere tra individui con nomi simili o identici innescando certezze senza sovrapposizioni o margini di errore.

Sono strumenti di memoria viva, tramandati oralmente, che contribuiscono alla trasmissione delle storie locali.
Con il declino della lingua orale, della trasmissione intergenerazionale e con l’omologazione culturale, molti soprannomi rischiano di scomparire e, diviene fondamentale tutelarli, perché oggi significa proteggere un patrimonio che domani potrebbe non esistere più.

Il soprannome crea appartenenza, anche se in forma palesemente scherzosa o ironica, tuttavia rafforza i legami tra le persone e spesso identifica il ruolo di ciascuno gruppo nel tessuto comunitario.

Anche in assenza di scrittura formale, i soprannomi possono essere raccolti e trascritti oralmente, in registrazioni o archivi sonori, valorizzandoli come parte del patrimonio immateriale, a tal fine il consiglio di un “passionato”: cosa aspettate ad iniziare ad archiviare anagrafare e registrare il vernacolare, la toponomastica e i soprannomi?

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025 – 07 – 12

Comments (0)

PASQUALE BAFFI, PRIMO IN SAPIENZA DELLA FRATRIA PARTENOPEA

PASQUALE BAFFI, PRIMO IN SAPIENZA DELLA FRATRIA PARTENOPEA

Posted on 11 luglio 2025 by admin


NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era l’11 Luglio di 276 anni fa che a Santa Sofia d’Epiro, tra le colline della Calabria citeriore presilana, nasceva da Giovanni Andrea e Serafina Baffa, il loro figliuolo “Pasquale”.

In quell’anno Serafina, non  poté provvedere a imbiancare la sua Kalljva, dalla fumigine dell’inverno appena trascorso come aveva fatto di consuetudine  altri anni.

Perché in quella Gjitonia, del “Rione dei Baffa di Sotto”, dovettero tutte le vicine provvedere alla nascita del piccolo Pasquale e, come spesso avveniva l’imbiancare i muri era secondario alla nascita e il battesimo di un nascituro.

Le prime conoscenze linguistiche e di ascolto il Baffa le acquisì in questo luogo, che poi diverrà il palcoscenico di interessi privati, storia di tradimenti, sparse per lavoro di altre figure senza agio culturale, oggi divenuti gli interessi ancora da vantare per numerose figure che in paese non portarono mai avere, un valore come lo fu per Pasquale.

Lo dimostra la poca attenzione con cui sono stati allestiti, poco tempo addietro in questo luogo, additandolo di memoria storica, da quanti per la poca formazione non sanno cosa rappresenta questa Gjitonia.

Allo stato valgono due emblemi di vergogna storica che beffeggiano e deridono questo luogo di onore e dedizione per la crescita del Katundë.

Nel suo diario Münter scrisse: «Non è un napoletano, non è un calabrese, è un albanese, membro di quella colonia che più di trecento anni fa si stanziò nel Regno, e il suo spirito è nutrito in tutto dallo spirito degli antichi e in modo particolare da quello dei Greci.

È un uomo onesto e nobile, incapace di qualsiasi atto che lo possa svilire e, il suo sguardo sfiora dall’alto la plebaglia cortigiana, che ovunque gli frappone degli ostacoli.

L’opinione dei contemporanei era unanime, infatti non solo Baffi era giudicato un famoso filologo, un “Bibliotecario Dottissimo”, un paleografo espertissimo, ma e soprattutto, egli era dovunque ammirato per la «profondità del pensiero», «l’indole mite», il suo «carattere aureo», la sua «dolcezza incredibile» e la sua «infinita modestia, incapace di ambizione veruna».

Ma quella stessa modestia è anche stata la causa del fatto che molti dei suoi scritti non furono mai pubblicati e che oggi questo martire della libertà è pressoché sconosciuto.

Nella brevissima descrizione del suo paese nativo, la «Guida d’Italia» del TCI non fa cenno a Baffi, l’enciclopedia UTET non lo menziona, nel capoluogo Cosenza non vi è una strada che lo ricorda, ed addirittura molti dei suoi «connazionali» Arbëreşë della Calabria non hanno mai sentito parlare di lui.

Poco conosciuta anche l’eccellente biografia,  apparsa sull’Almanacco Calabrese del 1959, dove l’autore, si lamenta della scarsità delle fonti, e si è largamente servito delle «carte Baffi», conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli.

A nostro turno faremo uso di quella biografia, inserendovi vari dati che ovviamente non potevano essere a conoscenza di un qualsiasi studioso moderno, che si dovesse cimentare nella definizione di questo pilastro della cultura arbëreşë e italiana.

La Gjitonia di crescita per P. B. non durò più di dieci anni, infatti rimasto orfano venne affidato alla famiglia dei Bugliari di sopra, loro parenti e, qui inizia il suo percorso formativo colmo di valori di conoscenza e credenza sociale, oltre che religiosa.

 A cui segui la breve parentesi del collegio Corsini di San Benedetto Ullano dove, già da studente Pasquale scalpitava per salire in cattedra, perché già all’epoca era un elevato conoscenza del latino e del greco, sin anche in ogni forma dialettale e, per il suo elevato valore, il maestro dalla cattedra senza onore, lo fece espellere dal secondario istituto, perché pasquale lo corteggiava di tutte ilarità che il cattedratico diffondeva.

Nonostante ciò il giovane Pasquale, sicuro dello spessore culturale, non si perse d’animo e continuò i suoi studi nella storica università di Salerno, dove ebbe modo di essere conosciuto sin anche tra le mura ecclesiastiche di Cava dei Tirreni, dove sorgeva un importante monastero benedettino, nota come “Abbazia territoriale della Santissima Trinità”, fondata nel 1011 da San Alferio e attiva da secoli come centro spirituale – culturale.

A Salerno si laurea con lode per il suo alto valore e quando i gesuiti furono allontanati dal regno, il Baffa fu chiamato a insegnare il greco nelle scuole pubbliche Universitarie di Salerno e di Avellino.

Nel 1773, con l’autorità del suo nome a ottenere il posto d’insegnante a Portici nella nascente Guardia Marina del Regno; altre vicende lo vedono protagonista sino all’11 novembre del 1799 alle ore 17.30, come quella di essere stato il primo arbëreşë a fare un testo di comparazione linguistica del nostro parlato nel 1776, ma questa e altre vicende sono di competenza degli intellettuali , i preposti accademici che avrebbero dovuto farlo brillare, a tal fine, perché qui dovrei renderle note infondo chi scrive è solo un architetto che segue lo stesso percorso culturale del Baffi e quindi non regala ma fa solo memoria.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-07-11

Comments (0)

L'ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

L’ARBËREŞË QUANDO DIVENTA ARCHITETTURA

Posted on 10 luglio 2025 by admin

Giorgio Castrita L'arbëreshë

NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Disquisire, palare o esprimere pareri relativi a una minoranze storica non deve essere finalizzato semplicemente nel difendere una lingua, un canto, un costume tradizionale o trascrivere inadatti abecedari, ma riaffermare il principio secondo cui l’identità culturale non si esaurisce nelle parole che pronunciamo o negli atti di semplice apparizione folcloristica, perché si radica in un modo di essere, in una visione del mondo, in una trama invisibile, fatta di valori, gesti, memoria di un been identificato luogo.

Essere parte di una minoranza, come quella presente da secoli, appellata Arbëreşë, non significa solo parlare un idioma diverso, tramandare melodie antiche, accompagnate dal suono di inadatti strumenti a mantice o corda.

Il che non giustifica adagiare nel presente una storia sensibile di un’etica e relazioni che resistono al tempo e si riverbera senza mai distorcersi, perché una minoranza è uno stile di vita che rispetta la terra abbandonata e, nel contempo valorizza quella parallela ritrovata, in tutto il principio antico, della parola data.

La stessa che diventa forma di pensiero che valorizza il legame tra le generazioni, il senso del limite, il valore delle donne e l’operato degli uomini, i due governi che fanno l’ospitalità più genuina del vecchio continente.

Difendere questa minoranza non è dunque un atto nostalgico, ma un gesto di giustizia culturale, e riconoscere che la vera ricchezza di una società non sta nell’omologazione, ma nella pluralità.

Dato che non esistono “culture piccole”, ma solo sguardi superficiali e, ogni cultura diviene universo, storia, o insegnamento che può essere radicata o aperta, ma fedele a sé stessi per dialogare.

In un tempo in cui tutto corre verso l’uniformità, riaffermare la dignità di una minoranza che resiste è un atto rivoluzionario, o messaggio, in quanto non sono solo ciò che producono o consumano, ma anche memoria e ricordo, di ciò che si sceglie di custodire.

E allora, oggi, non chiediamo solo protezione o riconoscimento, chiediamo ascolto, chiediamo che la nostra presenza sia considerata una risorsa, non un residuo della nostra differenza, in tutto una forma di valore, non una distanza da colmare.

Perché, in fondo, difendere una minoranza significa difendere il diritto di ogni essere umano a essere sé stesso, in modo pieno, libero, umano.

Vale per questo anche la vestizione tradizionale delle donne, che in molte culture e in particolare nelle comunità storiche come quella Arbëreşë, non è semplice modello estetico o folklorico.

Esso rappresenta un codice simbolico profondo, che racchiude valori familiari, religiosi e identitari, che non possono essere stilizzati nell’inadatto adempimento di mezza festa o mezzo lutto, come se questi appuntamenti non fossero un tutt’uno con il sole e la luna che fanno giorni solidi.

In ragione di ciò in questo scenario identitario ritrovato la tradizione commessa all’abito diventa una dichiarazione silenziosa di appartenenza, di rispetto e di sacralità.

La vestizione tradizionale femminile è spesso ispirata a un senso di pudore e di bellezza sobria che rimanda direttamente ai valori della chiesa, intesa non solo come istituzione religiosa, ma come centro spirituale della comunità.

L’atto stesso di indossare certi capi in determinati momenti come: feste religiose, matrimoni, processioni è un rituale che unisce il quotidiano al trascendente.

Nel modo in cui una donna si veste per la festa, si legge il rispetto per ciò che è sacro, per il tempo lento, per il significato profondo delle cose.

La cura con cui si tramandano gli abiti cuciti, ricamati, aggiustati, conservati, parla di una cultura della casa come spazio di trasmissione dei valori.

Ogni dettaglio, ogni filo, ogni gesto di vestizione racconta una storia: di madri, figlie, nonne.

Ed è nella casa che si impara a portare quell’abito con rispetto, e a comprenderne il valore.

“L’abito non è solo indossato, ma deve essere anche saperlo vivere, tramandare, ereditato, perché esso rappresenta un modo di essere e fare famiglia.”

Nelle culture tradizionali, la donna è ponte tra la casa e la chiesa, tra il quotidiano e il sacro e, l’abito, rappresenta la sintesi visibile di questa alleanza.

Non è limitazione, ma espressione identitaria, consapevolezza di un ruolo che è custode, guida e presenza silenziosa solidamente connessa alla consuetudine della storica radice delle terre gli Arbëreşë furono costretti a migrare con dolore.

Nel silenzio dell’abito c’è una dichiarazione potente, in quanto con esso palesiamo ciò che onoriamo, e onoriamo ciò che amiamo.

Nella vestizione tradizionale delle donne di Arbëreşë non c’è solo tessuto, ma casa, fede e storia. Ogni abito portato con rispetto è un atto di memoria e di futuro, il gesto non vuole essere mero conservare un costume, ma di proteggere un codice etico, un modo di vivere che tiene insieme il sacro e l’intimo, la comunità e la persona e, oggi conoscere per difendere questi segni significa rimanere civiltà inarrivabile.

Che l’Arbëreşë non sia soltanto una lingua è dimostrato da una lunga e profonda tradizione culturale, religiosa e intellettuale che attraversa i secoli e le generazioni.

Parlare di arbëreshë significa parlare di un’identità viva, che ha saputo resistere e rinnovarsi, portando con sé non solo parole, ma anche valori, pensieri, simboli e gesti.

Lo dimostrano, in primo luogo, figure come Giuseppe Bugliari prelato, il cui pensiero lucido e coerente ha rappresentato un faro nella difesa della specificità culturale e spirituale del popolo arbëreshë. Con lui, Pasquale Baffi ha incarnato una forma di impegno civile e culturale che ha saputo unire la fedeltà alla tradizione con l’apertura al dialogo moderno, dimostrando come l’identità non sia una gabbia, ma una radice da cui crescere.

Non si può dimenticare il ruolo fondamentale svolto dai vescovi Bugliari, custodi della fede bizantina e interpreti di un’autonomia religiosa che ha rappresentato, nei secoli, un baluardo contro l’assimilazione forzata e una forma alta di resistenza culturale.

Il genio di Luigi Giura, figura simbolica di creatività e pensiero, testimonia come il pensare e immaginare in Arbëreşë abbia saputo produrre visioni e opere capaci di parlare ben oltre i confini delle comunità diasporiche.

La giustizia secondo Rosario Giura, che non la misurava in favore dei regnati di turno, che volevano vendetta di ogni gesto che non erano mai reato.

La lealtà di Pasquale Scura, espressione concreta di un legame profondo con le proprie origini e con la propria gente, richiama il valore della memoria condivisa e della responsabilità collettiva.

Infine, l’opera editoriale di Vincenzo Torelli, attento e instancabile nel dare voce e visibilità a una cultura spesso marginalizzata, ha contribuito in modo decisivo alla diffusione e alla valorizzazione dell’identità Arbëreşë che preferiva il canto alla musica nel panorama culturale italiano ed europeo.

Tutto questo dimostra che l’Arbëreşë non è solo un codice linguistico da preservare, ma un sistema complesso di saperi, pratiche e valori che continuano a vivere grazie al contributo di donne e uomini che, con passione e dedizione, hanno saputo trasformare la memoria in futuro.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                             Napoli 2025-07-10

Comments (0)

LA RESTANZA TITANA NAUFRAGA THË KATUNDI'

LA RESTANZA TITANA NAUFRAGA THË KATUNDI’

Posted on 04 luglio 2025 by admin

schermata_2015-10-08_alle_09.50.15

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il notissimo ritratto della Gioconda, non espone solo una donna ma, crea insieme tra identità di luogo e genere, il silenzioso apparente della protagonista invia un messaggio attraverso lo sguardo in luogo di luci e ombre.

Leonardo ha trasformato un ritratto in un simbolo, che va oltre il tempo e la rappresentazione, perché evidenzia anche il mistero del territorio, lasciando il compito per identificarlo al buon osservatore.

Di fronte a questa profondità silenziosa, la produzione di liberi pigmentatoti contemporanei si presenta con forte contrasto rispetto alla vocazione all’immediatezza, che non lascia prospettiva che alla spettacolarizzazione del manufatto.

Non esiste luogo dove rimane intatta la prospettiva o sia stato in grado di fornire un accenno di ombra o luce che possa essere memoria storica o memoria di figure, che da qui sono partite per trovare agio in altro ideale luogo fisico o di credenza.

Non più luoghi di memoria ma enigmi, da allestire in verticale, su muri, luoghi e ingressi che smettono di dialogare, preferendo aderire all’intrattenimento visivo senza alcuna prospettiva storica compilata a modo per quel luogo, specie quando inseriti all’interno del perimetro del centro antico.

Qui è anche la mancanza di conoscenza dei tratti locali, ad oggi nelle disponibilità dello storico Olivetano che potrebbe illuminare per la complessità degli atti da eventualmente palesare o citare, con immagini pittoriche in grado di marcare cosa sia un centro antico o cosa è un centro storico.

Ad iniziare dal tempo della semina, poi quello del germoglio e sino alla raccolta dei frutti: ovvero nel tempo della stagione lunga, ogni Katundë arbëreşë diventava un teatro di colori echi e vita, grazie alle ragazze e ai ragazzi che animavano ogni luogo ameno del centro antico, con attività ludiche e vernacolare radice.

Porte, Gradinate, Strade, Anfratti e ogni rilievo architettonico, verticale o orizzontale, assumeva il ruolo di prospettiva ideale per il teatro all’aperto, dove esibirsi e cresce, in modo sano e sapiente di tutte le generazioni del passato.

Gli stessi spazi oggi nelle disponibilità delle odierne generazioni lagrimose, che non trovano agio e spunto per crescere in linea con gli antichi valori della storia, come un tempo lo furono di tante dinastie e, quanti si ostinano a sminuire questi luoghi, in modo gratuito, non onorano sé stessi e il loro casato operoso.

A te che fai “Restanza Titanica” e, con acquarello improprio e senza agio tracci pigmenti sulle pareti disdegnando infissi dove transitava tempo e storia Arbëreshë, rivolgo un pensiero: non di censura, ma di misura – memoria e immagini ricolte da quanti oggi non conosce, e non ha consapevolezza di quelle stagioni.

A te avrei voluto dire da diversi anni, che un muro, una porta o affaccio che fa prospettiva, ha una voce, un cuore, un’anima e una memoria per riverberare storia.

Ogni superficie verticale o una porta chiusa, una finestra aperta o un balcone, rappresenta un lembo di storie e, ogni mano che le va vicino non la deve solo toccare per sostenersi ma accarezzarla e avvertire le vibrazioni che poi sono gli episodi della storia.

Poi se hai occhi per immaginarla e guardarla o renderlo perpendicolare, nel transitare oggi in religioso e lento silenzio, potrai cogliere il valore della prospettiva apparentemente vuota, nel contempo piena di sentimenti e di amori vissuti e cantati.

Un dipinto a muro cancella il valore del costruito, una finestra, una porta, un balcone, non sono altro che le scenografie di un amore passato e, sono il cuore di quella storia, mentre rimane lì testimone silenzioso, tu lo soffochi e lo fai terminare di battere.

Quando dipingi senza chiedere alla tua coscienza e a quella di chi ti sta lì accanto stupito, lui consapevole e tu inconsapevole di cosa stai violando, dovresti almeno essere in grado di avvertire il lamento di quel battito antico da te penalizzato e non più in grado di essere ritmato come natura lo vuole.

E così facendo corri il rischio, non solo di coprire memoria, ma anche di cancellare un pezzo della storia di questo luogo che non ti appartiene perché scintilla di un amore migrato.

Nessun luogo attende la tua presenza armato di questa irragionevole violenza pittorica, ogni spazio non ha vissuto tanto a lungo per essere da te compromesso, perché tutti i luoghi, se non lo sai, hanno vissuto sicuri di ricevere rispetto più che espressione di una credenza indigena usata come altare ignoto.

Dilettarsi è umano, creare è necessario, ma farlo senza riguardo è dimenticando che l’arte non nasce solo dal gesto, ma dall’incontro – con il luogo, con il tempo, con gli altri e, se sai ascoltare prima di pitturare, se chiedi al muro cosa ricorda, perché per quanto duro possa essere, ha sempre un’anima con la quelle ha difeso e difende famiglia per fare casa.

La memoria urbana non è una lavagna dove scrivere a piacere, ma un archivio vivente, spesso fragile, che merita cura, studio e rispetto.

Quando si agisce senza visione o benevola memoria di un luogo, si produce un danno che non si misura in metri quadrati, ma in perdita di identità e, come si fa con i discoli a scuola, quel muro vorrebbe essere la lavagna dove il maestro ti avrebbe fatto accucciare per pagare il tuo modo essere ancora oggi un discolo.

Ai cittadini resta il dovere, di osservare figure che, non documentano, non fanno memoria e, possono solo prendere la china per resistere con atti per ripristinare lo stato di memoria più intima.

Ci sono muri che non sono semplici superfici da usare come centro tavola o banale inno al “sistema duttale”.

In quanto esse sono le quinte del nostro canto locale, in tutto la traccia di una visione antica di procedere mano nella mano, come facevano fare le nostre madri, quando dovevamo accompagnare una sorella fuori la porta di casa, per attenuare la luce del passaggio, in tutto una delle regole dell’antico governo delle donne.

Le prospettive storiche non sono solo linee disegnate dall’architettura, ma sguardi sedimentati nel tempo, racconti stratificati che nessun giovinetto inesperto può rimpiazzare per gloria ignota.

Quando l’intervento “decorativo” o “riqualificante” promosso dai convenuti cancella queste profondità, non si compie solo un atto di cattivo gusto, ma una vera e propria tragedia, perché si spegne la luce o meglio si elimina il sole e la luna in quel luogo.

Si consuma una violenza culturale e storica senza precedenti, il gesto, spesso travestito da innovazione urbana, è in realtà un’amputazione di quel luogo, specie quando le istituzioni alte tacciono e, il vuoto che si produce diventa istituzione, regola o compromesso, perché chi doveva proteggere, ha voltato lo sguardo per meglio ignorare la storia.

Dipingere un muro antico senza conoscere ciò che vi è passato – senza ascoltare la voce del contesto, senza la pazienza o la prospettiva dell’indagine – significa spezzare una corda tesa che unisce passato e presente.

Che non è solo storia, ma si tratta della vita vissuta quotidianamente di una o più Gjitonie, magari inconsapevolmente e, comunque per come avviene con gratuita incuria da diverso tempo, senza alcun ripensamento del luogo violato con il diritto inconsulto di continuare a farlo ogni anno come se il gesto servisse a fare il fuoco di natale.

Le prospettive storiche sono fragili come dei fili ancora non tessuti e, hanno bisogno di arte e sguardi lunghi, non di mani frettolose che non sa cosa sia un progetto di tessitura, che in genere si fa per dialogare e intrecciare e non per arte piramidali fortemente labile.

Se Katundë diventa scenario di rimozioni invece che di riconoscimento di memoria, allora a essere sfigurata non è solo la facciata di un edificio lo sviluppo di una finestra un balcone o la prospettiva di un frammento di storia, ma l’identità stessa del luogo dove sono avvenuti fatti che vanno tutelati.

Chi sa ascoltare questi luoghi – e vi passa lentamente, senza fretta, con lo sguardo attento e le vele dell’anima spiegate – sente qualcosa che stride e sa come allinearsi con il vento buono, che non è rumore, ma un’incrinatura per il respiro del Katundë.

Sentire il riverbero di quelle superfici di non più candore, perché pareti rimaneggiate, ridipinte, rifatte senza amore, senza misura, senza sapere.

Inconsapevoli che un tempo custodivano ombre, di intonaci ammalorati, riflessi di luna e sole, graffiati dalla storia e, ora rivestiti di un silenzioso posticcio, informe e plastificato, che lascia subito intuire cosa è stato tolto e non tornerà più come prima, resta solo l’aiuto del tempo, ma questa è un’altra storia ancora più penosa e degenere.

Perché le pietre, gli intonaci misurati che fanno i muri e, i vuoti urbani parlano tra di loro, e quando vengono offesi, gridano si lamentano come fanno i carcerati quando vengono incatenati e, si sente solo la lentezza delle catene che solo il tempo e la ruggine possono fare scomparire.

Troppo spesso, chi opera in questi luoghi passa veloce, distratto, con gli occhi pieni di numeri, progetti, pigmenti economici e visioni al pari di un prefabbricato o ancor meglio di chi allestisce circhi e apre la scena per stupire.

E sin anche, chi dovrebbero custodire il battito nascosto di un Katundë non lo fa, il motivo va ricercato in quella opera incompiuta della legge 482/99 dove gli allestitori non conoscevano manco la tabellina del tre e, quindi per adesso tutti fanno i discoli come quando il maestro abbandona l’aula in una scuola elementare.

Resta il compito – antico oggi ancora valido- di chi sa camminare lento, gli unici capaci di custodire con lo sguardo, e ricordare con la mente, le voci che qui non smettono mai di riverberarsi, scrivere per non far cadere nel silenzio, quelle vibrazioni dell’inconscio che chiedono aiuto.

Un tempo si diceva: “Il dado è tratto” per varcare un limite, per assumersi una responsabilità, per compiere un gesto irrevocabile – spesso drammatico, ma onorevole, necessario, storico.

Oggi, la stessa frase pare echeggiare nei gesti più bassi, più meschini e rimane solo la pronunciano gli ultimi, non per coraggio ma per incuria.

Non per cambiare il mondo, ma per sporcarsi le mani senza rendersene conto che per cancellare, verniciare, appiccicare, coprire con leggerezza ciò che richiederebbe rispetto e ascolto.

Il dado è ancora tratto, sì – ma non verso la storia, ma piuttosto, verso l’oblio e quando a tirarlo sono quanti vengono proposti a dirigere, custodire, proteggere… allora non è solo degrado, ma anche tradimento.

Le nonne imbiancavano i muri delle loro piccole case, ogni primavera, per scrostare il fumo dell’inverno, e restituire alla casa un candido e luminoso respiro di luce, facendo uso della vivibilità che consente la calce, che sanifica l’ambiente dove serve luce.

Voi, oggi, colorate le strade della storia, non per purificare e dare biancore, ma svilire i colori e cancellare, non per illuminare, ma per ingrigire, in tutto non portate luce, perché i vostri colori sono di dubbio biancore.

Coprite il sole con le vostre verticali pigmentazioni, con animoso silenzio, dove c’era un racconto, colorate l’identità e date merito a chi si oppose a quella storia d’amore ignota.

Chiamate decoro la rimozione, chiamate progetto ciò che è solo abbandono e “Dipingete muri storici” carichi di memoria e, forse anche di dolore o lotta.

Lo chiamate “arcobaleno” quello che non è retorica di pace, inclusione, speranza e, simbolo positivo ma purtroppo quello vostro invece è finto, affrettato, forse imposto a risultato di un processo di purificazione o liberazione emotiva, attraverso questa falsa esperienza simbolica.

La critica di questo abbellimento superficiale o retorico di simboli positivi, consente di non affrontare realmente i problemi o la “tempesta storica” che li ha preceduti divenendo sin anche il simbolo delle madri che allattavano i figli sotto il noce.

Il tutto diventa una riflessione sull’ipocrisia, sull’estetica usata per esaltare il fatuo e, invece che pianificare il senso della memoria di un ben identificato luogo di patire, preferite promuovere e santificare cose che fanno parte dell’ignoto.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-07-04

Comments (0)

NEI CENTRI ANTICHI GERMOGLIA LA MALARIA CHE RIPUDIA CHI PARTE E RICORDA  (llirenj thë rjerë Shanasjnë; ghë mosë nhëngh e frnon më)

Protetto: NEI CENTRI ANTICHI GERMOGLIA LA MALARIA CHE RIPUDIA CHI PARTE E RICORDA (llirenj thë rjerë Shanasjnë; ghë mosë nhëngh e frnon më)

Posted on 30 giugno 2025 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Inserisci la tua password per visualizzare i commenti.

la storia del costume

GIJTONIA: IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË (Ghëratë thë sheşethë ndë katundë bëghenë Gjitonjitë)

Posted on 30 giugno 2025 by admin

la storia del costume

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per chi conosce la storia e associa i processi sociali per la formazione e crescita dei generi, studiando oltremodo i percorsi che valorizzano i luoghi da questi vissuti – senza alcuna preferenza o pregiudizio – tutto tende a cercare una misura con cui confrontarsi, per non perdere la retta via indicata dal sole e dalla luna, che illuminano Casa, Generi, Famiglia e Gjitonia.

Gli studiosi del Mezzogiorno, spesso, hanno orientato le proprie ricerche lungo sentieri tesi ad allargare i confini della storiografia, raccogliendo tracce che confermassero la presenza di uomini e donne all’interno di percorsi sociali in grado di rispondere verosimilmente ai bisogni nati dal luogo, fatto di generi, ambiente naturale e tempo.

Idee, mentalità, immagini, parlato e ascolto diventano così simboli di solidità, strumenti per intercettare la linea generale su cui si definisce il luogo dove tutto si materializza: lo spazio dello studio e dell’analisi, da trascrivere o fissare attraverso parole e immagini.

Tuttavia, come è accaduto spesso in passato, ci si è trovati ad avere come compagni di viaggio traduttori occasionali: sconosciuti di turno e, raramente osservatori lucidi, piuttosto ignari viandanti, privi di arte, memoria e rispetto dei luoghi che avrebbero o devono indagare.

E se l’argomento riguarda gli arbëreshë, diventa ancor più indispensabile il ricorso agli strumenti che fanno una diplomatica, per poter offrire una ridefinizione della storia che sia adeguata, fondata e rispettosa della complessità di questi luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti in Arbëreşë.

Vero restano i grandi intellettuali o viaggiatori del passato, come Giuseppe Maria Galanti e poi Norman Douglas, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare e avere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.

Penso, fra gli altri, al napoletano storico, politico e accademico di grande rilievo, come Giuseppe Galasso, le cui indicazioni verbalmente acquisite in vari incontri, all’Istituto Italiano di Studi Filosofici a Napoli, dove mi sottolineava che la lena dei suoi discepoli, aveva reso il germoglio del postulato a titolo, in mera forma condominiale del razionalismo moderno.

Tuttavia a rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di casa, furono le attività poste in essere nel palcoscenico “Gjitonia” che non è mero prodotto post industriale di scambio o di prestito di comodo di breve periodo.

Perché, la trasformazione subita dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa, caratterizzata dal XIX e gran parte del XX secolo, include fatti e cose fuori dall’intervallo di Studio e, molto più precedente perché funzione di cose ancora non predisposte del sociale che annaspava economia.

A tal fine e per analizzare il processo sociale diretto e condotto dal governo delle donne e, sostenuto dal sento degli uomini, diventa indispensabile iniziare, con il citare le vicende storiche di epoche più pregresse, se non addirittura remote.

Ad iniziare dalle vicende che videro emerge la figura femminile di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei restava fedele tessendo e disfacendo il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.

Penelope (madre) è anche protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga e custode del figlio Telemaco che cresceva con dedizione secondo le regole del patto matrimoniale.

Infatti, essa attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e, dato per disperso, lei da vedova incerta, cresceva, da sola il piccolo Telemaco, evitando perennemente e con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti, ma grazie al famoso e ripetuto stratagemma, secondo cui di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, rimase sempre fedele alla promessa familiare data.

Mantenne così, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.

Ma alla fine, Ulisse tornò, dissuase i provocatori o meglio attentatori della moglie e si ricongiunse con lei.

Tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, come le tempistiche giornaliere che vissero le mogli arbëreşë, nelle innumerevoli Gjitonie, caratterizzano nell’antichità i Katundë, della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.

Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera al tramonto, il marito partiva per i campi e rincasava dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici, preparando corredi ed elementi tessili con i telai intrecciando seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, assumendo anche il ruolo di educande di tutte le nuove generazioni in crescita nella Gjitonia.

Le stesse che senza mai distrarsi allevavano i propri figli e delle compagne di luogo idealmente circoscritto, il tutto per il fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale di iunctura familiare.

Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di ogni genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, nel rispetto e la conoscenza dei cinque sensi, che qui si vivevano e respiravano, ad oltranza, in egual misura tutte le nuove generazioni.

Gjitonia era anche una robusta tessitura di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kalljve vernacolari, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, il tutto utile e indispensabile a innescare una percorrenza lenta, regolata dall’articolato andamento viario a misura e, colmo di accessi di controllo dalle piccole case del bisogno.

Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli indispensabili Orti Botanici di pertinenza familiare nota, in tutto “dedalo di percorsi angusti”, dove scalinate apparentemente disomogenee, rendevano non facile la percorrenza, rallentando il passo di che vi transitava nel bene o nel male della comunità qui organizzata a propria misura.

Strade che mirano a rallentare i comuni viandanti, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta e valore sociale.

Sono gli stessi spazio urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio ai vicoli orientati in direzione nord-sud, generando per questo l’interazione sociale paritaria progettato dalle donne e realizzato dagli uomini.

Una tessitura di centro antico che conserva gli storici rioni di espansione delle varie epoche, noti come: Chiesa, Primo insediamento, Promontorio, Loco di arrivo, Loco di accoglienza, Loco di Incontro, di Credenza e del Nubilato Epirota.

Sette Rioni entro cui a misura di necessità, erano predisposte secondo il bisogno dei cinque sensi, le indispensabili Gjitonie del governo al femminile.

Per questo, Gjitonia mantiene viva la continuità e il confronto in ogni forma o sfaccettatura sociale, diretta o indiretta, in quanto articolata da spazi privati e pubblici in sana condivisione, dove erano regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche in grado di rendere agevole l’operato delle donne, fatto di: Case, Vichi, Archi, Strade cieche e Orti Botanici.

Il sistema così composto divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat di famiglie ben identificate e riferibili, fatto di “madri tessitrici e speciali maestre di vita”, immerse in un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.

Ed è qui che diverse donne che parteciparono al Grand Tour, in forma di viaggio esplorativo e culturale, tra il XVII e il XIX secolo iniziarono a considerare la Calabria e i luoghi di pari formazione nei loro itinerari di esperienza conoscitiva e studio.

Questo accadde più tardi rispetto ad altre regioni del meridione italiano, per la difficile accessibilità, dovuta alla povertà dell’infrastruttura stradale e della reputazione di pericolosità del sud Italia in generale e la Calabria in particolare.

Le donne viaggiatrici arrivarono in Calabria, nel periodo su citato e tra queste si contano Inglesi, Francesi e Tedesche, che iniziarono a spingersi oltre le mete classiche del Grand Tour, esplorando ambiti ritenuti inaffidabili, come la Calabria Citeriore.

Tra le principali viaggiatrici del Grand Tour che attraversarono le zone arbëreshë della Calabria Citeriore, è da ricordare Emily Lowe.

Una Viaggiatrice britannica, coadiuvata da sua madre, che si reca prima in Sicilia e a seguire in Calabria, inclusa la zona della Calabria Citeriore, intorno al 1859.

Descrive le fragilità e i “pericoli romanzeschi” di quella “terra” lontana e poco esplorata perché nota come area che dissuadeva i turisti proprio per i suoi disagi e la sua ruvidità sociale e territoriale.

Poi venne Caterina Pigorini una Viaggiatrice italiana, che fu tra le protagoniste dello scritto “Viaggiatrici italiane alla scoperta dell’Italia meridionale”.

Essa compila un reportage sulla Calabria, indirizzato all’amica Alba Ricco‑Nicotera e, alla storica comunità arbëreshë, sebbene non vi siano date precise, il percorso sembra compiuto in estate, dieci anni prima della pubblicazione dell’edito nel 1880.

Il motivo che le spingeva queste nobili osservatrici, era contenuto nell’interesse crescente per l’archeologia e, l’interesse che oggi L. Iacobelli dedica a questi personaggi, transitate in questi paesaggi pittoreschi, per cogliere le tradizioni, natura incontaminata del meridione italiano più estremo e isolato, che a ben vedere, seminava interesse verso le donne viaggiatrici, le stesse animate da curiosità scientifica, romantica o etnografica di verificare come il genere femminile si distinguesse in questi ambiti isolati dalle società in evoluzione.

Furono diverse le figure nobili o meglio femminili che seguirono e qui transitarono dal Gran Tour, non era solo esperimento conoscitivo ad opra degli uomini ma specie più profonda per le donne, che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano Paestum, venivano attratte da questa apparizione al femminile, nei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne arbëreşë.

E quando il meridione peninsulare più estremo, divenne anche la meta di nobili donne maritate e non, la  Gjitonia, divenne un fulcro pulsante di scambi dell’operare al femminile, e le giovani e nobili apprezzavano con interesse, sia gli espedienti consuetudinari e sociali senza disprezzare i manicaretti, le pietanze o i prodotti casalinghi, preparati per la prole, il marito e gli ospiti, tutti fatti e compilati con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.

Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa, si recava in questi luoghi per comprendere costumi, colori e avere misura di un modo, non certo in linea con le vistose regole di protocolli di corte, con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.

E chissà quante di loro ebbero modo di rilevare che la radice di quell’agio aveva alla base sempre una prospettiva al femminile che formava genere e progettava spazi per le case del futuro.

La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.

Quanto adesso trattato o accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita e, da oggi in poi, “intellettuali”, “ricercatori”, “psicologi” e ogni “sorta di letterato”, avranno da sudare non poco, nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e valore di Gjitonia, che non è stato “Mero Vicinato Indigeno”, ma luogo della tessitura progettata delle donne Arbëreşë, senza alfabetari di sorta per compilare editi in arbëreşë.

Nel caloroso abbraccio dei Katundë, tra pietre antiche, porte, finestre gemellate, sempre aperte di giorno sulla snodata rrughà, sino a poco tempo addietro aleggiava un ordine invisibile e solido: Gjitonia il regno delle donne, o luogo dove si allevavano i cinque sensi.

Nessuna legge scritta, nessuna gerarchia ufficiale ma, tutto si reggeva funzionale al modello femminile, lo stesso che vede, ascolta, tocca, odora e gusta con sapienza, perché custode del tempo in sintonia con i domani fraterni.

Sono loro a governare ciò che si muove tra le case, dove non serve un titolo, non servono proclami, ma solo l’autorità delle madri, fatta di gesti quotidiani, di sguardi attenti, di presenze continue, per sostenere vivo e sempre accesa la vita tra una soglia e l’altra.

Sono sempre loro, le donne a conoscere ogni passo, che interrompe il silenzio, ogni pianto trattenuto, ogni sorriso nascosto, perché nulla sfugge al loro ascolto in discreta e intima visione.

Gjitonia, è dove la finestra è un osservatorio, la porta resta sempre aperta per accogliere e, il mormorio e le movenze di lingua madre, sono sempre interpretate in modo sano.

I sensi sono le armi che qui si utilizzano, il corpo è memoria, l’olfatto racconta l’ora del pane appena sfornato, i decotti condivisi, ricordano le erbe stese a seccare come si fa in preghiera.

Il gusto conserva le radici delle ricette tramandate senza misura, i dolci delle feste, il brodo che sa di ritorno e il bollore dei taralli segna il tempo del forno che attende in calore.

L’udito cattura tutto, sin anche una parola sussurrata, una voce nuova, una finestra che si apre e come una porta che allarga fratellanza.

Il tatto rasserena gli animi, ad iniziare da una carezza che consola, una stretta di mano conferma un patto, unito da un filo sottile di lana che solidarizza generazioni.

La vista guida, protegge, giudica senza parlare, ed è così che nella Gjitonia, non esiste il vuoto, giacche le donne riempiono ogni spazio con la loro presenza leggera discreta e irrinunciabile.

Esse non comandano, ma reggono ogni cosa, non redarguiscono giacche preferiscono consigliare, non impongono, perché trasmettono regole di via privi di rimpianto futuro.

Il loro governo è quello del fare, cucire, accogliere, consolare, consigliare, tramandare, in tutto una politica dell’anima, che non ha bisogno di essere detta ma solo indicata come fa il sole che indica la via maestra.

E mentre gli uomini si radunano nel loro “senato”, discutono di confini, decisioni, terre, onori, qui, tra le pietre delle Gjitonie, si decide il vero andamento della comunità che genera un Katundë.

È qui che si percepisce chi ha bisogno, chi è pronto a partire, chi deve essere protetto, chi è rimasto indietro e, sempre qui che si costruisce la pace, si distendono gli animi ogni giorno, con gli strumenti più semplici e più antichi.

La Gjitonia non è solo un banale vicinato, ma una rete viva di relazioni, una democrazia sensibile fatta di memoria, di consuetudini presenza, ascolto e cura dell’oggi per i domani migliori.

È il luogo dove la donna non è esclusa né depositata ai margini, ma architetto che progetta le case le cose del bisogno e, poi passa i compiti agli uomini, che assumono il ruolo di forza lavorativa e produttiva.

Un luogo governato o meglio regolato dalle mani che impastano, dagli occhi che ricordano, dalle bocche che cantano e, non si tratta di nostalgia, ma di forza sociale, la stessa che oggi la società moderna non sa come e da cosa iniziare.

Non si tratta di folklore, ma di sapere antico e ancora intramontabile, perché dove le donne guidano con i sensi, anche il mondo intorno trova il suo equilibrio, per accogliere tutti e fare fratellanza.

Non a caso gli arbëreşë sono noti come: “il modello di integrazione più solido e duraturo di tutta la storia del mediterraneo”,

 

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                  Napoli 2025-02-09

Comments (0)

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!