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ARBËRI E ARCHITETTURA

Posted on 20 settembre 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’arbëria è un fenomeno che non è legato ad un identificato ed unico territorio, ovunque un arbëreshë accende un focolare e costituisce una famiglia, un gruppo, una comunità,  nasce un’arbëri.

Con questa frase aprì la sua relazione il Prof. Giuseppe Schirò, al circolo di cultu­ra degli Italo – albanesi di Ro­ma, “Besa” il 6 dicembre 1975.

La definizione di Giuseppe Schirò non si discosta molto dal concetto di architettura, che si usa genericamente definirla, quale disciplina indispensabile all’organizzazione dello spazio a qualsiasi scala, dell’ambiente in cui vive l’uomo.

Con l’architettura l’uomo soddisfa le necessità principali e crea il legame ideale con il territorio imprimendo su quest’ultimo i segni identificativi attraverso la propria ritualità; ed è per questo che attraverso l’architettura in senso generale si usa studiare le civiltà del passato.

Generalmente i popoli quando si sono insediati sul territorio hanno prodotto cinte murarie per chiudersi all’interno di perimetri protetti, sicuri e utili per la difesa.

Gli arbëreshë, diversamente, preferivano stanziarsi in modo diffuso, modello avanzato delle città aperte, preferendo disporsi su un prescelto territorio, dipartendosi in gruppi, poiché il loro modo di concepire una regione o uno stato gli permetteva di coagularsi in un unico fronte ogni volta che si trovavano esposti a pericoli.

A tal proposito vale la pena di ricordare la frase che ogni arbëri riconosce e funziona ancora oggi da collante: gjaku i shëprishur nëng u garrua (Il sangue diffuso non va dimenticato)

La forza era, ed è, rappresentata dal grande valore che è associato al concetto di famiglia, racchiuso in tre fondamentali aspetti: il luogo, la comunicazione e il tempo, rispettivamente identificabili nell’architettura, nella lingua, e nella ritualità.

Il luogo, spazio all’aperto e al chiuso è stato il teatro naturale o costruito nel quale il popolo arbëri ha ritrovato il microclima ideale in cui vibrare e riverberare identicamente sino ad oggi, nel modo più corretto, il proprio essere linguisticamente e ritualmente.

Anni addietro per rendere l’etnia più visibile nel territorio gli furono attribuite la paternità della Cagliva, i Catoj, i Sheshi, la Gjitonia concetti di carattere architettonico ed urbanistico appartenenti a tutte le popolazioni che ricadono all’interno del bacino del Mediterraneo e non di esclusiva pertinenza arbëri.

Ciò che invece diversifica le tipologie architettoniche ed urbanistiche appena elencate, delle popolazioni di tutto il mediterraneo rispetto a quelle albanofone è il concetto di famiglia e come essa si sia evoluta utilizzando questi modelli.

La mutua sussistenza di tutte le popolazioni mediterranee, era basata su gruppi non omogenei, legati fra di loro dal patto del commarato, vincolo utile per la gestione delle uniche risorse per il sostentamento, derivanti dalle attività agro-silvo-pastorali.

Gli albanofoni, gruppi solidamente coesi dal concetto di famiglia allargata, imparentati e legati indissolubilmente dal vincolo del sangue, “Besa” (Promessa), concetto che avvolge la totalità dei rapporti sociali all’interno del nucleo e con quelli delle famiglie confinanti.

Anche quando la famiglia acquisiva certezza economica o il numero dei componenti superava la dozzina, il gruppo si dipartiva, ma il legame indelebile impresso dalla “Besa” non veniva mai a mancare.

La lingua e la ritualità degli albanofoni ha conservato integralmente la sua radice originale in tutte le gestualità quotidiane legati alla originaria ritualità civile e religiosa, mentre ha assimilato, differenziandosi da gruppo in gruppo, quello dei popoli con cui ha coabitato territori meno tumultuosi della madre patria balcana.

I dominanti meridionali sono stati gli artefici involontari delle inflessioni che oggi caratterizzano le parlate albanofone in Italia.

Le nuove metodiche per il sostentamento e i processi tecnologici che furono messi in atto costrinsero i minoritari a fare propri i nuovi vocaboli che mescolati nel calderone linguistico, mai regolati al loro interno, produssero le mille parlate dei gruppi allargati che oggi ritroviamo nei cinquanta o più paesi meridionali.

I presidi urbani ed architettonici rappresentano l’unica certezza in cui ritrovare gli antichi riferimenti dell’etnia; sono i manufatti architettonici che vanno studiati ed interpretati,  pur se manomessi, disprezzati e ritenuti senza alcun valore, avvolgono scene di vita quotidiana, riti e tutto quello che ha consentito alle popolazioni di far riecheggiare nella valle del Crati, dell’Esaro, dei Sarmenti, del Vulture  e di tante altri presidi meridionali, i suoni che all’inizio furono incomprensibili e inconsueti, ma grazie alla caparbietà e all’indole degli arbëri sono diventati parte integrante del vivere civile di tutto il meridione.

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