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LA STORIA NON È LA FAVOLA DI CORONE O LE VALJE

Posted on 18 maggio 2017 by admin

LA STORIA ARBËRESHË NON È LA FAVOLA DI CORONENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’appuntamento elettorale degli anni ottanta e senza soluzione di continuità finanche l’ultimo di tre anni orsono, si distinguono perche nulla è mutata a proposito della caratterizzazione storico/minoritaria indispensabile per il rilancio della R.s.A..

Poco più di mezzora negli anni ottanta, il tempo di una tarantella; come tre anni orsono, il tempo di due telefonate; per avere consapevolezza che la piramide the Kushevet, era rimasta identica e nulla sarebbe cambiato.

Egocentrismo diffuso e la latitanza di formazione storica caratterizza la campagna di rinnovamento da molti anni e cosi questa ultima occasione si è rivelata ben presto come l’ennesima delusione di tutti coloro che preparavano l’esposizione delle “coperte ricamate” (Palacàt) nelle balconate e sui davanzali delle finestre.

Come negli anni ottanta anche gli interlocutori di tre anni orsono, hanno quale denominatore comune, il non essere arbëreshë D.O.C e non avere alcuna conoscenza della storia.

Una sorta di maledizione che avvolge la realtà di questo piccolo centro e gli impedisce di assumere il ruolo per il quale è stato innalzato nel XV secolo; ovvero essere capitale e non rimanere relegata al ruolo di cenerentola davanti al camino che per rifocillarsi consuma di giorno in giorno pezzi irripetibili della sua identità.

Uno stato di fatto che ho rilevato osservando il miracolo generazionale che ha fatto nascere un esercito di Antiquari.

A tal proposito volevo rilevare che non abbiamo bisogno di eccellenze alloctone che vengano a raccontare il nostro passato e la nostra storia, abbiamo risorse uomini e mezzi capaci di seminare tanta storia capace di dare lustro a tutta l’intera R.s.A.

Purtroppo gli stessi ambiti che avrebbero dovuto tutelare, valorizzare, innalzare collocando nella giusta casella una delle realtà territoriali minoritarie tra le più ricche di tutta la Regione storica Arbëreshë è diventata il territorio ideale per far divulgare inesattezze e ilarità.

L’intervallo storico che riferisco e identifico come “migrazione delle professioni per ambire al titolo di antiquari di minoranza” è stato il più penoso dal 1740 a oggi.

Nozioni e personaggi volatili che si scambiano i ruoli balzando dallo storico, al linguistico, al consuetudinario, all’antropologico senza regola o decenza.

Favole scambiate per storia, uomini utilizzati secondo le proprie necessità locali; un esercito di garibaldini che secondo una statistica supera il milione di giubbe rosse; cuochi che fanno gli storici, muratori che diventano architetti, giullari che diventano re, antiquari che si credono letterati, raccoglitori di spazzatura storica che si credono guide ed esperti di una realtà che ignorano, in quanto non hanno ne titoli e ne capacità o spessore culturale.

Un quadro che non ha ne colori né logica di pensiero, un mondo oscuro dove prevale l’egocentrismo e la velleità che tutti gli interlocutori, posseggono gli stesi itinerari di studio di chi ha permesso tutto questo; un progetto fatto in malafede con il fine di coprire le inesattezze diffuse; nozioni errate senza alcuna cognizione che possa essere comparata ad alcun che.

Per questo capita che in quella che dovrebbe essere la capitale della regione storica si confondano: la primavera con i balli, i Santi con le figurine, i banchetti con le processioni, i canti con le tarantelle, il costume con il vestito di carnevale, la chiesa con il teatro e ogni sorta di appuntamento storico di consueto è attribuita a una fantomatica vittoria di Alessandro il Grande; peccato che il più delle volte la data brandita e diffusa, persino attraverso i media, corrisponde a periodi in cui il grande condottiero risultava già deceduto.

Non c’è da stupirsi se poi nell’appuntamento più antico della storia minoritaria, sul palco si rilevi il dato che in pochi parli l’antico idioma e si da inizio a danze e balli di estrazione tipicamente calabrese.

La consuetudine di cui vorrei raccontare e parlare, ha il suo fulcro nel concetto stretto della famiglia tipica minoritaria, la stessa che ha come luogo materiale la casa, il giardino e il cortile; espansione dell’immateriale denominata Gjitonia; ambito senza confini tridimensionali, rappresentativo dei cinque sensi.

Se nella regione storica non si da priorità a questi due punti per iniziare a interpretare idioma, consuetudine, religione architettura, antropologia, e ogni disciplina del tangibile e dell’intangibile; viene da chiedersi ma che balliamo a fare le valje, che oltretutto esistevano, molto tempo prima che nascesse Giorgio Castriota Scanderbeg?

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