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LA PARTECIPAZIONE DISCIPLINARE COME FONDAMENTO DEL PROGETTO DI RICERCA

Posted on 28 novembre 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ogni progetto di ricerca autentico deve fondare su principi imprescindibile della partecipazione ordinata di competenze multidisciplinari coinvolte secondo il protocollo istituito da Adriano Olivetti.

L’apporto multidisciplinare non può essere ridotto a una semplice somma di saperi, né tantomeno a un mosaico disordinato di contributi, giacché deve, procedere secondo una regia metodologica che sappia valorizzare ogni singola disciplina nel rispetto del suo linguaggio, delle sue finalità e dei suoi strumenti interpretativi.

Solo in questo modo la ricerca riesce a diventare un organismo vivo, nel quale la pluralità delle competenze non genera conflitto o dispersione, ma al contrario costruisce un campo comune di indagine, in grado di rivelare il senso profondo dell’opera o del principio storico che si intende indagare e sostenere nel presente.

La partecipazione deve essere intesa come forma di responsabilità condivisa, non come un terreno di prevaricazioni o di esibizionismo individuale.

Ogni disciplina è chiamata a offrire il proprio contributo non in termini di supremazia, ma di servizio verso l’obiettivo generale del progetto ad uso della comunità.

Ciò richiede un equilibrio delicato, perché ogni competenza possiede una propria dignità e una propria autonomia scientifica che non deve essere sacrificata o compromessa in alcun modo.

Al tempo stesso, nessuna disciplina può aspirare a diventare il perno assoluto dell’intera ricerca, poiché l’eccesso di prevalenza rischia di oscurare gli altri punti di vista e di condurre a interpretazioni parziali o persino distorte.

L’autentica collaborazione scientifica nasce, dunque, dall’ascolto reciproco e dalla capacità di riconoscere i limiti e la forza del proprio campo di studio, integrandolo con ciò che altre prospettive possono offrire.

In tutto deve esse come un arazzo, fatto di fili e trame intrecciate che rendono visibili la prospettiva unitaria della storia

Un progetto di ricerca ben strutturato richiede quindi una architettura metodologica, che stabilisca in modo chiaro le funzioni, i ruoli e i confini di ciascun contributo disciplinare.

Questo non significa irrigidire il percorso, ma costruire una trama ordinata in cui ogni sapere possa esprimersi con coerenza e ordine metodologico, infatti, non il progetto non deve assume il ruolo di una gabbia, bensì una condizione di libertà e, consentire alle diverse competenze di dialogare senza confondersi, di mescolarsi, annullarsi, ma di convergere verso un risultato comune senza perdere la propria identità.

In tale orizzonte, la ricerca diventa un laboratorio di collaborazione, un luogo in cui la pluralità dei metodi si traduce in forza interpretativa e in capacità di leggere la complessità dei fenomeni in ogni forma e grado.

Ogni progetto che miri a comprendere principi idiomatico, storico, artistico, scientifico, sociale e di credenza, deve dunque assumere questo protocollo partecipativo come fondamento.

La storia stessa ci insegna che nessuna opera può essere pienamente compresa attraverso un’unica lente interpretativa, giacché occorre una visione corale che sappia connettere le testimonianze, le forme, i linguaggi e le intenzioni che hanno contribuito a generarla.

Solo così il progetto di ricerca può diventare atto di restituzione credibile e incontestabile, ovvero un modo per restituire al presente la forza e il significato di un’opera del passato, facendo emergere quello che ancora può riverberare nel nostro tempo.

Questa restituzione, tuttavia, non avviene per semplice ripetizione, ma attraverso un processo critico che si nutre di analisi, confronto e interpretazione condivisa.

In conclusione, la partecipazione disciplinare, ordinata, rispettosa e metodologicamente strutturata, rappresenta non solo un requisito etico della ricerca, ma anche delle forze in grado di generare nuovi orizzonti di senso condivisi e non egocentrici.

Essa consente di leggere le tracce della storia, di comprenderne la forza generativa e di trasformarla in conoscenza viva, capace di parlare al presente e di orientare il futuro.

Ogni progetto che ambisce a essere autenticamente scientifico e resiliente, deve partire dalla consapevolezza che nessuno sguardo è sufficiente da solo, ma che proprio nell’armonia dei punti di vista si trova la vera energia della ricerca in forma di ventaglio e non di un tunnel con una stella nel buio profondo.

Vero resta lo stato di fragilità in cui versano oggi gli oltre cento Katundë arbëreşë, la realtà storica e culturale che, per essere intesa come luogo egocentrici di studio e di memoria, perché considerato campo di semina fioritura e raccolto dei privilegiati di ricerca, formazione e tutela identitaria della minoranza diasporica.

Al contrario, ciò che emerge attualmente è un quadro complesso, spesso critico, in cui la tradizione sopravvive più per inerzia comunitaria che per una visione condivisa o istituzionalmente riconosciuta, vedi legge 482/99.

Infatti la condizione contemporanea appare talvolta persino peggiore rispetto a quella che, in epoche passate, bussava alle porte dell’emigrazione e, mentre in quell’epoca storica la diaspora fu una necessità inevitabile, oggi assume una forma più sottile e per certi versi più pericolosa, perché non sempre riconosciuta come tale, mancando sin anche un Giorgio condottiero.

In assenza di una chiara definizione degli orizzonti europei e, di una cornice culturale che comprenda pienamente il ruolo dell’Unione come tutela della pluralità linguistica/storica, si è dato avvio a una diaspora consuetudinaria, lenta silenziosa o a dir poco ambigua.

Non si tratta più della diaspora drammatica e manifesta, che spezzava le famiglie e svuotava i paesi in maniera evidente, infatti oggi è una dispersione discreta, talvolta invisibile, alimentata da processi di omologazione culturale e, da un progressivo indebolimento della coscienza comunitaria.

Si emigra non solo fisicamente, ma anche mentalmente e simbolicamente, nel mentre le radici si fanno fragili, la lingua rischia di diventare un frammento residuale di memoria, e gli echi di credenze e pratiche tradizionali finiscono con l’apparire sempre più come elementi folklorici, non pienamente riconosciuti nella loro portata storica per la sostenibilità identitaria.

Questa condizione presenta tratti inediti nel susseguirsi di eventi e, la diaspora attuale non è dichiarata, né programmata, ma il risultato di un processo graduale che disorienta, il divenire della continuità tra generazioni, di un indebolimento culturali locale, in assenza di una strategia condivisa di salvaguardia.

Ciò che un tempo era il cuore pulsante di un Katundë, oggi sembra ridursi a un residuo di tradizione, spesso evocato ma raramente compreso.

Si parla di identità, ma spesso senza strumenti per definirla; si parla di storia, ma senza luoghi in cui raccontarla e proteggerla, perché tutto è stato manomesso, si parla di artigianato e nessuno sa distinguere gli echi che li identificava.

Il rischio più grande non è solo la perdita di un tassello specifico, ma la perdita del senso di appartenenza, cioè di quella dimensione affettiva, simbolica e comunitaria che fa di un luogo un mondo solido, fatto di tradizione che segna un inizio nel corso del tempo.

Per comprendere la portata del problema, occorre leggere i Katundë arbëreşe come la Napoli che si presenta solo nei tasselli greco e romani, fatta soli di stenopoi e plateai, considerandoli gli archivi viventi della memoria e, questo secondo Francesco Saverio Bruno era colpa della mancanza di cooperazione locale.

Infatti, Napoli dalla via Furcillense sino al mare, come i Katundë arbëreşë collinari non sono solo centri etnici, ma veri e propri laboratori di storia, in cui si intrecciano memoria Greca, Balcanica, Alessandria e di tutto il Mediterraneo, per allestire prospettive di cittadinanza europea allargata e fraternamente condivisa.

Tuttavia, la mancata valorizzazione di questi luoghi ha generato un vuoto epistemologico, giacché, non esistono spazi di ricerca strutturati, non esiste una rete sistematica tra comunità, università e istituzioni, che possa renderli non solo luoghi della sopravvivenza ma luoghi del pensare.

Senza un progetto condiviso, il rischio è che la storia venga ricordata solo come un capitolo concluso, anziché come processo vivo da restituire al presente e tramandare per il futuro.

La sfida oggi non è soltanto quella della preservazione, ma del rivitalizzare e, solo così, si può veramente parlare di tutela instaurando o pianificando un progetto di dialogo con le tipicità e le tradizioni di luogo, per poi fare le domande del presente.

A tal fine servono nuove metodologie, nuovi centri di studio, organizzati secondo il progetto della cultura partecipata, sostenuta da una didattica capace di rendere visibile ciò che oggi è ancora disperso o magari depositato incoscientemente in un cassetto antico che è di chi ha partecipato a un determinato frangente storico.

Per questo, la città come Napoli o i piccoli centri della regione storica diasporica, non devono diventare musei della memoria, ma officine di identità o, luoghi di studio, di formazione, di scambio culturale e di progettazione europea per formare nuove generazioni.

Solo in questa prospettiva, la diaspora moderna non dovrebbe essere vista come destino inevitabile, ma come punto di osservazione privilegiato per comprendere le criticità del presente e avviare percorsi di ricomposizione comunitaria e culturale.

In conclusione, ciò che manca oggi non è soltanto la volontà politica o istituzionale, ma prima ancora una coscienza unitaria della storia, capace di superare le frammentazioni locali e di comprendere che l’identità non può essere custodita in solitudine: essa vive e prospera solo nel dialogo, nella ricerca e nella capacità di riconoscere il proprio valore all’interno del più ampio orizzonte europeo.

Occorre dunque restituire alla capitale e a tutto il suo regno, la dignità che offrono i centri di studio, non per nostalgica conservazione, ma per una rinascita culturale che renda visibile al presente la forza di ciò che il passato ha consegnato ai nostri padri, i quali con saggezza hanno saputo stendere alla luce del sole.

 

Atanasio Arch. Pizzi – A.R.S.A. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)

Napoli 2025-11-28 / venerdì

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