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IL CONSOLIDAMENTO CHIMICO: UNA TECNICA CONSERVATIVA PER I MATERIALI LAPIDEI

Posted on 17 dicembre 2011 by admin

AVELLINO (di Alessandro Vitale) – II consolidamento chimico dei materiali lapidei è una tecnica conservativa che nel tempo ha trovato sempre più numerosi cultori e sostenitori. Esso consiste nell’impregnare il manufatto per assor­bimento o per spennellatura con un prodotto fluido e penetrante, capace di svolgere la sua funzione una volta permeato all’interno del materiale.

La capacità di penetrare è una proprietà oggi ricono­sciuta prioritaria rispetto ad altre che un prodotto di questo tipo deve pur possedere per essere considerato consolidante.

Tant’è vero che negli ambienti scientifici interessati alla conservazione dei ma­teriali si sta sempre più affermando come tematica di ricerca la diffusione e la permeazione dei liquidi nei solidi.

L’esigenza di conoscere la dinamica dei fluidi all’interno dei materiali lapidei nasce dalla concezione di questi come aggregati di particelle tenute insieme da una fase cementante. Ciò si verifica certamente per diversi materiali utilizzati nell’edilizia storico-monumentale, quali, ad esempio, il marmo saccaroide, il tufi vulca­nici a matrice zeolitica, le arenarie, la pietra serena e la pietra forte.

Il marmo è infatti costituito da granuli di calcite, legati tra loro con un cemento calcareo; il tufo è un conglomerato di materialipiroclastici, trasformati per diagenesi in buona parte in zeoliti e le­gati insieme da un cemento silico-alluminatico amorfo; la pietra serena è costituita da granuli di quarzo e di feldspato tenuti insieme da minerali argillosi; la pietra forte, infine, è costituita da granuli di silicati e carbonati cementati da calcite.

In questa ottica la disgregazione di un materiale è il risultato di un complesso fenomeno a danno eminentemente del “cemento” del materiale.

Ed il consolidamento ha appunto lo scopo di rendere tale cemento meno esposto all’azione di agenti chimici e/o fisico­meccanici, attraverso un’azione coesiva, che non abbia tanto la fun­zione di impedire la perdita di particelle superficiali decoese, ma piuttosto quella di rendere coesi gli strati più interni del materiale.

La storia del consolidamento dei materiali lapidei è in realtà la storia dello sviluppo di una sensibilità nei confronti dell’architettu­ra storico-monumentale o anche la storia della trasformazione delle tecniche di conservazione nella scienza della conservazione.

Tutto que­sto nell’ottica di una rinnovata attenzione, secondo la “filosofia” di Ruskin, per l’opera così com’era stata concepita dall’autore.

Sin dall’epoca romana (o forse anche prima), per più di duemila anni, i prodotti usati per conservare il costruito sono sempre stati prodotti che, preparati per altri scopi, venivano adattati alle esigen­ze specifiche.

A partire dal 1960, all’incirca, la grande industria ha cominciato a rendersi conto che la conservazione dei materiali di interesse nell’ambito dei beni culturali era non solo un atto dovuto nei confronti delle generazioni future ma anche un settore di rile­vante interesse economico.

Nel contempo il mondo della ricerca ha trovato validi motivi tecnico-scientifici per occuparsene.

È così che la gamma dei prodotti utili nel consolidamento chimico si è allar­gata e arricchita di prodotti più specifici, meno rischiosi e già testati nelle situazioni più disparate.

Uno dei primi esempi di trattamenti di conservazione in epoca romana è quello, desunto da fonti classiche e riportato da Torraca, secondo il quale tracce di vernice organica sono state trovate sulle pietre tombali policrome di Pagase (in Tessaglia, sulla costa dell’omonimo golfo) con evidenti scopi protettivi, più che di con­solidamento.

In epoca medievale per legare tra loro frammenti di marmo o per riempire grosse cavità è stata usata polvere di marmo miscelata con cera e colofonia.

Dal 1800, con lo sviluppo della chimica, si sono presi in consi­derazione prodotti sintetici che, funzionando a mo’ di adesivo nelle fratture o crepe dei materiali degradati, potessero restituire ad essi l’aspetto compatto originario. In quest’ottica la prima sintesi realiz­zata è stata quella dei silicati alcalini, per quanto tracce di questi siano state trovate già nel 1500. Nel 1883 fu la volta dei sali dell’aci­do fluosilicico, proposti da Kessler, i fluosilicati di magnesio e di zinco, e all’inizio del novecento, quella degli esteri silicici, il più diffuso dei quali è stato ed è il silicato di etile.

Tutti questi prodotti sono stati essenzialmente impiegati come cementanti per materiali calcarei, funzione, questa, svolta dal gel di silice prodotto per idrolisi o per reazione con il carbonato di calcio.

Esistono comunque dei limiti all’uso di questi prodotti, in particolare, per i silicati il limite è la formazione di idrati alcalini solubili, che sotto l’azione dell’anidride carbonica dell’atmosfera si trasformano in carbonati solubili, che in seguito ad evaporazioni e cristallizzazioni for­mano efflorescenze biancastre.

All’inizio del novecento un altro prodotto inorganico che si è affermato è stato l’acqua di barite, riconosciuta poi come idrossido di bario.

Questa ha trovato il suo impiego ottimale nel consolida­mento dei materiali calcarei, in quanto, reagendo con il carbonato di calcio, fa precipitare al loro interno carbonato di bario, insolubi­le e perfettamente compatibile con i materiali trattati.

L’idrato di bario si rivela efficace anche in presenza di solfato di calcio, spesso presente nei calcari come impurezza, in quanto fa precipitare il sol­fato di bario non più soggetto a successivi fenomeni di solubilizzazione e riprecipitazione.

L’unico neo di questo consoli­dante è il rischio dell’insorgenza di efflorescenze biancastre, come avvenuto per il Putto in marmo del Museo di S. Marco a Firenze (in realtà per lo più è stato usato per il consolidamento di opere pittoriche).

L’avvento delle resine nel campo del consolidamento chimico dei materiali lapidei è stato visto da più parti come il toccasana universale. Purtroppo non è stato così.

Addirittura alcuni interventi hanno prodotto più danni di quanti dovessero recuperarne.

Questo non solo ha imposto un freno all’uso smodato delle resine, ma ha sollecitato il mondo scientifico a ricercare le cause dei danni pro­dotti, richiamando l’attenzione sulle incompatibilità che possono sorgere tra i materiali interfacciati e sulle patologie cui sono sogget­te le resine una volta esposte agli atmosferili.

Caduta, dunque, l’ipotesi del toccasana universale, è insorta la necessità di una conoscenza più puntuale dei materiali coinvolti in un intervento conservativo. In particolare è maturata l’esigenza di utilizzare solo prodotti specifici per la tipologia di intervento.

E, dato che i materiali dell’edilizia sono di natura inorganica, è risulta­to naturale il ricorso a prodotti consolidanti inorganici, pur non trascurando certe caratteristiche positive dei consolidanti organici.

I consolidanti inorganici svolgono la loro azione precipitando dei prodotti cristallini all’interno dei pori e tra le particelle decoese, quelli organici agiscono rivestendo l’interno dei pori e le particelle decoese con un film trasparente.

Quest’ultimo può anche rivelarsi un ostacolo non da poco alla traspirazione del materiale, sebbene modulando le concentrazioni e selezionando resine di opportuni pesi molecolari è stato sempre possibile ridurre al minimo tali problematiche.

Una caratteristica importante dei prodotti organici è che essi di solito, insieme alla funzione consolidante, ne esplicano anche una protettiva per la presenza di lunghe catene alchiliche intrinsecamente idrofobiche.

Questo in parte giustificherebbe la loro grande dif­fusione, nonostante i molteplici fenomeni di degrado cui sono sog­getti gli stessi gruppi alchilici, dall’ossidazione all’ozonolisi.

In definitiva, la scelta del consolidante non può che discendere da una conoscenza approfondita dei materiali e del loro stato di degrado.

Dei materiali, nota la composizione mineralogica, è fon­damentale accertare lo stato di porosità, indipendentemente dal fatto che essa sia intrinseca o sia solo il sintomo di una condizione di degrado.

Altrettanto opportuno è conoscerne i comportamenti ri­spetto al calore ed all’umidità.

Da queste conoscenze per la maggior parte dei materiali lapidei è già possibile individuare nella gamma dei prodotti inorganici disponibili quello più affine e la migliore tecnologia con cui intervenire.

In riferimento ai materiali con matrice zeolitica, come il tufo giallo napoletano, la soluzione al problema del consolidamento può essere suggerita dalla capacità di scambio ionico di questi silico-alluminati a bassa compattezza.

È possibile, ad esempio, consolida­re il tufo giallo napoletano precipitando all’interno dei suoi pori e tra le particelle decoese della calcite cristallina mediante preventivo scambio dello ione calcio con lo ione sodio delle zeoliti presenti nel tufo.

Ciò è stato realizzato trattando il tufo giallo napoletano, a prevalenza di cabasite, secondo la seguente procedura. Inizialmente il materiale è stato trattato con nitrato di calcio onde arricchirlo di ioni calcio. Successivamente è stato ripristinato lo ione sodio nella struttura zeolitica attraverso un trattamento con alluminato di sodio.

L’idrolisi alcalina subita dallo ione alluminato ha determinato le condizioni per la precipitazione dello ione calcio come idrossido. In una fase successiva, un trattamento in corrente di CO2 ha accele­rato la trasformazione dell’idrossido di calcio nel corrispondente carbonato, che costituisce il cemento della pietra di materiale zeolitico ammalorata.

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