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LE CARENE DI PIANETTE

Posted on 01 marzo 2014 by admin

ARBERIA MADENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Dovessi trarre le conclusioni e depositare un briciolo di certezze sugli arbëreshë secondo le teorie degli eminenti cultori, il risultato più ovvio cui  addivenire sarebbe che i minori non sono mai esistiti, anche se in consistenti macchie del territorio del sud Italia, una lingua alloctona pur si parla.

La spasmodica ricerca di un filone nobiliare, l’irrequietezza di dover cercare il documento archivistico e bibliografico dove sia testualmente trattato ogni tipo di argomentazione ha reso la storia dei minori, fragile, labile e ordinata secondo il vento che soffia.

Una comunità che si è affidata esclusivamente nella “sola” forma orale, quali verità può aver conservato nei meandri degli archivi o nei trattati della storia se non un personale punto di vista dello scrivano di turno, che non faceva certo gli interessi dei poveri e ignari esuli analfabeti.

Un popolo chiuso all’interno dei propri ambiti di famiglia allargata, non sapeva né leggere e né scrivere, cosa può aver lasciato nei grandi testi archivistici se non le capitolazioni unilaterali, che di conseguenza non sono state mai rispettate perché non comprese.

È chiaro che fare ricerca in maniera errata e per opera d’inesperti raccoglitori ha prodotto tante imprecisioni, che non si allineano neanche agli eventi più elementari della storia italiana.

Un esercito fatto di Agricoltori, Manovali, Farmacisti, Pensionati, Prelati, Calciatori, Barbieri, Ortolani, Pescatori, Carpentieri, Precari, rappresenta una scolaresca disomogenea che solamente la guida di un buon maestro poteva rendere proficua attraverso la formazione di gruppi di lavoro, ma la caratteristica egocentrica dei minori, non ha mai lasciato spazio a utopie simili.

Purtroppo il modo di operare nell’ombra immaginando di produrre chissà cosa ha reso ancor più buia la genuinità delle gesta minoritarie.

Il patrimonio culturale arbëreshë è depositato all’interno del perimetro dei piccoli paesi, è li che va ricercato, i katùndi contengono ogni piccolo frammento, per questo devono essere protetti e tenuti vivi in quanto archivi-librerie a cielo aperto, pagine di storia che si materializzano nelle strade, nelle piazze, nelle case, nelle chiese e in ogni piccolo frammento leggibile, purtroppo,  solo per esperti e titolati ricercatori.

Sono stati molti gli avventurieri che hanno provato a cimentarsi in questa difficilissima disciplina producendo gravi danni, perché hanno divulgato materiale scrittografico che è stato introdotto nei circuiti della diffusione libraria, senza avere scrupolo delle ferite che essi e gli amministratori avrebbero inflitto al patrimonio materiale e immateriale manomesso.

Questo è un danno biologico che tutta la comunità arbëreshë ha subito, se non si pone rimedio all’inadeguatezza storica, urbana, architettonica, religiosa, consuetudinaria e folcloristica degli ambiti albanofoni, avremo un decadimento che conduce inesorabilmente all’estinzione entro il decennio in corso.

Quanto detto, trova conferme nelle manifestazioni, negli appuntamenti storici della tradizione minoritaria e in maniera più clamorosa nella realizzazione della meglio identificabile Carene di Pianette .

Non è concepibile che con tanta facilità si possa vendere per minoritario albanofono la realizzazione di un intero paese di chiara matrice algerina (Vedere Touggourt Oase) o indagare negli ambiti del versante calabrese della mula, accompagnati da figure mitiche egiziane (lo scriba, il traduttore e il medico condotto), questo modo di produrre architettura arbëreshë, offende la cultura dell’etnia che fonda le sue radici nella sola  forma oral-consuetudinaria.

Ritengo che personaggi alloctoni non possano dare lezione di gjitonia, immaginando che ponendola come titolo di un progetto, possa addormentare le nostre menti; che fino a prova contraria, sono tra le più preposte a ricordare e produrre modelli che vivono in Italia dal XV secolo e che appartengono al patrimoni genetico delle genti di matrice balcanica.

La gjitonia, “dove vedo e dove sento”, intesa dagli alloctoni come il luogo dove vedo e dove sento, è stato interpretato, a torto, come un luogo fisico riconducibile a una piazza a una strada o  spazio toponomizzato, nulla di più errato poteva avere interpretazione, giacché, la gjitonia è il luogo dei cinque sensi e di solidissimi sentimenti; essi non sono riconducibili a un luogo fisico ma solamente ai valori personali e interpersonali: è spontaneo chiedersi che cosa volevano inventare i progettisti delle Carene di Pianette, depositando all’interno del manufatto urbano le Gjitonie?

Queste inesattezze, comunque, vanno anche ricercate tra le pieghe della legge 482 del 1999, che invece di favorire la ricerca dei veri elementi attribuibili ai minoritari, ha innescato il movimento delle grandi masse migratorie verso gli archivi e le biblioteche dove l’attività principale si è rivelata essere stata quella di setacciare i fiumi di documenti alla ricerca della pepita perfetta da brandire, dissociandoli così dal territorio.

È opportuno che si ponga rimedio a tutto ciò al fine di non ricadere nell’incauta esperienze dove si è cercato di mercanteggiare un prezioso cameo, con uno nuovo, fatto di materiali sintetici, che sottoposto all’esposizione degli eventi naturali, non darà il benessere atteso.

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Commemorazione dei defunti 2014

Posted on 22 febbraio 2014 by admin

BENEDIZIONE DEL GRANO ALL'APERTO 2014SANDEMETRIO CORONE (di Adriano Mazziotti) – Commemorazione dei defunti all’insegna della tradizione e del rinnovamento. Nei rioni via Termopili e Croci la benedizione del grano bollito in suffragio dei defunti da parte del parroco è avvenuta per la prima volta all’aperto. Oltre a preparare il tradizionale desco imbandito dei simboli sacramentali propri della suggestiva cerimonia, quali la bottiglia di vino,  due pani  e i collivi, i residenti dei  due rioni  hanno amorevolmente esposto le foto dei propri cari scomparsi di recente e molti anni or sono. Una benedizione collettiva. Molto sentita, velata da profonda tristezza e palpabile commozione nel ricordo delle  tante persone che hanno lasciato questo mondo per sempre. Un vortice di emozioni per  i pochi residenti rimasti e per chi è cresciuto nel microcosmo della gjitonia di una volta, fatto di forte socialità e condivisione, saldi vincoli amichevoli e di solidarietà reciproca.     

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KAIVERICI I VJETER UNA LEZIONE DI GJITONIA

Posted on 02 febbraio 2014 by admin

KAIVERICI UNA LEZIONE DI GJITONIA NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’enciclopedia Treccani descrive gli Stati Generali come l’assemblea dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati (clero, nobiltà e ‘terzo Stato’, ossia la borghesia), prima della Rivoluzione nel Regno francese.

Volendo accumunare questi sostantivi agli albanofoni odierni, sarebbe identificabile rispettivamente nel clero, nei letterati e nei cultori.

Tutti uniti dal legame di sangue albanese, per esaltare i propri diritti della Legge del 15 Dicembre 1999, n. 482,che ha moltiplicato come per miracolo storico il numero dei grecanici a scapito degli albanofoni, così anche quando si promuove il ricordo di luminari o  la realizzazione di sagre ed eventi tra i più disparati; in questi casi  pronti a dare battaglia sotto la bandiera bicipite, in favore dei valori caratteristici della minoranza.

Purtroppo lo stesso entusiasmo e gli stessi principi, con molto dispiacere, nei giorni scorsi  non li ho riscontrati nel leggere le relazioni della conferenza di servizi che ha riunito i vertici della regione Calabria, della Provincia di Cosenza e del Comune per la delocalizzazione del centro albanofono di Kaiverici i vjeter.

Dalla diffusione della notizia dell’evento franoso, alla realizzazione del progetto, sono trascorsi oltre otto anni, nessuno degli Stati Generali, Associazioni, Proloco o liberi movimenti atti alla valorizzazione delle pertinenze albanofone, ha sprecato una parola, nonostante gli organi di informazione e i prodotti messi a stampa ci informavano che c’èra la volontà di costruire un intero paese albanofono, delocalizzandolo dal suo vecchio sito, depositando al suo interno la Gjitonia (?) e non una ma, addirittura, cinque (?).

A questo punto due sono le domande che è legittimo porsi; o nessuno ha consapevolezza di che cosa sia la gjitonia; oppure la volontà di difesa e valorizzazione delle pertinenze è solo un sentimento platonico.

Vero è che tanti arbëreshë, quanto si contano nelle dita di una mano, sono stati costretti, nonostante minoranza linguistica, ad addossarsi la croce sostenendosi esclusivamente negli ideali arbëri, depositati nel loro piccolo agglomerato da cui erano stati allontanati.

Oggi nonostante una sentenza abbia dato a loro ragione, i perseguitati albanofoni, rimangono ancora da soli e nessuno supporta le loro ragioni che affondano le radici in quei dettami identici a quelli di tanti paesi minoritari della Calabria, della Sicilia, del Molise della Puglia e di Lucania, che potrebbero vivere lo stesso trauma sociale.

Da nessuna di queste regioni i discendenti del Kanun o dei Koronei ha soffiato un alito di vento a sostegno dei valorosi abitanti di Kaiverici i vjeter.

Questi ultimi rappresentano l’esempio moderno della vera arberia, armati di una grande forza di volontà hanno difeso la storia di noi tutti (per coloro che non lo sanno, questa è l’originario significato della gjitonia), salvaguardando il modello sub urbano arbëreshë e non solo.

I valori di appartenenza sono gli stessi che nel quattrocento indussero il Kastriota alla guida del piccolo esercito di Albanesi a impartire dure lezioni a chi metteva a rischio gli stessi principi della fratellanza albanofona.

http://www.amatelarchitettura.com/2014/01/cavallerizzo-la-legge-e-legge-ma-solo-se-ce-la-deroga/comment-page-1/#comment-5672

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QUALE RECUPERO DELLA TRADIZIONE?

Posted on 25 gennaio 2014 by admin

ConseguenzaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Conseguentemente ai palesi, ma non ancora del tutto redenti, errori nell’utilizzare in modo improprio il patrimonio minoritario, si cerca di rime­diare ripiegando l’interesse verso proposte all’insegna del recupero della tradizione.

Due termini antitetici di cui a ben vedere: il Recuperare, esprime le gesta del rivitalizzare, rimettere in funzione o semplicemente rispolverare ciò che è stato dismesso; la Tradizione invece è il filo ininterrotto che unisce le conoscenze al passato, senza soluzioni di continuità.

Come si può recuperare la continuità storica, se coloro che la devono salvaguardare, non sanno riconoscere le azioni delle esperienze tramandate dissociandole dalle aliene contaminazioni?

Il recupero, segna il cambio di tendenza e di gusto individuabili nel:

–          Determinarsi di una nuova etnia che è interessata non più a sé stessa, ma al fenomeno;

–          Deter­minarsi di un nuovo concetto di storia distaccata dal passato e che traccia il trapasso da storia-racconto a storia-problema;

–          svilupparsi dei nuovi processi sociali legati alle innovazioni tecnologiche.

Ora, mentre l’ultimo punto è senz’altro chiaro, molti più dettagli occorrono per comprendere gli altri due.

Il termine tradizione deriva dal latino e significa consegna di una cosa ad altri, e quindi anche trasmissione attraverso il tempo di nozio­ni e ricordi, in forma raccontata e vissuta, come avviene per le minoranze nel meridione.

La consegna di un’eredità consuetudinaria, come nel caso degli arbëreshë, implica, la contemporanea pre­senza di chi riceve e chi da; il racconto orale, non può avveni­re altrimenti, che con la partecipazione all’azione vivendola e raccogliendone tutti gli aspetti caratterizzanti.

Chi narra è sullo stesso piano di chi ascolta: entrambi usano lo stesso linguaggio, entrambi partecipano al fatto, entrambi possono provare e riprovare ciò che hanno appreso perché i mezzi, le gesta e il fine a loro disposizione è comune.

Questo indica palesemente quali siano stati i precursori principali, del secolo scorso, che hanno dato avvio al processo di degrado del modello sociale legato alla consuetudine.

La tradizione, allora, implica contatto diretto tra chi tramanda e chi apprende il processo, affinché vada a buon fine, richiede che le due sfere coinvolte appartengano all’etnia, parlino la stessa lingua e abbiano cognizione dei dettami di patrimonio.

La tradizione non è altro che la trasmissione dell’espe­rienza, vincolata a regole ferree, per cui l’attendibilità del messag­gio e regolata dall’appartenenza del comunicatore e dell’ascoltatore, il buon fine delle consegne da tramandare, avviene se il maestro che trasmette il messaggio e l’allievo che ascolta si prefiggono comuni intenti.

Appare evidente che il sapere ha una diffusione lineare, da padre in figlio, senza intromissioni o ricerche di conferme è cosa ben diversa lo sperimentare, che per aver valore, ha bisogno di essere condivisa perché non è attendibile.

Stando a queste inconfutabili interpretazioni, la tradizione ha avuto una prima aggressione proprio dalla diffusa sperimentazione, legato, poi, al discorso della divulgazione che è racchiuso nella seconda affermazione; il passaggio da storia-racconto a storia-problema.

Il passaggio dell’esperienza all’esperimento implica anche un largo coinvolgimento di soggetti ammessi a parteci­pare alla narrazione attraverso il racconto scritto, in cui tutti possono prendere parte al  evento di sperimentazione, non come attori, ma come spettatori e quindi l’idea moderna di storia basata sull’oggettività del fatto.

E per rag­giungere tale livello di obiettività è necessario presupporre un distacco dall’evento descritto, una non partecipazione a esso.

La trasmissione di questi saperi sono per lo storico come dei fenomeni, con la nuova idea di storia, non interessano la cose, ma gli effetti.

La storia continua a esser fatta di racconti, ma l’oggetto della narrazione non è più l’evento vissuto in prima persona, piuttosto è il fatto, il documento.

La storia è la forma scientifica di memo­ria collettiva, ciò vuol dire, che una cosa è il dato materiale, un’altra è il racconto che scien­tificamente è redatto per produrre testimonianza imperitura.

Va oltremodo affermato che il passaggio di consegne da una generazione a quella successiva avviene sia per gli ambiti materiali che per quelli immateriali, due aspetti inscindibili e univocamente commessi gli uni dagli altri.

Stando a questo dato fondamentale, infatti, non avrebbe più senso parlare di conservazione del manufatto in senso generale o salvaguardarne il dato documentale o narrativo; tutela fisica del manufatto, ma anche adoperarsi a proteggere il dato, documentale.

Purtroppo riguardo queste condizione si cerca di ottenere molte notizie e riempire gli archivi, le biblioteche, con monumenti di carta, fotografie e incomprensibili prodotti scrittografici, prestando in questo modo il fianco ai restauri moder­ni utilizzando in maniera incauta, metodiche non in linea con le abitudini locali.

A che serve allora conservare il dato narrativo se poi il monumento, la strada o l’anfratto, sono oggetto delle più clamorose e anomale manomissioni?

Basti pensare ai restauri condotti durante tutti gli anni Ottanta con la sostituzione di parti degradate di edifici, con materiali seriali di produzione industriale, impiegati come panacea a qualunque tipo di causa ammalorante, producendo in questo modo la perdita di una moltitudine di soluzioni storiche e quindi anche della perdita del significato materico, architettonico  e strutturale.

Un esempio per tutti, che poi è quello più appariscente, s’individua nell’utilizzo dei nuovi intonaci derivati da sintesi industriale.

La diffusa pratica, ogni volta che si è intervenuto su di un manufatto, ha prodotto lo scarnificare degli strati d’into­naco a calce esistente, sostituiti con intonaci cementizi, con la relativa stesura superiore di tinte al quarzo o ai sili­cati, provocando danni irreparabili alla stessa statica degli edifici, in quanto l’alieno strato di intonaco non ha permesso alla muratura sottostante l’idonea traspirazione, di conseguenza, l’umidità in esso contenuta ha dato avvio al processo di ammaloramento del nuovo intonaco e il distacco della pellicola di pigmento.

Gli esempi messi a frutto negli ultimi decenni sono tanti e molte volte hanno messo a rischio la statica degli stessi edifici che in apparenza possono sembrare in ottimo stato, ma nelle parti più intime della statica e del loro valore storico sono stati gravemente compromessi.

La tendenza delle istituzioni e specialmente nel meridione, cerca di imporre modelli di nuova concezione che diano almeno conforto alla statica degli edifici storici, ma la piaga prodotta è troppo devastante, per cui si preferisce sottacere, augurandosi che non accada mai quello che hanno visto protagoniste le murature d’Abruzzo, nell’evento sismico del 2009 quando le nudità murarie orizzontali e verticali ha messo in evidenza quanta e quale incoscienza era stata operata in quegli ambiti.

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Protetto: L’ARBERIA OGGI: DISCORSO SULLA SOSTENIBILITÀ ETNICA (nëng qëndroi faregjë)

Posted on 12 gennaio 2014 by admin

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Protetto: UNA LIBRERIA INCASTONATA TRA I PERSONAGGI IN TERRACOTTA A VIA SAN GREGORIO ARMENO 4

Posted on 10 novembre 2013 by admin

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Protetto: REGIONE ARBERIA ULTIMO BALUARDO PER LA MINORANZA

Posted on 27 ottobre 2013 by admin

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FOLKLORE E IL SUO SIGNIFICATO.

Posted on 31 luglio 2013 by admin

Napoli ( di Atanasio Pizzi) – Il termine Folklore è usato da molti per indicare esclusivamente quelle rievocazioni recenti (spesso arbitrarie) di antiche feste cittadine in cui fanno sfoggio gruppi che cantano e danzano.

I programmi  si basano su testi poetici e musicali elaborati da maestri che li istruiscono secondo gusti che si affidano alla preparazione storica e critica di una diffusa insufficiente valutazione della importanza del Folklore.

Il termine comparve la prima volta il 22 agosto 1846 unendo due parole antiquate e di origine sassone: folk= popolo, e Zore=sapere, che letteralmente tradotto vuol dire, sapere del popolo, e rappresentano l’insieme delle cognizioni e forme di vita tradizionale proprie delle classi popolari.

In Italia per un certo periodo fu usato dagli studiosi il termine demo­psicologia, sostituito poi con demologia: ma il termine che ormai si è imposto e a cui si deve un patrimonio inestimabile di valori pratici, etici, estetici, è quello di Tradizioni popolari.

Attività spirituale delle collettività, la quale crea, conserva, tramanda e rinnova la vita sociale e culturale oltre alle tradizioni che si dimostrano utili e congeniali alle collettività stesse, mentre elimina quelle che non si riconoscono come proprie.

Affinchè essa si realizzi occorre che un costume, una credenza, un canto, un proverbio, siano accolti e diventino la regolai di un numero più o meno grande di individui, si conservino nel tempo per una durata più o meno lunga e si diffondano nello spazio o area che talvolta si estende a regione storica.

Altro elemento è il tono psicologico di semplicità, di primitività che agevola l’assimilazione da parte delle classi popolari.

Il termine è assimilabile non ad una regione geografica, bensì a quella storica, che avvicina usi che risiedono nella cerchia delle classi popolari minori estese, basti pensare agli usi natalizi, nuziali e funebri, alle principali feste dell’anno o anche alle superstizioni, ai proverbi e così via degli arbereshe d’Italia.

Quanto al contenuto del Folklore e delle sue manifestazioni, rimangono tuttora valide, favole, racconti, leggende,  proverbi, motti, canti,  melodie, enigmi, indovinelli, spettacoli, feste, usi, costumi, riti, cerimonie, pratiche, credenze, superstizioni, tutto un mondo palese ed occulto di realtà e di immaginazione che si muo­ve e si agita, sorride, geme a chi sa accostarvisi e comprenderlo.

La scoperta del mondo popolare ebbe la sua prima divulgazione in Italia, a interessi artistici e letterari, attraverso le figure, scene di vita rustica o anche di Folklore cittadino già dal Cinquecento.

L’attenzione di pittori e incisori che ne fecero soggetto dei loro quadri e delle loro calcografie, in seguito vennero gli interessi scientifici di questa materia, con piena coscienza del suo valore documentario e culturale, si afferma con l’interesse napoleonico (1809-1811), per tutto il Regno centro-meridionale, su dialetti, costumi e l’indole delle popolazioni.

I documenti di questa inchiesta, offrono già un quadro ampio, preciso e prezioso, del Folklore italiano nei primi dell’Ottocento e permettono, tra l’altro, di confrontare le tradizioni popolari di allora con quelle di oggi.

Anche le fogge di vestire fu­rono documentate con il Leopardi che compose a soli 17 anni, oltre ai numerosi riflessi di vita po­polare che si trovano in tutta la sua opera poetica e letteraria.

I primi a raccogliere i nostri canti popolari furono i romantici tedeschi, a cominciare dal Goethe, ma ben presto la partecipazione dei nostri letterati alla discussione e alla raccol­ta dei materiali, si andò affermando, specie per quanto riguarda la poesia popolare pubblica Atanasio Basetti nel 1824.

La raccolta e la valorizzazione della poesia popolare fu una delle componenti di prim’ordine per la formazione dello spirito nazionale durante il nostro Risorgimento e la migliore sintesi che il nostro Romanticismo seppe esprimere in questo campo.

Questa purtroppo è un’altra storia, che i precursori odierni del folklore minoritario forse ignorano, giacché, attratti da inutili stereotipi.

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IL 14 LUGLIO, COMUNITÀ ARBËRESHË A CONFRONTO NELLA RIEVOCAZIONE STORICA DELLA “RETNES ARBËRI”.

Posted on 16 luglio 2013 by admin

SAN MARZANO (di Lorenzo Zolfo) – Per la prima volta nella storia di San Marzano (TA), centro arbereshe della Puglia, la più popolosa tra le comunità arbereshe sparse per il centro-Italia, con i suoi diecimila abitanti, tale da definirsi la “Capitale Arbereshe in Italia”, domenica 14 luglio si svolta la prima edizione della storica battaglia di Maschito (Pz) denominata  “RETNES”.  Le due compagnie d’arme del Capitano Stradiota Lazzaro Mathes di Maschito (PZ) si sono sfidate  nel centro di San Marzano (TA). E’ uno spettacolo con rievocazione storica della cittadina di Maschito in costumi e soldati Arbereshe e Greci di Corone. Entusiasti gli organizzatori pugliesi che hanno ritenuto questo evento una  delle manifestazioni più importanti della provincia di Taranto e l’intera Puglia, sponsorizzata dal  Comune di Maschito (PZ), Comune di San Marzano (TA), Regione Puglia, Basilicata Turistica, Meraviglia Italiana, Regione Basilicata, Gruppo Culturale San Marzano Turistica, Comitato Film e Spettacoli, Cosimo Di Maglie (promotore), Compagnie d’arme del Capitano Lazzaro Mathes di Maschito, Comunità Europea e tutte le testate giornalistiche e tv locali. Un evento, quello della Retnes prettamente arbereshe riproposta da alcuni anni dall’associazione culturale arbereshe di Maschito Compagnie d’Arme Lazzaro Mathes, presieduta dall’insegnante Elena Pianoforte il 5 e agosto e da pochi mesi questa rievocazione storica sta diventando itinerante per i paesi non solo arbereshe con lo scopo di mantenere viva la storia, la cultura e le tradizioni arbereshe del proprio paese. San Marzano, venuto a conoscenza di questo evento, ha voluto riproporlo ai propri cittadini ed i risultati sono stati positivi. Commovente è stato il momento in cui il banditore di questo gruppo ha annunciato, in lingua madre, l’inizio di questa festa arbereshe: “Onorevoli sanmarzanesi,uomini, donne e ragazzi, oggi domenica 14 luglio alle ore 20 facciamo una festa arbereshe nella piazza del Milite Ignoto. Venite tutti, vi aspettiamo”. La “Retnes”, non è altro che una rievocazione dell’origine di Maschito, fondato dai mercenari guidati dal Capitano Lazzaro Mathes. La Retnes, tra le manifestazioni maschitane è sicuramente la più antica ed interessante, risale certamente ai primi anni della nascita della cittadina (primavera del 1517) e commemorava la sua fondazione con una giostra di Stradioti. Alla luce di nuove ricerche storiche inedite singolari ed eroiche sul passato di questo centro arbereshe è stata organizzata, con minuziosità di particolari, sia nella realizzazione dei costumi, sia nelle armi tipiche nonché in tutti i dettagli di carattere storico, da alcuni anni, una rievocazione storica più vicina alla realtà della Retnes. Particolare attenzione è stata posta per organizzare i figuranti in due schieramenti che rappresentano le due etnie principali che fondarono Maschito: i Greci-Coronei ( che si insediarono nella parte nord del paese) e gli Albanesi-Scuterini (occuparono la parte sud del paese), i primi “Majsor” e secondi “Cndrgnan”, da sempre rivali per diversi motivi, anche futili, fino agli anni ’70. La conclusione, come nei migliori film, è piacevole, dopo la battaglia finale, segue la sfilata congiunta delle due fazioni al comando del Capitano Lazzaro Mathes dove la manifestazione si conclude con il giuramento di pace delle due fazioni. “La rievocazione della Retnes vuole essere un viaggio nella memoria per rinsaldare i vecchi legami con la storia e l’identità, un salto nel cinquecento tra colori,musiche,costumi, armi e cavalieri, per vivere l’emozione di essere trasportati nel passato” ha riferito Elena Pianoforte, presidente dell’Associazione Retnes. Presente a San Marzano anche Vincenzo Pianoforte, tra l’atro figurante ed ex amministratore di Maschito ed ideatore del gruppo storico Retnes: “ dopo i costumi maschili, il nostro prossimo obiettivo sarà quello di recuperare i costumi femminili. Dopo aver riprodotto per alcuni anni questa rievocazione storica a Maschito, da qualche mese sta diventando itinerante per i centri arbereshe d’Italia. Dopo Ginestra, altro centro arbereshe del Vulture, siamo stati ad Avigliano alla festa patronale di San Vito ”.

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IL SENSO DELL’APPARTENENZA

Posted on 05 luglio 2013 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – È un sentimento che caratterizza solamente alcuni soggetti di una determinata civiltà, l’innata indole contribuisce in maniera determinate a intuire quali siano i costumi originali evitando di incamminarsi verso oscuri sentieri.

Lo studio più idoneo generalmente è fatto esaminando non i migliori e i più suggestivi costumi, ma riconoscere quali siano i propri, degni di approfondimento e considerazione.

Ciò che non contiene e veicola modelli di appartenenza non caratterizza un popolo, una comunità o una minoranza, giacché solo gli animali sono inclini e attaccati ad imitare le cose altrui; mentre solamente quello che è proprio ed è radicato nell’ animo fa consolidare il senso dell’appartenenza.

Individuare esattamente i costumi propri, da quelli impropri, pone in piani differenti i soggetti che si possono classificare in uomini colti e barbarici.

L’analisi ideale progredisce comparando, la conoscenza delle caratteristiche morali, politiche, consuetudinarie sino a giungere alle forme dell’arte strettamente correlate con gli avvenimenti storici, sono questi gli oggetti di studio indispensabili, che contribuiscono a produrre un itinerario compiuto e privo di insane aberrazioni.

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