NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Per tipologia edilizia si intende la individuazione, la classificazione e la descrizione dei manufatti architettonici di determinate caratteristiche dimensionali, distributive ed organizzative..
Essi sono catalogati rispetto ad una identificata categoria intesa come quadro di esemplari a cui ricondurre o riferire edifici architettonicamente simili o considerati un modello spaziale di forma più o meno assoluta.
Le tipologie in genere vengono classificate sulla base di categorie funzionali determinando in questo modo paradigmi definiti o insiemi di proprietà comuni, individuate nelle specifiche spazialità architettoniche, nelle qualità formali che sono racchiusi nella stessa immagine distributiva.
Ogni tipo si sviluppa in uno spazio che è anche principio formale, espressione della sua stessa ragione d’essere, si ripete da un manufatto all’altro, costituendo in tal modo il carattere originale che ne permette la riconoscibilità anche nella forma urbanistica.
Un indagine eseguita utilizzando questi parametri consente di stabilire le affinità tra architetture che si realizzano in posti e tempi diversi, indipendentemente dai parametri di vantazione.
Un tipo quindi può essere individuato dalle sue qualità spaziali insite nell’aspetto architettonico, inteso non solo come paradigma funzionale ripetitivo, ma anche perché adotta le varie occasioni, diventando così la forma espressiva del manufatto.
Gli antichi agglomerati edilizi esprimevano attraverso la stessa architettura il loro stato, pur non essendo progettati in base a esasperazioni tipologiche, come è avvenuto per gli edifici moderni.
Per questo motivo infatti gli edifici minoritari o minori sono tipologicamente difficili da classificare, giacché le fabbriche, avendo un ruolo legato all’economia basato sulle aspettative agro-silvo-pastorali, erano ambienti polivalenti, specializzati in senso funzionale a molteplici attività, spazi razionali alle esigenze d’uso.
La prima stanza che non superava i 25-20 mq. (per esempio) doveva essere abbastanza grande da accogliere – in occasioni particolari -un congruo numero di persone, uno spazio adeguato a celebrare le lavorazioni e le attività consuetudinarie degli esuli.
Era la funzione che caratterizzava il manufatto, soprattutto in questo senso le architetture hanno raggiunto delle forme-tipo riconoscibili e identificabili con le rispettive funzioni, evolvendosi, con gli usi che si affinavano nel corso del tempo.
La forma del manufatto ha assunto una tale capacità espressiva che si configura nella crescita verticale rimanendo immutata nel tempo quella planimetrica che occupava il lotto disponibile, modificando il volume con i mutamenti d’uso.
Le chiese dei presidi minoritari hanno conservato la loro espressione, la forma edilizia derivata da esigenze liturgiche degli autoctoni, ma dopo la venuta degli esuli i quali avevano come riferimento il rito Greco Bizantino furono sovrapposte alle prime le vesti liturgiche appena gli albanofoni ebbero la certezza del loro definitivo allocamento.
La facciata di carattere ascensionale si riconosceva immediatamente come icona indicativa di chiari contenuti che si traducevano in fatti anche semplici, lo sviluppo verticale del prospetto, rosoni, campanili e l’impianto planimetrico a impronta della croce caricava di significati simbolici la fabbrica, l’esposizione a oriente, con la luce creava suggestioni mistiche filtrando attraverso le vetrate, con l’uso di colori ad evidenziare affreschi mistici, l’organo, il pulpito e l’altare con il segno del ciborio, marchiavano indelebilmente il perimetro interno del luogo di culto.
Dopo due secoli di permanenza degli esuli arbëreshë ancora non era stata istituita un ideale presidio idoneo a garantire l’adeguato ricambio generazionale dei prelati.
Solamente dopo la metà del XVII secolo e grazie alla famiglia dei Corsini, gli esuli, che del luogo di culto vedevano uno dei loro riferimenti principali, iniziarono ad apporre al loro interno elementi caratterizzanti che seguivano il rito, nuovi segni venivano depositati di chiesa in chiesa sino a renderle l’unica caratteristica ancora viva nei presidi minoritari.
Si tratta di forme distillate nel tempo in base all’esperienza, forme significative di un determinato ruolo, riconoscibili nel credo religioso arbëreshë.
In questo senso si potrebbero classificare tipologicamente opere che appartengono a mondi diversi, ma che sottendono una comune idea spaziale, legata alla concezione che solo fisicamente era stata abbandonata nel paese di origine.
Una qualità universalmente riconoscibile che lega le opere appartenenti a contesti culturali detti paralleli, una idea di spazio interno come principio teologico e tipologico capace di dare spazio a riti e modi di esprimere il proprio credo religioso senza intaccare i concetti per i quali questi manufatti furono edificati.
Gli edifici in genere si riconoscono come associati o isolati: i primi si aggregano in vari modi, legando il loro valore al contesto che li circonda, i secondi hanno una propria identità spesso autonoma o apparentemente dissociata dal contesto.
Nei paesi detti minoritari gli edifici isolati, palazzi padronali, chiese e altre fabbriche edilizie, stabiliscono caratteristiche particolari in quanto contengono o sono circondati da strade, piazze, aree a verde, non meglio identificate.
L’edilizia minore era costituita da costruzioni associate, tipi che si ripetevano similmente l’una a fianco all’altra, propagandosi come massa costruita, avendo caratteri riconoscibili: ogni casa è simile a quella vicina, e partecipa alla morfologia urbana, come ogni abitante è parte di una comunità, si riconosce in essa e assimila quei caratteri insediativi che vedono accumunarsi nella propria casa e a quella dei gjitoni.
Si configura il sistema di unità morfologica, in cui ogni unità abitativa condivide con quelle vicine il medesimo desiderio residenziale.
L’abitazione ben definita al suo interno, interagisce con gli altri, secondo criteri di solidarietà attraverso la scala architettonica e quella urbanistica definendo una coabitazione che lega le sue origini nell’antico ceppo della famiglia allargata.
La forma del tipo edilizio affida la sua identità ai modelli consuetudinari, essendo generatrici di morfologie urbane particolarmente pregnanti: la casa arbëreshë da origine al lotto nelle aree collinari del meridione, esempio di forma e tipologia abitativa ad immagine dalla particolare essenza consuetudinaria, strettamente connessa alla suddivisione particellare del suolo, configurazione basata su lotti irregolari dettati dalla orografia e dall’esposizione, non legati ad una regola ma ad una esigenza.
Il lotto si sviluppava secondo due tipologie identificabili in quella lineare o quella spontanea, sempre abbarbicate ai due parametri fisici, costituendosi schieramenti di piccole unità edilizie con tre lati ciechi in comune; case confinanti con abitazioni retrostanti oltre che con quelle adiacenti.
L’abitazione con ingressi e affacci apposti sullo stesso fronte, chiusa su tre lati, poteva avere la funzione di bottega, stalla o abitazione e in alcuni casi più antichi contenerle tutte. Le dimensioni del lotto condizionavano l’organizzazione della casa che nell’impianto originario si svolgeva solo a pianterreno, affacciandosi su piccoli cortili interni ricavati nella profondità del lotto; spazi bui, poco aerati senza uso di servizio; stretti vicoletti situati lungo i lati perimetrali che interrompevano il lotto e collegavano con le strade, fungendo da disimpegno ai collegamenti viari principali.
Queste originarie forme tipiche hanno perduto il loro significato in quanto la crescita del lotto in verticale ha prodotto un nuovo tipo edilizio e nuove forme architettoniche avendo assunto l’originario tipo edilizio le nuove variabili figurative.
Le tipologie si basano su categorie funzionali anziché formali, le nuove costruzione non si sono svincolate dai condizionamenti tipologici originari che sono rimasti incastonati all’interno dei nascenti modelli edilizi o Palazzi padronali, teatri rappresentativi di una storia minoritaria che sono depositate sulle facciate oltre che nei manifesti naturali interna.
Sono una traccia che dall’Ottocento viene manomessa nei prospetti, per dare spazio a superfetazioni, che consentivano ai vecchi edifici un nuovo utilizzo e accogliere le rinnovate funzioni dell’economia in crescita.
Le forme e i tipi comunque non hanno perduto il proprio carattere anche quando l’edificio è stato usato in modo diverso da quello per cui era stato pensato; ma è necessario ritrovare una funzione compatibile con gli spazi originari, individuandone i principi formativi, per restituire le dimensioni oltre alle forme tipiche, per un inserimento nei canali turistici.
Tutto ciò in considerazione del fatto che le caratteristiche di unicità del modello consuetudinario potrebbe fare tendenza in ambiti sempre alla ricerca di episodi singolari ed unici.