NAPOLI (di Atanasio P. Architetto Basile – Le soglie delle dimore Arbëreşë non erano di pietra o di solido materiale, ma passaggi o meglio varchi, carichi di significato, tracciate con mani attente per segnare il limite entro cui la vita familiare si consolidava.
Ognuna di esse racchiudeva la storia e la forza di chi abitava la casa, proteggendo la solidità dei legami, nutrendo la convivenza e custodendo la volontà di affrontare ogni avversità.
Varcare quella soglia significava entrare in uno spazio in cui la famiglia cresceva solida e robusta, in cui le radici affondavano profonde nel ricordo e la memoria degli antenati di cui erano intrise quelle mura, sempre pronte a riecheggiare senza clamori nell’animo delle generazioni future.
Nello sviluppo di questo discorso si vuole sottolineare l’essenzialità delle abitazioni dei nuclei insediatisi lungo la frontiera che divideva la diocesi di Rossano con quella di Bisignano, non discostandosi dalle altre li confinati, con l’utilizzo di case in adobe, costruite con terra e paglia, tetti modesti, muri spessi e silenziosi, nati non per ornamento ma per necessità.
Non per il lusso o gloria, ma per sfuggire al peso delle tasse, alle imposizioni di chi pretendeva di contare ogni vita, ogni pietra, ogni faticoso gesto.
In queste dimore semplici si legge la storia di un popolo che sa piegarsi al mondo senza spezzarsi, che sa difendersi senza alzare mura impossibili, che sa trasformare la precarietà in casa, e la casa in comunità, come tanti fili d’erba uniti da un filamento sottile che li rende solidi e indistruttibili.
E allora il ricordo va alla flottilla che solcò il mare adriatico dalla sponda dei Balcani, uomini e donne con occhi pieni di speranza, bambini stretti ai fianchi dei genitori, arrivi su coste sconosciute, e poi li pronta e subito, la salita verso le colline, il primo contatto con una terra selvaggia, ma generosa e pronta a germogliare abbracci.
Non hanno bisogno di alfabeti lontani, di zeta o segni indecifrabili, in quanto la loro sapienza si legge nella disposizione delle case, nei terrazzamenti coltivati, nei villaggi che lentamente si aggregano sulle alture. Ogni casa è un segno di resistenza, ogni sentiero tra le case è testimonianza di coraggio, ogni campo coltivato è un patto silenzioso con la terra che li accoglie.
E così, nel Meridione italiano, si intrecciano mondi lontani, genti che dal mare e dalle montagne balcaniche e greche, portano con sé non solo il proprio corpo, ma il proprio ingegno, la propria visione del mondo.
Qui, tra colline che mirano le vallate e il mare, nascono comunità che apprendono la misura del vento, della pioggia e della luce, costruendo case lungo le contrade che parlano di adattamento e di forza.
La storia non è solo negli archivi, non è solo nei documenti, ma risiede intatta nelle pietre di questi centri antichi, nelle vie di famiglie solidamente unite, nei gesti quotidiani delle madri in casa e dei padri nell’agro e attraversano secoli senza mai spegnersi o cambiare atto.
Osservando queste dimore essenziali, possiamo comprendere la grandezza di un popolo che, pur costretto alla semplicità, ha saputo imprimere la propria memoria nella terra ritrovata, imprimendo segni duraturi senza bisogno di parole scritte.
È questa storia, fatta di coraggio, ingegno e resistenza, che ancora oggi ci parla, che ancora oggi ci invita ad ascoltare e mirare con rispetto le colline del nostro Meridione e della valle del crati qui trattate in questo breve in trattato.
In origine, le contrade di confine erano concepite principalmente come torri di controllo, destinate a esercitare funzioni di sorveglianza e difesa lungo i confini territoriali, ma con l’insediamento degli Arbëreshë, distribuiti secondo criteri strategici, che tali luoghi iniziarono a configurarsi secondo sistemi abitativi articolati e coerenti.
In questo processo, la memoria del passato non venne né cancellata né trascurata; al contrario, fu continuamente valorizzata, costituendo un fondamento culturale e spaziale in grado di conferire unità e continuità al territorio.
L’abitato, così strutturato, si presenta come un organismo capace di integrare il retaggio storico con le esigenze del presente, configurando uno sviluppo insediativo che si proietta in una progressiva risalita lungo il tempo e lo spazio.
Il territorio meridionale, a partire dal periodo della dominazione di Sibari, attraversò una fase caratterizzata da una sostanziale inattività politico-amministrativa e da un relativo abbandono delle pratiche produttive. Questo momento di decadenza, pur segnato da inefficienze e stagnazione, costituì paradossalmente la premessa per i successivi processi di trasformazione territoriale, poiché lasciava ampi spazi per interventi di bonifica e riorganizzazione degli insediamenti.
Con l’arrivo dei soldati bizantini, le contrade di confine, originariamente concepite come torri di controllo e punti strategici di sorveglianza, assunsero una nuova centralità funzionale.
La loro distribuzione mirata e la presenza di strutture militari favorirono un primo grado di organizzazione spaziale, che preparò il terreno per l’insediamento stabile di nuove comunità.
L’avvento successivo delle grange cistercensi, con le loro pratiche agrarie avanzate e la capacità di gestione del territorio, costituirono un modello di valorizzazione economica che gli Arbëreshë avrebbero poi fatto proprio.
La conoscenza di queste strutture, la loro organizzazione e la capacità di sfruttare le risorse naturali locali furono per agli Arbëreshë strumenti idonei per intraprendere una vera e propria opera di bonifica e riqualificazione del territorio, trasformando aree marginali e paludose in zone produttive e fertili.
A seguito delle capitolazioni civili e religiose, il paesaggio insediativo entrò in una nuova fase: quella dell’edificato vernacolare.
E gli Arbëreshë, integrarono le esperienze pregresse e le tradizioni locali con le proprie radici culturali, svilupparono abitati capaci di coniugare funzionalità e memoria storica e, in questo contesto, l’architettura vernacolare non si limitava a rispondere a esigenze pratiche, ma rappresentava anche un veicolo di identità collettiva, consentendo al territorio di consolidare un senso di continuità tra passato e presente.
Le abitazioni, i nuclei insediativi e le infrastrutture minori, organizzati secondo criteri di prossimità e connettività, favorirono l’aggregazione sociale e culturale, rendendo queste terre non solo produttive, ma anche capaci di accogliere e unire popolazioni di diversa origine.
Il processo insediativo degli Arbëreşë può essere quindi interpretato come un modello di valorizzazione integrata del territorio, in cui le valenze fisiche e agrarie si intrecciano con la costruzione di una memoria collettiva condivisa.
Le terre così riorganizzate e coltivate, in grado di “germogliare” economicamente e socialmente, divennero un crocevia di scambi culturali e identitari, segnando l’inizio di una nuova epoca nella storia del Mezzogiorno, ovvero della coesione territoriale e della resilienza insediativa, capace di connettere popolazioni e tradizioni differenti in un tessuto sociale solido e duraturo.
Dopo le capitolazioni che segnarono l’accoglienza certificata nelle terre parallele ritrovate, gli Arbëreşë si insediarono adottando un modello di “centro abitato aperto”, frutto di una visione strategica e comunitaria che coniugava sicurezza e armonia tra gli abitanti e l’ambiente circostante.
Questi insediamenti non erano chiusi da mura o parti difensive rigide, ma al contrario, la loro struttura favoriva un controllo discreto, ma efficace sugli estranei in transito, garantendo al tempo stesso la libertà di movimento verso gli spazi agricoli e naturali limitrofi.
Tale organizzazione rifletteva una profonda coscienza territoriale, in quanto l’uomo non dominava il paesaggio, ma ne rispettava e valorizzava le caratteristiche, costruendo un rapporto di cooperazione reciproca con il teatro naturale circostante.
Questo equilibrio tra apertura e protezione, tra comunità e ambiente, non solo assicurò la sopravvivenza fisica, ma gettò le basi per una solidità economica duratura, attraverso la valorizzazione dell’agricoltura e delle risorse locali, e favorì un arricchimento culturale che si tradusse in continuità delle tradizioni, della lingua e dell’identità collettiva.
In definitiva, i Katundë Arbëreşë rappresentano un esempio significativo di insediamento umano integrato, in cui la pianificazione sociale e urbanistica veniva intimamente connessa a una filosofia di vita fondata sulla resilienza, sulla cooperazione e sul dialogo costante tra generi e ambiente.
Successivamente furono introdotte rigide imposizioni regie, in base alle quali le comunità arbëreşë erano tenute a rientrare nelle proprie abitazioni prima del tramonto e a non oltrepassare i confini dell’edificato del centro antico fino al sorgere del sole.
Tali disposizioni imponevano la permanenza entro le mura, la cui edificazione doveva essere completata nel più breve tempo possibile.
Le autorità concedevano esclusivamente una limitata libertà di pascolo in aree preventivamente delimitate, nonché la possibilità di praticare la caccia in fasce orarie stabilite, e questo per chi non svolgeva lavori nell’agro.
Nonostante ciò, le comunità riuscirono in parte ad eludere tali restrizioni, procedendo alla costruzione di nuove abitazioni e di recinzioni destinate agli orti botanici, determinando così un progressivo ampliamento dell’assetto insediativo.
Questo processo venne improvvisamente interrotto da un evento sismico di vasta portata, nel 1663 a seguito del quale, una grave e prolungata carestia, rare legò lo sviluppo economica e sociale del territorio.
Gli agglomerati diffusi arbëreshë nascono secondo regie disposizioni e grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun.
I quartieri Katundë, kishja Moticèlleth, Sheshi, Brègù e Castagneto, allocati sempre nei pressi di torrenti, rappresentano il percorso evolutivo che il centro abitato ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico inviando informazioni storiche con gli appellativi appena citati.
Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.
In queste macro aree l’antico e il moderno si intrecciano e si sovrappongono per creare quello spessore di tradizioni e innovazioni che rappresentano la vera ricchezza dei Katundë arbëreşë.
L’energia indispensabile per dare in ogni epoca le risposte più idonee al bisogno della società in continua evoluzione.
Il tutto diviene un sistema dove oggi trovano spazio, tra le fila di ciò che esiste e rimane solidamente abbarbicato alla storia, anche episodi discutibili senza ragione di essere, perché condotti dai soliti ricercatori che vagano alla ostinata apposizione della zeta perduta, in tutto i soliti letterati che per giustificare la pena inflitta si autoeleggono portatori sani del continuo lagrimoso storico, ereditato dagli antichi.
È in queste sistemi urbani diffusi che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e l’orto botanico, trovano l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni, dove: il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata, o iunctura familiare ha il controllo assoluto evidenziato dalla casa (Shëpja), circoscritta dal recinto (Ghàrëd).
La casa allestita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; l’orto botanico è luogo della farmacia, dimora anche dell’orto stagionale.
È in questo sistema dove gli elementi di unione di famiglie che prendono forma: Vicoli Articolati, Archi a Misura, Vicoli Cieche e spazi comuni a misura di luogo: Vallj.
Inizia il processo evolutivo del modello familiare allargato, che assume una conformazione urbana come degli indigeni e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.
Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione ti tipo urbana a inizio il realizzarsi dei primi isolati (manxane), che da impianti articolati diventano lineari.
Inoltre lo sviluppo degli agglomerati accoglie le direttive dell’urbanistica greca e alloca gli accessi degli abituri del bisogno sulle strette vie secondarie, rruhat.
La Gjitonia, (dove vedo e dove sento o luogo ideale dei cinque sensi), resiste alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame indispensabile per la consuetudine arbëreshë.
Gjitonia principio fondamentale su cui si basa il modello di iunctura familiare, ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nella piazzetta sheshi e si estende lungo le rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei cunei agrari, boschivi e dalla trasformazione di pertinenza.
Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata e, gli agglomerati con il cuore antico che pulsa e la mente che ricorda, rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, tutte quelle in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo.
Il piccolo abituro del bisogno, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia, nello scorrere delle ere, è ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena.
E dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi con regole regie.
Ed è così che anche gli ambiti urbani arbëreshë assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello, avendo come parametro fondamentate le proporzioni l’altezza dei palazzi per definire l’ampiezza delle strade primarie quella dei vicoli.
I frazionamenti, nel corso dei secoli precedenti avevano fatto largo uso delle scale esterne, in tutto profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive all’interno di strade vicoli e piazze.
Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.
Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi modelli del bisogno e la classe media, esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici.
I contemporanei Katundë e il territorio circostanti sono il risultato della lenta giustapposizione sovrapposizione e sovrapposizione di innumerevoli frammenti nuovi e riciclati per necessità selezionati dai grandi cambiamenti e dai piccoli cambiamenti urbani, delle ferite, dei conflitti e delle fioriture di nuove ere che in seguito avranno una lettura più oculata e senza bisogno di ostinarsi a cercare la improbabile zeta perduta.
Architetto Atanasio P. Basile (Attento Ricercatore Napoletano Arbëreşë Tenace) A.R.N.A.T.








