NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nelle piccole Kalljva, le abitazioni tradizionali arbëreşë, il camino e il forno non rappresentava soltanto uno strumento domestico, ma costituiva un vero e proprio centro di vita sociale ed economica.
Questi spazi, spesso modesti per dimensione ma ricchissimi di funzioni, erano concepiti come luoghi di trasformazione e, qui il fuoco diventava motore di proto-industria, strumento di sussistenza e memoria di un sapere artigianale tramandato di generazione in generazione.
Il forno, insieme al camino, era l’elemento più importante della Kalljva e, non serviva soltanto a riscaldare o cuocere, ma era un laboratorio comunitario, la sede di una tecnologia antica in cui si concentravano competenze precise e ritualità quotidiane. L’accensione del forno segnava un ritmo, quasi una liturgia domestica, dalla preparazione della legna alla disposizione delle braci, ogni gesto portava con sé regole, proverbi e un patrimonio di conoscenze pratiche che definivano l’identità arbëreshë.
Una volta portato “a regime”, il forno diventava la macchina principale per la trasformazione delle materie prime.
Qui avvenivano processi fondamentali per l’autosostentamento essiccazioni, cotture lente, tostature e soprattutto la panificazione.
Il pane, con le sue varianti storiche, era molto più di un alimento, perché rappresentava un simbolo di continuità culturale e religiosa, un bene essenziale la cui produzione coinvolgeva tutta la famiglia.
Le donne impastavano seguendo ritmi e ricette codificate, gli uomini preparavano il combustibile e regolavano il calore; i bambini osservavano, imparando attraverso il gesto ripetuto per poi avere in dono un pane a loro misura.
Accanto al pane ordinario, che garantiva il nutrimento quotidiano, esistevano pani rituali e stagionali, con forme, tecniche e significati differenti: pani intrecciati per le feste, focacce cerimoniali, varianti arricchite per i momenti solenni, impasti semplici riservati ai giorni di lavoro.
Ogni tipologia raccontava un rapporto profondo tra ambiente, comunità, fede e forno, quest’ultimo, era un piccolo centro produttivo, dove si trasformava la materia, ma trasformava anche la vita sociale.
Intorno ad esso si riunivano parole, consigli, scambi di lavoro e dello storico criscito; da esso uscivano profumi capaci di segnare un’epoca e di riportare alla memoria la forza di una cultura che ha saputo resistere nel tempo grazie ai suoi gesti più quotidiani.
Tutto ciò che prendeva vita nella Kalliva, come pane, focacce, e varianti rituali e quotidiane, aveva origine da un elemento minuscolo ma preziosissimo: il chicco di grano. Era da questa unità semplice, apparentemente fragile, che scaturiva la forza stessa della comunità arbëreshë.
Ogni raccolto, ogni trasformazione, ogni pane usciva dal forno come un atto di rispetto verso quella piccola semenza e verso la terra che l’aveva vista germogliare.
Il chicco di grano era considerato un dono duplice, in quanto dentro custodiva la parte bianca, pura e nobile, il cuore dell’alimento, in tutto l’endosperma, simbolo di abbondanza e di nutrimento “buono”.
Era questa porzione, tenera e luminosa, che veniva macinata finemente per ottenere la farina più pregiata, destinata spesso al pane delle occasioni o alle preparazioni più delicate.
L’atto di separare la parte interna da quella esterna non era soltanto un passaggio tecnico, ma un gesto simbolico, carico di memoria e consapevolezza del lavoro necessario per ottenere il nutrimento quotidiano.
La parte esterna del chicco, invece, conservava il colore della terra: un marrone intenso, ruvido, che ricordava visivamente le zolle da cui la pianta era nata.
Questa sezione, più densa e carica di fibra, parlava della fatica dei campi, della resistenza della natura e della continuità tra uomo e ambiente.
Non veniva mai considerata uno scarto, ma un elemento essenziale, prezioso a suo modo. Dalla crusca si ricavavano farine più grezze, impasti più rustici e un pane dal sapore robusto, che per secoli ha sostenuto i lavoratori nei periodi di maggiore sforzo.
Il ciclo di trasformazione iniziava con la trebbiatura, continuava con la vagliatura e si perfezionava nella molitura, dove la mano esperta del mugnaio sapeva distinguere consistenze, profumi e umidità.
Ogni fase restituiva al chicco la sua identità, dava corpo indiviso diventava materia differenziata, pronta per assumere forma e significato all’interno del forno della Kalljva.
Così, prima ancora dell’impasto e della cottura, il pane esisteva già nel concetto stesso di separazione e scelta, nell’equilibrio tra la purezza della parte interna e la forza della scorza esterna.
Era in questo dialogo tra bianco e terra, tra nobile e umile, che prendeva forma la cultura alimentare arbëreşë.
Una cultura capace di valorizzare ogni frammento del chicco, riconoscendo che la vita, come il pane, nasce sempre da ciò che è piccolo ma essenziale.
Quella giornata che iniziava con l’impasto di farina criscito acqua e sale la sera prime, non era soltanto un rito per le madri: era anche, a suo modo, la festa dei bambini.
Un giorno speciale, atteso quasi quanto le grandi ricorrenze, perché proprio allora i più piccoli godevano di una libertà che durante l’anno era rara.
Mentre le donne, chine sul grande impasto, seguivano il ritmo antico dei gesti tramandati, i bambini potevano finalmente giocare in autonomia, scorrazzando nei pressi della casa o del cortile senza che nessuno li richiamasse di continuo.
Sapevano però, anche nella loro ingenuità, che quella libertà aveva un prezzo: non avrebbero dovuto disturbare le madri.
Quel lavoro era sacro, faticoso, e richiedeva una dedizione assoluta e, le donne, con le braccia infarinate fino ai gomiti, impastavano come se stessero scolpendo la vita stessa, consapevoli che quel pane, caldo, fragrante, ricco di aromi naturali, avrebbe nutrito la famiglia per un mese intero.
Così i bambini giocavano “facendo i buoni”, un’espressione che quel giorno assumeva un valore quasi solenne.
Si rincorrevano, inventavano giochi con ciò che trovavano, costruivano regni immaginari con pietre e foglie, ma sempre con un orecchio attento a non fare troppo rumore.
Era come se anche loro partecipassero al rito, custodendone il silenzio e, poi c’era la ricompensa.
Tutti lo sapevano: chi non avesse fatto arrabbiare la mamma avrebbe ricevuto, alla fine, un piccolo pane tutto per sé.
Un pane ancora caldo, profumato, morbido, così buono che sembrava un dono prezioso. Quel momento era atteso come una piccola epifania e, le mani delle madri che porgevano la pagnottella, le dita dei bambini che bruciacchiavano appena toccando la crosta, il primo morso che sapeva di forno, di casa, di tradizione.
In quell’attimo, ogni bambino si sentiva parte di qualcosa di grande: non solo spettatore, ma custode silenzioso di un impegno antico che univa generazioni.
Era una festa semplice, fatta di niente eppure ricca di tutto, che rimaneva incisa nella memoria come il profumo di quel pane che nessuno avrebbe mai dimenticato.
Il processo che portava il forno a raggiungere la temperatura ideale per cuocere il pane seguiva una procedura molto razionale.
Per capire se il forno fosse “a regime”, cioè pronto per la cottura, si facevano cuocere le lagane: erano una sorta di termometro naturale che permetteva di valutare se il calore fosse quello giusto.
Una volta verificata la temperatura, si procedeva alla cottura del pane e, dopo averlo sfornato, il calore rimasto nel forno, quell’energia imprigionata nella volta ancora sana e calda, veniva utilizzato per preparare altre pietanze, pane e olio con il pomodoro nelle tipiche teglie di alluminio, crocette di fichi secchi infilzati, e tutto ciò che serviva per la cena della sera o per il pasto del giorno successivo.
Questi forni non erano sempre all’interno delle abitazioni e, quando le case erano troppo piccole o semplici, il forno veniva costruito accanto alla porta d’ingresso, e diventava utile anche per le altre famiglie modeste che non potevano permettersi un forno proprio. E quando portavano il pane appena sfornato, quella casa si riempiva degli odori e dell’atmosfera che solo un forno poteva regalare.
Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)








