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UNA PROMESSA ARBËREŞË SENZA NOME ezë bënu jatrua epriru nhdë katurndë

Posted on 25 novembre 2025 by admin


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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’arbëreşë non si insegna, si impara davanti al focolare domestico, ogni volta che ricevi abbracci materni.

Per un arbëreşë, questo non è soltanto un limite fisico, ma il simbolo di un sapere caricato alle spalle di chi veniva stretto per generare memoria.

E tutto avveniva dentro quel cerchio materno, per ricevere, memoria come in una fiamma a cui si offre ossigeno per non spegnersi.

Eppure, quelle braccia come una porta non rappresentano un confino, come il comunemente immagina ma è attesa, desiderio, di una voce che si alzi per riaprire e illuminare ciò che è stato escluso e allontanato da quanti sanno ancora ascoltare.

Questa immagine, apparentemente semplice, è in realtà una metafora storica che coinvolge le “Terre di Sofia” e, il suo camminare ininterrotto si svolge tra i due mondi paralleli, dell’abbandono e del ritrovato.

Ogni giorno che passa, per chi è rimasto, il domani sembrano più bui e, il linguaggio si assottiglia, i rituali si disperdono, i nomi antichi si trasformano in echi senza un corpo che posa essere in grado di identificarli.

Tuttavia sino a quando uno tornerà, ci sarà chi si chiederà cosa giace oltre quel legno consumato del tempo, senza la luce del fuoco interrotto.

Perché una cultura non vive, o si trova nei libri ma, nella volontà dell’accoglienza per quanti diventano portatore sano di memoria.

Così, la storia degli arbëreşe non è soltanto un archivio di tradizioni, invito al presente, ma richiesta di guardare dentro quella stanza ancora piena di significati e domande incompiute.

Aprire una porta per accogliere, significa ridare voce a ciò che è stato messo ai margini, ed è solo attraverso questo gesto, semplice, che la memoria potrà tornare ad essere luce, e non ombra del passato.

Chi dovette partire quel 17 gennaio del 1977, non lo fece per vergogna ma perché gli venne caricato sulle spalle un compito più grande della sua età: ovvero studiare, formarsi, diventare voce e tornare per riconoscere cose, fatti e luoghi.

Gli dissero: “Vai, impara, e poi torna, spiega cosa significano quei palazzi, quella piazza, quel vicolo, quel supporto e quell’orto botanico”.

Non lasciare che restino nomi senza storia, pietre senza memoria e, nonostante quell’impegno venne sostenuto, ricordato, passo dopo passo, giorno dopo giorno, oggi attende di essere svelato.

Ho ascoltato le lezioni letto dei libri, ma anche quelle che non venivano scritte da nessuno, le lezioni del silenzio che fanno i muri senza intonaco, colmi di nostalgia e ricordo che esiste anche quando non viene pronunciato.

E per anni ha avuto negli occhi l’immagine di quei luoghi caricatigli sulle spalle e ogni volta che si voltava a ricordare ritrovava l’immagine sofferente di ogni facciata, ogni angolo, ogni gradino consumato dal tempo e, tutte insieme diventavano pagine che attendeva di essere letta e raccontate.

Sembrava che bastasse “tornare formato”, per trovare qualcuno disposto ad ascoltare ma purtroppo cosi ancora non è avvenuto, perché la conoscenza non è sempre una chiave che apre tutte le porte chiuse.

Ma oggi, a distanza di quasi cinque decenni, guardarsi attorno e scorgere quelle porte ancora serrate e, nessuna voce si leva per chiedere ragione dell’impegno dato, ma cosa più grave è che nessuno sembra voler accogliere il racconto che potrebbe portare senso e ragione a quella promessa data.

Oggi quella promessa data, assume il senso di un eco lontana, che invece di incuriosire e inteso come fastidio che insiste con l’atto del riecheggio.

Così la memoria rimbalza, non sostiene e quando ritorna in forma di eco, non genera nuovi ascolti così come anche la voce della memoria in esilio non trovano più dove posarsi in quel luogo ameno.

Forse la responsabilità non è solo dei restanti, i più esposti alle dinamiche della memoria smarrita, che capovolge tutto, cambiando passi, parole, priorità, oggi imposta dal potere imposto dal genio del mugnaio matto.

E così tutto termina con ignorare palazzi, piazze e supportici, tutti diventati passaggio di comodo per appendere e colorare quei giardini, ormai non più cattedre della storia, intesi soltanto terreno da attraversare e colorare senza ragione, senza chiedere cosa abbiano enunciato e custodito nel corso della storia.

E nonostante sia noti a tutti chi e quanto è partito, mentre chi rimane non è in grado di fermarsi ad ascoltarli e magari rendere quei luoghi momento di dialogo o almeno ricordare quella data dove inizia il ricordo e la memoria di quel luogo.

Oggi i Katundë arbëreşë hanno solo bisogno di ascolto, prima ancora di parlare, questa antica arte che possiedono solo quanti potrebbero tornare e fermarsi, il che non significa portare verità già pronte; ma significa tornare con l’umiltà di riconoscere o ascoltare, se la storia appartiene a chi effettivamente ha avuto modo di viverla.

Ed è da quel vissuto che nasce la vera narrazione, una narrazione che non impone, ma accoglie e non chiude, ma e sempre pronta a riaprire.

E allora mi chiedo: dove sono gli eredi di quella promessa, chi oggi raccoglierà il testimone o il dovere della memoria che non si esaurisce con chi parte, ma continuare ad avere ruolo con chi resta senza risposta alla domanda: cosa dicono.

E finché non ci sarà qualcuno disposto a porre questa domanda, la promessa resterà sospesa e la conoscenza sarà soltanto un bagaglio pesante portato da pochi, invece di un ponte che unisce i molti.

La speranza, oggi, si attesta sul principio che questa distanza, lunga quasi mezzo secolo non sia un confine definitivo, ma un tempo di attesa che difende la storia e il germoglio del passato.

E che la voce che non si leva ancora, si stia solo preparando compiutamente, a dare alle nuove generazioni che verranno, formazione secondo quella metrica antica sospesa e mai dimenticata, perché colma di coraggio arbëreşë, che non è stata mai rinunzia.

Perché ogni promessa data è un seme solitario, pronto a germogliare e, se qualcuno decide di coltivarlo, può diventare fioritura e futuro arbëreşe.

Finché ci sarà anche solo uno, che torna per spiegare, e uno che resta per ascoltare, il legame non sarà spezzato e forse, un giorno, quel seme antico troverà un solco per germogliare bene.

Sono trascorsi decenni, eppure nonostante il tempo e il sacrificio di chi partì, per tornare illuminato, nel mentre la flottilla dei non formati in presenza vacua, priva di ogni orientamento, non ascolta, ma occupa quel dolce mare di memoria che attende un capitano per essere ripulito.

La flottilla occupa spazi e deforma prospettive, come nebbia che entra nelle fessure e si adagia sulle strutture più fragili dell’anima di luogo.

Essa è una presenza che non costruisce, ma occupa l’acqua buona e genuina, non custodisce ma altera e, così rischia di sparire anche l’ultimo golfo di mare che univa il presente con gli antenati di fronte casa.

Quelle prospettive, che un tempo si aprivano come mappe della memoria, ora sono rese opache da chi crede di possederle senza averle mai sovrapposte per ricavarne risposte.

Oggi non esistono esperti locali capaci di ascoltare e decifrare ciò che ancora sopravvive tra pietre, vicoli, avvolti da intonaci in sofferenza, laddove sarebbe urgente creare una cattedra per interrogare la storia.

Li dove si innalzano i muri dell’indifferenza e, dove servirebbe voce identitaria, prospera l’apatia di quanti non hanno formazione, ma possiedono autorità per titolo politici paterni a misura perversa.

Le poche cose di casa che ancora resistono allo scorrere del tempo cosi come, i simboli, gli appellativi delle strade, i gesti delle feste, gli odori delle cucine, il parlato in arbëreşë, sopravvivono tra i denti dei pochi anziani, soffocati lentamente, come si fa con le luminarie ad olio quando viene a mancare l’aria.

E ciò che è peggio, non è solo la perdita il valore intrinseco a scomparire, ma con esso sin anche l’eco che tenta di parlare ancora.

Quelle pareti storiche che fanno da quinta al percorso del vicolo, se liberate dalle ere moderne e dalle sovrastrutture che le hanno rivestite, nascondendone l’anima, potrebbero ancora raccontare, liberare quei percorsi di vita che hanno lasciato scorrere, operosità, migrazioni, accoglienza, partenze e ritorni.

Ma per farlo, è necessaria l’ascolto e, non certo far prevalere o dominare il rumore che sovrasta, pretende il paradosso doloroso, in quanto si parla troppo, ma si capisce sempre troppo poco.

E chi resta nei luoghi fisicamente, abbandona la memoria e ciò che non si comprende, lentamente, la si lascia coprire o velare completamente.

Non basta dunque essere tornati formati, né aver studiato per aprire egoisticamente la propria mente e il valore familiare, perché occorre che almeno uno dei restati abbia piacere di riceverla.

La conoscenza non è un dono che si offre, perché rappresenta un ponte che si costruisce insieme, senza escludere l’altra parte, lasciando così il ponte sospeso nel vuoto.

Eppure, nonostante tutto, il limite non è definitivo, perché anche quando il silenzio sembra aver vinto, rimane ancora la possibilità che una sola voce, una soltanto, decida di guardare, di domandare, di aprire e dare la spalla per sostenere la parte del ponte sospeso.

Perché la storia non muore mai del tutto, ma smette soltanto di essere interrogata, così accade, anche in mezzo a quella flottiglia di non formati che navigano senza rotta e senza responsabilità, pur di velare il mancato sapere.

E se questo dovesse germogliare, gli echi non saranno solo tali, ma diventeranno voce viva, e la voce viva, si sa, può cambiare in ogni momento il destino di un luogo.

Non trovo giusto e neppure degno, che dopo aver mantenuto fede a una promessa data e tornare per dare voce a quelle porte gemellate, i vicoli le pietre e ogni elemento che fa e realizza un Katundë, quelle esperienze debbano riversarsi con la fratria originaria.

La fratria con cui venne stipulata quella promessa di studio e sacrificio non fatto solo di persone, ma di radici, di sguardi e di visioni comuni, in tutto un patto silenzioso, stretto nel nome della conoscenza e della memoria di uno specifico luogo.

Aver creduto e ancora credere oggi, che ciò che si apprende con dedizione non sia un bene comune, ma un dono da restituire a chi lo ha generato.

Perché la conoscenza, quando nasce da un legame profondo, porta in sé la forma del luogo in cui è stata concepita.

E ogni luogo, come ogni comunità, merita di rivedere il frutto di ciò che ha seminato e, non si tratta di chiudersi al mondo, ma di restituire dignità che lega il maestro all’allievo, il luogo alla sua storia, il passato al futuro.

Oggi, invece, il seme di rinascita viene spesso dirottato altrove, adattato ad ambienti paralleli, che appartengono ad altri.

Così, ciò che era destinato a rigenerare, finisce per evaporare tra mani estranee, trasformando ogni cosa in un racconto incompreso o testimonianza che non trova senso per formarsi.

Questa non è rabbia, ma un senso di giustizia culturale, secondo cui l’accoglienza non è una semplice appartenenza genealogica, ma un modo per emergere da stereotipi senza radice.

E la memoria non può essere tutelata senza il senso della radice, né trasformata in merce di scambio, abbandonando così che il frutto del sacrificio migri verso terreni non legati da quel patto con i luoghi originari dove rigerminare, il che significa anche privare il futuro della profondità necessaria al proprio passato.

Per questo oggi chiedo, non solo per me, ma per tutti coloro che hanno camminato su quel medesimo sentiero, che si riconosca il diritto del ritorno senza veti.

Il ritorno della conoscenza, della memoria, il parlato, l’esperienza condivisa, sostenuto non dalla mera nostalgia, ma per il principio di quel patto portato a buon fine.

Perché il sapere, quando nasce da un patto fatto di anima e passione, non è davvero compiuto finché non viene riconsegnato alla comunità che vaga alla ricerca di quel bisogno.

E forse, se questa restituzione avesse luogo, si potrebbe finalmente vedere ciò che da troppo tempo si attende per dare agio a quel sacrificio che non è stato vano e, lo studio non resti monologo e, la promessa diventi memoria certa.

Solo allora il patto, stretto tanti anni fa, troverebbe la sua forma compiuta e il cerchio, finalmente, si chiuderebbe per dare senso a quella promessa data.

La consapevolezza che il tempo, prima o poi, dà ragione ai giusti, a coloro che sono partiti con pena e sacrifici immani, non è una certezza, ma una speranza.

Una speranza fragile, ma tenace, che resiste anche quando tutto sembra ormai quieto e dimenticato, chi è partito non l’ha fatto per ambizione o per abbandono, ma per fedeltà a un compito assunto per rendere certo a ciò che era ormai buio, al fine di rigenerare le cose da custodire e che in quel momento l’oblio stava incamerando, per farne ricordo di pochi anziani.

È in questa attesa, fatta a volte di silenzio, altre di ostinazione, che vive l’ultima forma di giustizia: il tempo, infatti, non parla subito e, non risponde con la rapidità delle domande moderne.

Ma lavora in profondità, come un fiume sotterraneo che scava la roccia fino a trovare un varco, come accadrà anche per quei luoghi ameni, dove un tempo si respirava un’armonia antica, fatta di gesti condivisi, di sguardi familiari, di braccia materne che accoglievano senza mai chiudersi per non accogliere le cose buone della storia.

Braccia che non si sono mai concluse, ma solo interrotte, perché ciò che è materno, nei luoghi, delle comunità, delle culture, non finiscono, ma con pazienza attendono.

E attende nella forma dell’affetto che non ha più voce, racchiuse ancora un movimento, come se fosse invito sottile, percepibile solo da chi sa ascoltare perché conosce l’arbëreşë.

In tutto quei valori, nutriti da quella accoglienza silenziosa, che potrebbero tornare a vivere, non come ricordo folcloristico o come rito da museo, ma come linfa presente, come traccia che ricostruisce un’identità capace di dialogare col futuro senza perdere le sue radici.

Per questo essere ben accolti in quei luoghi, fisicamente o interiormente, significa immaginare una rinascita che non strappi il passato, ma lo metabolizzi e gli dia energia sufficiente per incamminarsi ad essere ricordato e diffuso.

Significa credere che la storia non sia un archivio morto, ma una presenza che attende di essere reinterpretata da nuove generazioni, senza cancellare ciò che le ha precedute.

È come entrare in un vico dove tutto appare in ombra, ma il sole esiste ancora e basta solo attendere lo svolgersi del suo arco, perché la luce e illumini ciò che sembrava sospeso.

Ed è così che ogni cosa porta apparire e dare risposta e i sacrifici, quelli veri, quelli che non chiedono applausi, sembreranno, finalmente, parte integrante di un cammino più grande.

Perché nessuna partenza è vana, se esiste almeno un punto di ritorno, anche solo ideale, secondo cui la conoscenza e la fraternità possano rialzarsi e dire: “Siamo ancora qui. E non abbiamo dimenticato nulla.”.

 

Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N.O.  (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano e Olivetano)

Napoli 2025-11-22 / sabato

 

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