NAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – La parola diaspora, deriva dal greco diasporá e, significa letteralmente “dispersione” o “spargimento”, in essa si intrecciano due movimenti fondamentali, ovvero: la separazione dalla terra nata e la continuità dei valori identitari.
Da un lato c’è il dolore della distanza, dall’altro la tenacia della memoria che non si spegne, perché nata a descrivere la condizione del popolo ebraico dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e, la parola divenne simbolo universale di tutte le comunità costrette a lasciare la propria terra e a cercare altrove la possibilità di sopravvivere senza smarrire la propria identità.
La diaspora ebraica nella storia, fu, una delle prime e più profonde esperienze di dispersione, in quanto milioni di uomini e donne si trovarono lontani da Gerusalemme, dispersi nel vasto mondo mediterraneo, in Europa, in Asia e in Africa.
Tuttavia, in questa lontananza, gli Ebrei conservarono la loro lingua, la loro fede, le loro tradizioni e la speranza di un ritorno.
La diaspora divenne così non solo un destino di esilio, ma una forma di resistenza spirituale e culturale, un modo di restare uniti nonostante le distanze dal luogo natio.
Un’altra grande diaspora, meno conosciuta ma altrettanto significativa, è quella Arbëreşe, cioè la dispersione del popolo che dai Balcani sino alle porte della Grecia, tra la fine del quattrocento e il cinquecento, lasciò la propria patria per recarsi in quella terra o costa, colma di abbracci del meridione ancora non Italia unita.
A innescare questo spargimento fu un evento preciso e drammatico, la caduta di quelle terre ancora suddivise i governariati e quindi, non unita a una sola bandiera, dal dominio dell’Impero Ottomano che aveva effigi certe.
Dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, figlio di Giovanni, che secondo i patti dell’ordine del drago nel 1468, visto che quelle terre non riuscivano, più a resistere alle cadenzate invasioni della potenza Islamica.
Molte genti di quei governariati, per sfuggire alla conquista e alla conversione forzata all’Islam, scelsero l’esilio r, trovarono accoglienza nelle regioni dell’Italia meridionale. in particolare in Calabria, Sicilia, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo e Molise, dove fondarono la regione storica degli Arbëreşë, che ancora oggi conservano una lingua, un rito religioso e una cultura straordinariamente viva.
La diaspora arbëreşë rappresenta uno degli esempi più luminosi di come l’identità possa attraversare i secoli pur lontana dalla terra d’origine.
Queste comunità hanno mantenuto il perlato antico, i riti di credenza confrontati, i canti e, innalzando nelle terre parallele ritrovate una sintesi unica tra i patrimoni germogliati nelle terre ritrovate.
In loro la parola “diaspora” assume un valore doppio: è insieme memoria del dolore dell’esilio e testimonianza della forza della continuità nelle terre parallele ritrovate.
Così, da Gerusalemme alle montagne d’Albania, da un popolo all’altro, la diaspora racconta la stessa storia: quella di uomini e donne che, costretti a partire, hanno saputo portare con sé non solo il ricordo della propria patria, ma la volontà di farla vivere altrove.
È la storia di chi, pur perdendo una terra, ha trovato un modo nuovo di appartenere al mondo, stranamente i primi dovettero passare nella terra dei secondi, e chissà che transitando non abbiano seminario e lasciato fiorire quel germoglio di liberta in quelle terre e, che oggi le nuove generazioni meno formate interpretano e lo vedono, come un albero di novembre, che fa cadere foglie senza essere ascoltato.
La storia degli Arbëreshë in Italia è quella di un popolo che, pur costretto a lasciare la propria patria, seppe rinascere nella terra che lo accolse, diventando parte viva del suo progresso civile, culturale e morale. Quando nel Quattrocento l’Albania cadde sotto il dominio ottomano, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota, migliaia di uomini e donne attraversarono l’Adriatico in cerca di libertà.
Portarono con sé il codice del parlato, la fede, le usanze, i canti e il senso profondo dell’onore e, in queste nuove terre diffuse, rigenerarono villaggi, posero in essere attività laboriose e conservarono con fierezza la propria identità, unendo alla memoria delle origini il desiderio di costruire un futuro.
Nel corso dei secoli, gli Arbëreşë si distinsero non soltanto per la loro fedeltà alle tradizioni, ma anche per il contributo dato alla scienza, alla cultura e alla giustizia e, la loro storia non è fatta solo di poesia e nostalgia, ma di intelletto, studio e coraggio civile.
Tra le figure più luminose si ricorda Giuseppe Bugliari, Pasquale Baffi, grande grecista e raffinato studioso della lingua, che con la sua opera contribuì alla diffusione della cultura classica e alla rinascita linguistica dell’Italia meridionale.
La lealtà di credenza nota sin anche al re Carlo III appena insediatosi, lo volle al suo fianco per accompagnare i suoi fidi della Real Macedone e quindi aprire a Napoli, la via di formazione che qui di seguito accenneremo.
Il suo sapere fu un ponte tra l’eredità ellenica e la modernità italiana, segno di un’intelligenza capace di unire le radici orientali e l’apertura occidentale.
Dopo venne il tempo della scuola di ponti e strade con emblema la figura di Luigi Giura, ingegnere geniale, progettista del primo ponte sospeso d’Italia, il Ponte Garigliano che per la prima volta uni idealmente nel corso della storia il papato romano con il Regno di Napoli.
Con la sua visione e la sua competenza, Giura portò l’ingegneria moderna nel Regno delle Due Sicilie e diede all’Italia una delle sue più straordinarie opere di progresso tecnico.
In lui si riflette lo spirito arbëreşë, come il pensiero primo, di mente concreta e visionaria di chi trasforma l’esilio in costruzione, la memoria in futuro.
Un altro nome di grande rilievo è Vincenzo Torelli, giornalista e innovatore, considerato il padre dell’editoria moderna.
Con la sua attività diede forma a una nuova idea di stampa, capace di parlare al popolo e di diffondere cultura, informazione e senso civico.
La sua opera segna il passaggio dall’erudizione di pochi alla conoscenza per tutti, e rappresenta uno dei contributi più profondi che gli Arbëreshë abbiano offerto alla modernità italiana.
Non meno importanti furono Rosario Giura e Scura, giudici coraggiosi che ebbero la forza di opporsi alle ingiustizie e alle imposizioni del potere monarchico.
La loro scelta di restare fedeli ai principi di libertà e giustizia, anche di fronte al rischio personale, li pone tra le coscienze più alte del loro tempo.
Essi incarnarono il valore morale di un popolo che non si piega, che preferisce la verità al silenzio, la dignità alla paura e, in queste figure si manifesta il vero genio degli Arbëreshë: non quello che cerca la gloria effimera, ma quello che lavora, studia e lotta per costruire il futuro di tutti.
Essi non furono soltanto testimoni di un passato glorioso, ma artigiani del progresso, protagonisti silenziosi del cammino dell’Italia verso la modernità.
La loro forza non veniva dalle armi, ma dalla mente che pensa. agisce in arbëreşe e dal cuore; non dal potere, ma dalla cultura, dalla fede e dalla coerenza.
Oggi, quando si parla di diaspora arbëreşe, non si può ridurla a un semplice ricordo folklorico o a una nostalgia romantica.
Essa è la dimostrazione che un popolo, pur lontano dalla sua terra, può radicarsi altrove senza perdere la propria anima.
Gli Arbëreshë hanno donato all’Italia scienziati, ingegneri, letterati, giuristi e uomini liberi e, hanno saputo unire l’eredità di credenza e lo spirito rinascimentale, portando nel Sud d’Italia una luce di una cultura, equilibrata e dignitosa.
Per questo, la loro storia non è un capitolo minore, ma una pagina fondamentale della civiltà italiana, che dalle colline della Calabria e della Basilicata, ai monti della Sicilia, nei paesi dove ancora risuonano i loro canti, si pronunziano parole dei padri, vive a testimonianza di un popolo che non ha dimenticato chi è.
Gli Arbëreşë non hanno avuto bisogno di idoli per sentirsi grandi e, la loro grandezza viene riportata nelle opere sempre in ombra ma, nella mente e nel coraggio dei loro figli resta sempre lucida e viva.
Perché uomini come Bugliari, Baffi, Giura, Torelli, e Scura, che con la forza dell’ingegno e la dignità del carattere materno hanno reso onore non solo alle loro origini, ma a tutta l’Italia.
Per secoli gli Arbëreshë hanno vissuto in Italia custodendo la memoria della patria perduta, quel frammento di quelle terre parallele in pena e che gli arbereshe per non smarrirla se la erano portata nel cuore al momento della fuga.
Hanno conservato il codice antico del parlato, la fede, i riti e le tradizioni, tramandandoli di generazione in generazione come un’eredità sacra che non aveva bisogno di essere scritta.
Intanto, dall’altra parte dell’Adriatico, la storia seguiva un altro cammino e, quella che diventava sempre più Albania, sotto il dominio ottomano cambiava volto, si adattava, resisteva a modo suo, ma finiva col dimenticare i figli partiti secoli prima e, quando la memoria tornava li ricordava come traditori.
Quelli che avevano scelto l’esilio per non piegarsi, assieme a quanti avevano rinunciato alla terra per salvare l’anima, rimasero a lungo esclusi dal ricordo collettivo della madrepatria.
Mentre gli arbëreşe vivevano la loro fedeltà in silenzio, gli albanesi della madrepatria godevano delle terre per cui gli avi comuni avevano lottato.
E così passò il tempo e, a secoli di distanza, di incomprensione, di un legame che sopravviveva solo nei canti e nelle preghiere.
Quando nel Novecento l’Albania tornò libera e cominciò a guardare di nuovo al mondo, scoprì di avere lontano, nelle regioni del Sud d’Italia, dei fratelli che per cinquecento anni avevano tenuto accesa la stessa fiamma.
Solo negli ultimi decenni, molti albanesi hanno iniziato a rendersi conto della pena, della solitudine e della fedeltà con cui gli Arbëreşë, avevano conservato l’onore del nome albanese.
Ma questa consapevolezza è arrivata tardi, e spesso offuscata da un nuovo fraintendimento, come quello di chi, dimentico della storia, si presenta oggi in Italia rivestito di miti diversi, a volte perfino lontani dalla radice cristiana e umanistica che un tempo univa i due popoli.
Così, mentre gli Arbëreşë, continuano a vivere nella coerenza della loro memoria, assistono al ritorno di chi un tempo li ha dimenticati, ora in cerca di fratellanza, ma senza sempre riconoscere il dolore causato dall’antico abbandono.
Eppure, la dignità in questa storia non conosce rancore e, la loro forza sta proprio nell’aver saputo resistere senza odiare, ricordare senza accusare, vivere senza rinnegarsi.
Oggi, se esiste una vera fratellanza possibile, essa deve nascere non dalle parole, ma dal riconoscimento sincero della storia, dal rispetto per chi, nei secoli, ha custodito la lingua, la fede e il nome di un popolo intero mentre altri lo avevano dimenticato.
Questi miti che resistono oltre adriatico, non chiedono riparazioni né onori, ma chiedono solo memoria e verità.
Chiedono che si sappia che, mentre l’Albania cambiava volto, loro continuavano a pregare in quella lingua antica, a celebrare lo stesso rito, a insegnare ai figli l’amore per una patria lontana, dove avevano trovato luoghi di termine fratelli e sorelle mai più viste.
E oggi, quando le nuove generazioni si incontrano sulle due sponde dell’Adriatico, la speranza è che il tempo non divida più, ma unisca nel rispetto e nella consapevolezza che ogni figura è stata protagonista nel bene o nel male di questa vicenda diasporica.
Perché l’abbandono delle colline di Balcane non fu una fuga, ma fu un atto di fedeltà e, chi resta fedele, anche nel silenzio, merita di essere ricordato come il vero custode della storia.
Negli ultimi decenni, con l’apertura dei confini e la ritrovata libertà dell’Albania, molti dalla madrepatria hanno cominciato a riscoprire l’esistenza delle comunità in Italia e, sono giunti nei nostri Katundë, spesso mossi da curiosità o da un sentimento di fratellanza tardivo, ma non sempre accompagnato dalla conoscenza reale di ciò che noi siamo.
Alcuni si presentano come eredi o portavoce della nostra storia, richiamando con orgoglio nomi come De Rada, Serembe, Santori o Masci, o travestiti da eroi con il copricapo ovino e, senza comprendere che questi uomini, pur nati da sangue Balcano ai tempi delle famiglie allagate tipiche di Balcani, non furono frutto della civiltà arbëreşë d’Italia ma discendenti lljtirë e, non tutti nutriti di parlato, fede, scuole, lotte e dolore di memoria, come sono stati i veri protagonisti che la storia moderna e la politica de saccenti preferisce mantenere velati.
È difficile per chi è rimasto in patria capire cosa significhi vivere secoli lontani dalla propria terra, mantenendo viva una cultura che altrove si era spenta.
Gli Arbëreshë non hanno avuto accademie o stati a proteggerli, ma hanno conservato la loro identità nei Katundë, nelle chiese, nelle famiglie, nei canti e nella parola tramandata.
La loro forza non è stata quella dell’apparenza, ma della memoria e, oggi, quando qualcuno viene a rivendicare il genio e la cultura di quei nomi illustri, senza averne compreso la radice, dimentica che la vera radice dei Balcani sino alla Grecia non si trova nei monumenti o nei discorsi, ma nel cuore di chi ha custodito per secoli la fiamma della lingua e della dignità.
Gli Arbëreshë non hanno bisogno di farsi grandi con simboli e medaglie, perché la loro grandezza sta nella continuità silenziosa di una fedeltà ininterrotta.
Hanno vissuto per cinquecento anni da italiani di cuore e da arbëreşë in silenziosa memoria, unendo due civiltà in un equilibrio che nessun potere politico o religioso è mai riuscito a spezzare.
E se oggi qualcuno arriva con scarsa conoscenza, arrogandosi il merito di una cultura che non ha costruito, la risposta non deve essere l’astio, ma la verità, perché la cultura arbëreşe è un’eredità viva che non si improvvisa, e chi vuole comprenderla deve prima imparare a rispettarla e magari un poco anche viverla.
Perché la memoria non si eredita, si conquista e, gli Arbëreşë l’hanno conquistata con secoli di fedeltà, di preghiera, di sacrificio e di silenzio operoso, fatto di sudore dolce per alimentare le terre aride o in attesa della pioggia per poi fiorire.
Oggi gli arbëreşe continuano a vivere tra memoria e futuro, tra l’Italia che li ha accolti come figli e i Balcani che un tempo li hanno perduti.
Le loro comunità sono un ponte tra due mondi, una testimonianza di come la cultura possa sopravvivere oltre la geografia e oltre il tempo.
Ma ogni volta che qualcuno dall’altra sponda dell’Adriatico si presenta con leggerezza, senza conoscere la profondità della loro storia, quel gesto, anche se inconsapevole, riapre una ferita antica, che non ha mai smesso di lagrimare sangue.
Gli Arbëreşë, che avevano trovato pace negli abbracci materni dell’Italia unita, sentono tornare a galla il dolore dell’abbandono, la nostalgia di ciò che non poté essere germoglio materno anche per loro.
E così, forse senza volerlo, gli albanesi di oggi risvegliano quel dolore antico che la vita, la fede e la cultura avevano lentamente guarito.
Un dolore che non nasce dall’odio, ma dal ricordo, quel ricordo di un popolo che seppe scegliere la libertà, pagandola con l’esilio, e che trovò in Italia non una patria adottiva, ma una madre vera, capace di accogliere, curare e far rinascere.
Per questo, nel cuore degli Arbëreşe, l’Albania resta una radice, ma l’Italia è il respiro che si fa quando si respira, si fiorisce e si prepara a dare frutti buoni.
E chi oggi viene a parlare di fratellanza senza comprendere la storia, non sa che così facendo risveglia quel dolore antico che gli abbracci materni dell’Italia unita ci avevano fatto dimenticare.
A margine di ciò esiste una diaspora minore che coinvolge un numero ristretto racchiuso in un palmo di mano, che in altra diplomatica racconteremo lagrimoso avanzare e memoria custodita gelosamente nell’animo e la mente di chi sa parlare e ascoltare in arbëreşë.
Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)
Napoli 2025-11-04 -Martedì








