NAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – Napoli è una città dalla storia millenaria, dove ogni pietra, vicolo, cupola e scalinata raccontano l’intreccio di culture, fedi e dominazioni che l’hanno resa una tra le finestre più luminose del mediterraneo.
Le sue numerose chiese, diffuse in ogni via vicolo, quartiere e borgata fuori la murazione, non sono soltanto luoghi di culto, ma anche custodi di arte, tradizioni e identità collettiva solida e duratura.
Fin dai primi attimi del cristianesimo, Napoli fu un centro spirituale di grande importanza, in cui si incontrarono l’eredità romana e l’influenza bizantina, in tutto l’est e l’ovest che si avvicinavano in preghiera, dando vita a un patrimonio religioso e culturale di straordinaria ricchezza.
Comprendere la nascita e l’evoluzione delle chiese napoletane significa, dunque, leggere la storia stessa della città, dalle sue origini antiche fino all’età moderna.
Per compiere un percorso storico attraverso i popoli e i tempi che hanno caratterizzato Napoli, fin dalla sua nascita, dobbiamo immaginare che la fede e la credenza abbiano accompagnato e guidato ogni fase del suo sviluppo.
Dapprima greca, poi romana e infine bizantina, la città ha assorbito e trasformato ogni influenza culturale e religiosa, creando un intreccio unico di tradizioni e spiritualità.
Da queste radici antiche sono derivati i molteplici percorsi di fede che ancora oggi animano Napoli, rendendola un luogo in cui il sacro e il quotidiano si fondono in un abbraccio materno di accoglienza e di devozione. In questo cammino cercheremo di ripercorrere le vie della credenza che hanno plasmato l’anima profonda della città, facendone un simbolo eterno di spiritualità e umanità.
Il viaggio nella storia spirituale di Napoli non può che iniziare da Caponapoli, il punto più alto e antico della città, dove affondano le radici della Neapolis greca.
Qui, tra i resti delle mura antiche e le fondamenta di templi ormai scomparsi, si percepisce ancora il respiro dei primi culti, delle divinità che proteggevano la città e dei riti che univano la comunità, prima che il cristianesimo vi giungesse, Napoli era già un luogo di fede e, ogni pietra, ogni colonna, era simbolo di una sacralità che abbracciava la vita quotidiana.
Da questo vertice sacro, il percorso scende lungo le strade strette del centro antico, dove il tempo sembra essersi fermato.
Qui, il passaggio dalla religione greca a quella romana, e poi all’influenza bizantina, non è stato un taglio netto, ma una trasformazione lenta, quasi naturale.
Gli antichi templi si sono trasformati in chiese, le statue degli dei hanno lasciato il posto alla croce a alle icone dei santi, e le feste pagane si sono fuse con quelle cristiane, dando vita a una tradizione viva e unica al mondo.
Scendendo verso il mare, si percepisce il senso di accoglienza che ha sempre caratterizzato Napoli e, il porto, infatti, non era soltanto luogo di scambi commerciali, ma anche punto di incontro di popoli, culture e fedi diverse.
Chi sbarcava trovava una città capace di accogliere, di comprendere e di far sentire ogni straniero “a casa” e, la fede napoletana, più che una dottrina, era ed è un sentimento collettivo: un abbraccio che unisce chi arriva e chi resta, come una madre che apre le braccia ai suoi figli.
Questo percorso ideale, che parte dal cuore antico e si apre verso il mare, rappresenta non solo una geografia urbana, ma un viaggio dell’anima.
È la testimonianza di come la credenza, qualunque forma abbia assunto nel corso dei secoli, sia stata il filo invisibile che ha guidato la crescita della città.
Eppure, nonostante la ricchezza di simboli e di storia, questo principio profondo è spesso sfuggito a chi ha studiato Napoli solo dal punto di vista materiale o artistico, senza coglierne la dimensione spirituale e umana.
Napoli non è una città da osservare, essa va ascoltata in tutto è una città da sentire, da vivere e da credere. È un luogo dove la fede non si impone, ma si respira, come così per tutte le altre cose che la compongono e, ancora oggi, il cammino da Caponapoli al mare continua a raccontare, a chi sa ascoltare, la storia di un popolo che nella credenza trova la propria identità e nella spiritualità la propria casa.
Dopo Caponapoli, cuore più antico della città, il cammino della fede prosegue verso il luogo dove sorgeva l’antico tempio di Ercole, simbolo della forza e della protezione divina per i naviganti e per chi giungeva dal mare. Di quel tempio, oggi scomparso, resta il ricordo nelle fondamenta e nella memoria popolare, trasformato nel tempo nella Stefanea, una chiesa dedicata al culto cristiano bizantino, che segnò il passaggio dall’antico al nuovo, dal paganesimo alla fede in Cristo.
Fu un cambiamento senza fratture: il sacro rimase, mutando solo linguaggio e forma.
Da qui si apre il tempo della Napoli ducale, quando la città, ormai consolidata nella sua identità cristiana, iniziò ad espandersi oltre le mura. Le strade si fecero più ampie, gli edifici più alti, e il fervore religioso trovò nuove vie d’espressione. In particolare, la zona che evocava per i marinai il lontano Egitto e, la strada che oggi conosciamo come via mezzo cannone sino alla statua del Nilo, divenne un luogo di straordinaria mescolanza culturale e spirituale.
Qui gli antichi templi furono trasformati in chiese, e accanto a esse sorsero cappelle votive, segni di devozione quotidiana e di ringraziamento per la protezione ricevuta nei viaggi per mare.
Tra i protagonisti di questo fervore religioso vi furono gli stradioti, soldati e mercenari di origine greco-albanese, che portarono con sé le proprie tradizioni, le icone e la loro fede profonda.
Costruirono piccole cappelle per accompagnare le loro missioni, lasciando alla città nuove tracce di spiritualità che ancora oggi sopravvivono nei vicoli più nascosti.
In questo contesto, non si può non ricordare la piccola chiesa di Sant’Atanasio Patriarca, che sorgeva proprio dove oggi si estendono le scalinate e le strade del vecchio convento, divenuto in seguito parte dell’Università Federico II.
Le cui spoglie o emblemi alessandrini sono gelosamente custodite nei luoghi vietati al pubblico nei plessi della credenza odierna, e chissà che non siano proprio quelle resta sacre a fermare il Vesuvio che li attende di velare il pagano di turno che ancor oggi imera
Quel luogo, oggi dedicato al sapere, fu un tempo spazio di preghiera, di raccoglimento e di fede, testimonianza di come a Napoli sacro e profano, cultura e religione, siano sempre stati intrecciati in un unico destino.
Questi sono solo alcuni accenni di un cammino più vasto, che ancora attende di essere riscoperto e compreso.
Molti studiosi e ricercatori, forse distratti dal fascino dei monumenti o delle grandi opere d’arte, non hanno colto la profondità di questa trama spirituale che lega i luoghi della città, guardando i tetti delle case, ma non sempre alle fondamenta, dove invece si custodisce l’anima di Napoli e, quella fede antica e viva che continua, in silenzio, a respirare sotto ogni pietra.
A questo punto del cammino, non si può non citare la Napoli che si espandeva verso ovest, proiettandosi oltre le mura antiche, in una nuova dimensione urbana e spirituale.
In quel percorso di crescita sorgeva uno dei luoghi di culto più antichi e maestosi della città e, il tempio che divenne la chiesa di San Giovanni Maggiore.
Le sue origini affondano in tempi remoti, quando il mare lambiva ancora quelle terre e i marinai si raccoglievano lì per chiedere protezione e ringraziare per i viaggi compiuti.
Si racconta che il primo edificio sacro fosse dedicato al dio Nettuno o a Ercole, e che su quelle stesse fondamenta, nei primi secoli del cristianesimo, sorse la chiesa di San Giovanni, divenuta poi “Maggiore” per distinguerla da altre minori.
La sua imponenza, la solidità delle sue mura e la profondità del suo significato ne fecero uno dei luoghi più stabili e sacri di tutto il continente europeo, un punto d’incontro tra fede e storia che ancora oggi non trova pari.
Fu proprio per la sua importanza che, dopo il Concilio di Trento (1545–1563), la chiesa di San Giovanni Maggiore divenne teatro di una vicenda emblematica: due lastre di marmo inciso, testimonianze di una fede condivisa e di un dialogo tra le religioni d’Oriente e d’Occidente, furono asportate e murate, quasi imprigionate nel silenzio della pietra.
Quelle lastre rappresentavano un messaggio di unità e uguaglianza spirituale, un linguaggio universale che riconosceva la stessa luce in ogni culto, senza prevaricazioni né confini.
Napoli, città di popoli e di mari, aveva così trovato in San Giovanni Maggiore il suo centro simbolico di armonia religiosa, un luogo dove l’anima greca, latina e bizantina convivevano in equilibrio.
Qui il popolo multietnico della città, marinai, mercanti, studiosi, artigiani, stranieri e locali, si ritrovava per celebrare insieme le ricorrenze del calendario solare e lunare, in una fusione perfetta tra tempo umano e tempo divino.
Era una fede vissuta come memoria e come speranza, un continuo “fare credenza” che univa le stagioni, i popoli e i destini.
San Giovanni Maggiore, dunque, non è solo una chiesa: è una sintesi vivente dell’identità napoletana, il luogo in cui l’Oriente e l’Occidente si sono riconosciuti come fratelli, dove la differenza non separa ma arricchisce, e dove il sacro si fa spazio di incontro, non di confine.
E ancora oggi, chi vi entra può sentire il respiro profondo di quella fede antica che, nonostante i secoli e le trasformazioni, continua a custodire l’essenza universale della città: la capacità di accogliere, comprendere e credere senza paura delle diversità.
Due secoli dopo, quando quelle lastre di marmo che univano Oriente e Occidente furono finalmente ritrovate, il tempo era ormai cambiato. La Roma trionfante della Controriforma aveva imposto un nuovo ordine, più rigido e centralizzato, dove la libertà del pensiero e la mescolanza dei culti non trovavano più spazio.
Così, ciò che un tempo era stato simbolo di armonia e fratellanza tra i popoli, fu accolto con garbo e diffidenza, velato e diviso, reinterpretato secondo criteri “progettuali” che ne cancellarono il significato originario.
Il segno dell’unione divenne così un segreto custodito, relegato nella “prigione vescovile”, lontano dagli occhi e dalle coscienze.
In quel gesto, apparentemente prudente, ma in realtà profondamente temeroso, si nasconde il dramma della fede istituzionalizzata: l’incapacità di riconoscere ciò che non si può controllare.
E così, mentre la città continuava a vivere la sua devozione spontanea, popolare, colorata e umana, il potere ecclesiastico cominciava a dimenticare le sue stesse origini.
Oggi, secoli dopo, i papati che salgono sul trono, figure spesso animate dal desiderio sincero di pace e unità, implorano e invocano un segno, un manufatto che possa unire le genti e placare le inquietudini della credenza.
Eppure, senza saperlo, chiedono ciò che già possiedono: la testimonianza silenziosa di quella Napoli che aveva trovato, molto prima di loro, la via della conciliazione tra Est e Ovest, tra sacro e profano, tra uomo e Dio.
Ignari della storia religiosa di questa città, dove ogni pietra cela una fede e ogni fede un ricordo, molti cercano nei simboli moderni ciò che è già scritto nelle fondamenta della città stessa.
Napoli, con le sue cose velate, i suoi segreti religiosi nascosti e le sue reliquie dimenticate, continua a custodire un messaggio universale: che l’unione non si costruisce con i decreti, ma si vive nei gesti, nella memoria e nella pietà quotidiana di un popolo che, anche nel silenzio, non ha mai smesso di credere.
Arch. Atanasio Pizzi direttore A.R.S.A.N. (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë Napoletano)
Napoli 2025-10-30 – Giovedì








