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ORA È IL TEMPO DELL’OLIVETANO ARBËREŞË (Hoj Thanà fijtë dallië e dalljë pà sëriturë sj gnë mosë thë maren përë shimitrotë)

Posted on 28 settembre 2025 by admin

Mamma5NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Olivetano Basile) – Per quanti dicono di essere nati con santità di ascolto e comprensione saggia, per seguire il cammino storico, di operato, bonifica e vissuto della minoranza arbëreşe, è confermato che abbiano avuto quale scuola primaria quella di Nocera Inferiore!

La convinzione nasce dal dato che il solo, in grado di ascoltare capire e tradurre gli antichi riverberi, per tracciare il “percorso storico indivisibile”, che non sia stato “ardire Nocereste”, non appartiene alla categoria degli eletti di queste pubbliche apparizioni editoriali, ma i due storici che in Campania sono stati scelti come Olivetani Partenopei.

E oggi l’unica figura in grado a dare senso alla lingua che resiste nel tempo, perché memoria di una diaspora antica priva di atti scritti e, affiancata da un’ugola con sangue dei Caruso, definendo un temine a questo penoso confino di pena mentale diffusa nei Katundë arbëreşe.

Questa metafora nasce dai toni lessicali riverberati nei secoli da una scia di contaminatori seriali o confinati sotto il castello di Nocera, si è adagiata a scrivere imitando i solchi della terra promessa, colmandoli di ricordi e memoria ignota, per poi procedere secondo la linea di una bussola etica che non segue neanche pe errore, gli echi di quel canto antico in arbëreşe.

Se a questo aggiungiamo che i preposti, si sono lasciati incantare dalla coda alfabetata davanti all’istituto di Nocera, dove non apparì mai la “Z”.

Si deduce facilmente che gli eletti “proposti” continueranno a vagare nei vicoli, coprendo di isterismi lessicali, che ancora a oggi non sanno come si costruiscono pennini e sagomare calamai e immaginate quanto tempo serve ancora per capire che serve anche carta e inchiostro.

In tutto una carriera o scia di pensiero povero e rumoroso, colmo di battiti ferrosi assordanti, che generavano e generano un continuo marinare l’ascolto e, diventare viandanti, per poi apparire, nelle note del registro di classe dell’istituto Vittorio Emanuele II di Nocera Inferiore.

Sono queste ondeggianti o instabili figure lljtirë a realizzare il cumulo di episodio albanistici, narrati senza termine, alla spasmodica compilazione di un dizionario, che non voce di parlato, pianto, preghiera, amore, senza ricorrere alla memoria scritta o grafitata.

Così, tra simposi autoreferenziali e bibliografie inventate, hanno disperso l’eredità di oltre cento Katundë, frammento tutti con episodi che vorrebbero indicizzare, reperti per fare ristorazione per turisti distratti.

E di fronte ai canti antichi che risuona nei Katundë, nessun uno, hanno avuto capacità di ascoltare le storie tramandate a voce, il dolore nell’essere stati costretti a fuggire per non pensare, parlare e pregare come imponeva l’invasore Beg.

Gli incauti prescelti santificati dalla politica, oltre ad aver smarrito la via del pensiero hanno reso ogni gesto un atto sconnesso, un’eredità per disperati, come si fa con la cenere di un camino quando termina di riscaldare la si lascia si adagia nel lavinaio di casa per essere dispeso dalla pioggia.

E ogni frammento di quella cenere, si presentano come parlato, che millanta di riscaldare gli animi freddi della storia, oltremodo esaltati in atto che vorrebbe imitare la presenza di valori e forme di un tempo, senza avere consapevolezza che quella è cenere fredda del camino di nonna Elvira, che depositava fuori l’uscio di casa, sotto il noce per impolverare le gesta delle Magare.

Tuttavia quello che oggi rimane, sono le gesta delle nostre genitrici, la manualità di nonne, madri e sorelle, che, teniamo solidamente impresse sul cuore e nella mente, sono loro che alimentano la sapienza dell’Olivetano.

A tal fine torna in mente, quando esse preparavano il pranzo per la famiglia, non per dovere, ma per credenza, con gesti rituali che sfuggono alla modernità e alla ossessione di efficienza, che non deve essere di mero piatto da millantare genuino, ma gesto celebrativo di una consuetudine antica.

Le loro gesta non cercavano applausi, né telecamere o visualizzazioni di merito perché rappresentavano un atto fondativo, che univa ciò che il mondo odierno prova a disegnare per fare sunto svilito.

Non c’è bisogno di decreti né di assemblea, o di giovincelli/e inesperte guidati dal mugnaio matto, perché basta una ciotola di terracotta, il pane che prende forma tra le dita impolverate di bianco delle donne arbëreşë, il profumo dell’erba aromatica raccolta all’alba, in tutto la semplicità che sfiora la liturgia, per compiere memoria, che altrove si smarrisce e, qui si conserva per confermare memoria.

Così, mentre fuori tutto pare vacillare tra il rumore e la frenesia, le nostre nonne madri e sorelle segnano un ordine antico, con la loro manualità che non palesa potere, ma la sostanza della famiglia unita.

Nessuno mai ha visto la propria madre limitarsi a benedire farina con acqua e rami di origano, dentro una ciotola, o preparare pane da infornare, perché questi gesti regolavano, curavano il ritmo della saggezza.

E proprio lì, dove si preparano pietanze con gesta e manualità, priva di titoli accademici, la storia continua a ripetersi nei gesti, fatti con le mani che armate di filo e ago per unire gli strappi di un costume antico.

La manualità in forma di arte nei Katundë è sapere silenzioso, che tramanda parole, gesti e ogni movimento delle mani diventa memoria antica, assumendo un significato che superava il tempo.

In casa e nei campi, il lavoro non conosceva pausa, non si trattava solo di fatica fisica, ma di una dedizione profonda, quasi sacra, che teneva connessi come un fascio, alla terra, alle stagioni, al senso stesso della vita.

Qui non serve orologi per sapere quando seminare, né di ricette scritte per cucinare, ma basta il tatto, l’osservazione, l’esperienza.

Le mani erano strumenti, ma anche archivi di sapere antico, come quando una madre impastava il pane o un padre sistemava la vite e, non facevano solo un gesto pratico, ma ripetevano un rito, ereditato da generazioni che avevano imparato ascoltando la natura e osservando gli anziani.

Oggi, quel sapere è spesso confuso, mescolato, oscurato dalle modernità e, la velocità ci ha tolto il tempo della pazienza, la tecnologia ha promesso comodità, ma ha portato noi lontani da quell’intimità di cose semplici.

Si è persa la fiducia del gesto umile, della conoscenza non scritta e le gesta di un tempo da protagoniste, sono diventate strumenti secondari, mentre la mente vaga tra schermi e notifiche.

Eppure, in quel passato che sembra così distante, c’era una presenza piena, una consapevolezza che oggi manca.

Non c’era bisogno di andare a Barcellona, Madrid o Venezia per sapere se siamo stati vivi o siamo esistiti veramente, perché basta saper accendere un camino, allestire un orto, riparare un oggetto, raccontare una storia da intorno a quel fuoco antico di casa.

Il sapere non chiede di essere compreso, ma semplicemente accolto e chi possiede questa qualità non si vantava, perché la vera sapienza non fa rumore e non grida come fanno quanti scrivono o fanno scrivere ad editi per immergersi nella storia degli arbëreşë.

Forse, ritornare a quel modo di vivere non è possibile, ma ascoltarlo per ricordarlo secondo la metrica del loro silenzio, si trova e si acquisisce più verità di quanta si possa leggere oggi in mille pagine di bugie nate cresciute e pasciute attorno al Collegio delle fratrie.

Fornire immagini del costume, appellandolo con leggerezza “di mezza festa” o “mezzo lutto”, significa svilirlo, assegnando una misura incerta, colma di pochezza culturale osando di fare ricerca senza prima ascoltare come ha fatto l’olivetano che ha guardato, diversamente da chi ha solo fotografato senza osservare, per apprendere e capire.

Ancora più grave è il dato che alcuni giudizi sono stati approvati, timbrati, elevati a verità dai preposti distratti, si proprio loro gli incapaci di cogliere il peso simbolico, l’identità profonda, il respiro antico che vive nei dettagli del costume.

Perché quello che vediamo non è solo raso intrecciato di seta e cotone, non è solo colore, ma una sola e indissolubile memoria di lutto vissuto, fede tramandata e gioia trattenuta con pudore davanti a dio in chiesa e al fuoco del camino in casa aspettando chi lavora nei campi al rientro.

Solo chi nasce e cresce olivetano arbëreshë, può davvero distinguere il fatuo dalla crusca genuina perché ha visto la nonna vestirsi al mattino con gesti precisi, come se ogni giorno fosse un rito e non un tempo di noia.

E lui sempre che con orecchi attenti, ascoltava il raccontare, perché di un velo, un merletto o come deve avvolgere braccia spalle e seno un Gipunë, come deve scendere la zògha e, il motivo di apporre un nastro, perché deve durare, e fare ascolto in silenzio.

Gli altri, per quanto titolati o premiati possano essere, parlano da fuori dietro la porta o in mezzo la Gjitonia e non sanno comprenderne i confini, rimanendo come ventose che da dietro un vetro, vivono il freddo gelido della stagione corta.

Non basta tradurre un canto o trascrivere un proverbio per capire un popolo, ma bisogna respirarne l’aria, per vivere il dolore, la fierezza con ardore antico.

Altrimenti, si finisce per chiamare “folclore” ciò che è sacralità, e “curiosità etnografica” ciò che è sangue, terra e identità di un parlato antico.

E forse non è colpa loro se non vedono, ma colpa vostra che state in silenzio sperando che uno vi inviti a mangiare e bere vino dove mai una madre ha impastato la saggezza culinaria degli arbëreşe davanti al camino che ormai vive spento.

Gli Arbëreşë, per dare vita al Katundë, non hanno innalzato fortezze, ma costruito i muri delle case, pietra su pietra, mettendo al centro la famiglia e la comunità.

Per formare una famiglia, non si sono affidati al caso, ma hanno tessuto a mano il vestito nuziale,
intrecciando fili di tradizione, identità e speranza.

Per creare un’economia, non hanno cercato ricchezze facili, ma hanno rassodato la terra con fatica e dedizione, rendendola fertile con il sudore e con pazienza hanno atteso i germogli.

Per fondare una nazione, non hanno mosso guerra, non hanno conquistato con le armi, ma hanno inventato l’integrazione, il dialogo, dei popoli in pena di camminare.

E per fare memoria, non hanno scritto i libri, ma hanno ricordato con la voce, i gesti, i canti,
tramandando saperi e storie come si tramanda ciò che si vive ascoltando il cuore e l’anima, delle generazioni.

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                     Napoli 2025-09-28

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