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“Katundë Arbëreşë tra Storia, Credenza, Parlato, Ascolto e Urbanistica “

Posted on 23 settembre 2025 by admin

Bimbaa2Atanasio PIZZI Architetto BASILE – Le popolazioni insediatasi nel meridione a seguito della diaspora balcanica, si riconoscono nello storico enunciato secondo cui: il sangue sparso si unisce nel ricordo; (gjàku i şëprishurë su ghàrrùa), il che sintetizza la misura delle innumerevoli gocce, dello stesso sangue, che trovarono dimora nell’ampolla, denominata: Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Tutto nasce dalla necessita di un popolo, stretto tra i flutti di un destino crudele e le fiamme della propria coscienza, decise di partire, non per fuggire, ma per custodire.

Custodire una verità antica, una morale non scritta che scorreva nelle vene come il sangue e che nessun decreto, nessun esercito, nessuna ideologia avrebbe potuto estirpare.

Da quella terra aspra e sacra che si affaccia sull’Adriatico dove le montagne parlano la lingua degli antenati e le acque portano ancora l’eco dei giuramenti fatti contro la luna, essi presero il mare, non per cercare fortuna, ma per restare fedeli e, continuare a essere ciò che erano, in casa loro.

Ogni passo di questo esodo fu un atto di resistenza silenziosa, perché non c’erano armi, né proclami, solo famiglie intere, madri e padri, anziani e bambini che si muovevano con la dignità di chi sa che la propria cultura vale più dell’oro, più della vita stessa.

Essi attraversarono terre sconosciute, valicarono confini invisibili tracciati dai potenti, e si insediarono in nuovi mondi portando con sé non solo il pane e la lingua, ma soprattutto l’anima.

Eppure, la storia ufficiale, quella scritta nei palazzi del potere e nei salotti degli accademici, ha spesso preferito ignorarli. O peggio, confinarli in note a piè di pagina, derubricandoli a fenomeno folclorico, o manipolandoli con ambiguità travestite da analisi.

E quanti oggi alla fine di un inutile carriera di lampi e tuoni che svelano la propria catastrofe, sono proni davanti ai nuovi dogmi del consenso, inventano itinerari di germoglio che questi uomini e donne non hanno mai rappresentato e, rappresentato: la morale di resistenza attraverso i secoli di una discendenza indoeuropea che non ha bisogno di certificati scritti o grafitati.

Ma questa è la loro storia che non chiede gloria e, noi siamo qui per raccontarla, delineando le direttrici fondanti degli insediamenti Arbëreşë, nati delle ondate migratorie ancora poco note e, limitato a nord dal potere romano e inseguiti da est dalla luna che non ha mai smesso si calare e, oggi si traveste di sole.

Essi non si sono fermati a ricostruire un’identità perduta, ma contribuito attivamente alla definizione delle dinamiche abitative, produttive e religiose dei territori in cui sono giunti, costituendo un laboratorio sociale e religioso per calmierare il confronto tra oriente e occidente.

Nelle regioni di Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Abruzzo e Molise, il Mezzogiorno intero, essi si sono strutturati mantenendo tratti linguistici, religiosi e organizzativi comuni, senza non poche difficoltà per interagirsi con il tessuto locale, secondo le arche strategiche prestabilite.

Queste macroaree si leggono ancora oggi non soltanto come ambiti geografici, ma come sistemi di resistenza e adattamento, nei quali e attraverso i quali, la memoria collettiva e le esigenze del quotidiano hanno modellato ogni cosa, ad uso di codici specifici secondo antiche consuetudini.

La topologia d’insediamento segue le logiche di difesa di iunctura familiare connesso tra centro antico e la natura circostante, secondo gli snodi e le tappe della credenza misura per fare anche una chiesa nuova.

Le architetture vernacolari, i sistemi di aggregazione familiare, i vichi, gli archi i vicoli ciechi e gli otri botanici, sono la forza strategica di una cultura della sopravvivenza e dell’autonomia che bandisce le murazioni del Borgo medioevale.

Qui la casa assume un valore rituale oltre che funzionale attraverso il parlato, l’ascolto della lingua e, rendeva solido il modello fatto di consuetudini solidali mai rinnegate.

I materiali impiegati, l’orientamento delle costruzioni, le modalità di aggregazione, evidenziano un sapere tecnico legato alla memoria collettiva che diviene credenza e ricordo di provenienza.

La chiesa non è solo religione ma anche un simbolo di uguaglianza dove generi e fratrie non si dispongono secondo le forme piramidali dei poteri forti, ma secondo il rispetto fraterno espresso dal governo delle donne arbëreşë.

La chiesa è fulcro insediativo diretto dal sole e, il sacro rende solidale l’uguaglianza civile, le feste, i battesimi, i matrimoni e i funerali sono riti comunitari che uniscono famiglie segnando spazio sacro e spazio abitato.

Il parallelismo ambientale qui ritrovato, mette a confronto le dinamiche e i patimenti del Meridione italiano, evidenziando affinità strutturali, nonostante la diversa matrice culturale.

Questa analogia consente di leggere l’insediamento non come corpo estraneo, ma come una delle tante risposte storiche alla questione dell’abitare il Sud collinare, che ancora oggi interroga la pianificazione, la conservazione e la valorizzazione dei piccoli più moderni incontaminati.

 Così come stupisce il percorso storico di integrazione secondo un progetto antico, di cui ancora oggi, pochi ne hanno saputo trarne i principi o i contenuti di radice, per poi avere i benefici di integrazione mediterranea tra popoli, oggi in affanno, pena e bisogno.

Nel cuore del Meridione, dove le strade si arrampicano lente tra faggi, castagni, gelseti e pietre antiche, esistono luoghi che sembrano resistere al tempo più per ostinazione che per caso.

Sono i piccoli centri montani arbëreşë, ovvero i Katundë, che restano abbarbicati alle alture del cuore mediterraneo peninsulare che sono più delle isole culturali, circondate dal bosco, in tutto centri antichi che non compaiono nelle mappe dei turisti, ma che custodiscono una memoria lunga e profonda, fatta di vento, di silenzi e di voci basse.

Questi centri, non sono semplicemente “aree interne” da sviluppare ma sono luoghi da sostenere con garbo, dove il tempo è segnato dalle campane della chiesa, mentre i frutti stesi al sole davanti casa sono pronti a fare  radici nuove, questo è il ciclico, dove il paesaggio non è sfondo ma risorsa primaria.

In esso si avverte una forma di verità ruvida, senza ornamenti, in tutto la verità di un meridione che ha vissuto ai margini, ma con una densità spirituale difficile da ritrovare altrove.

Camminare tra le vie e i vicoli articolati di questi centri antichi, anche in inverno, quando le nubi rasentano i tetti e le campane scandiscono le ore, ed è qui che si avverte sempre la presenza l’idea di quanti in casa sostengono questi luoghi, dove la modernità non è assente, ma si muove con passi incerti e rispettosi, a volte respinta e, avvolte è lei che ascolta stupita.

Le voci che in ogni casa chiusa, ogni anziano che osserva e ogni bimbo che piange, raccontano un legame profondo con la terra, con la fatica, con la memoria che rende speciali questi luoghi.

L’olivetano arbëreşë adottato da Partenope 

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