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E ANCHE QUESTA FAVOLA DIVENTA UN GIOCO Palljashmitj i bhërj britë trimaxitë

Posted on 18 settembre 2025 by admin

pinocchio2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel corso della formazione, fin dai primi anni di vita, i bambini incontrano le fiabe come un primo ponte tra realtà e immaginazione, tra esperienza e simbolo.

Storie come Biancaneve, Pinocchio, Cappuccetto Rosso o Il gatto con gli stivali non sono semplici racconti, ma universi narrativi in cui ogni personaggio, ogni gesto, ogni dettaglio ha un ruolo insostituibile.

Tuttavia, col tempo, abbiamo spesso ridotto queste fiabe a icone individuali, mitizzando il protagonista, la bella addormentata, il burattino disobbediente, la bambina col mantello rosso e, oscurando l’insieme.

Ma una fiaba non è fatta per esaltare un solo personaggio, il suo fascino non vive nella figura eroica, ma nell’intreccio delle relazioni, nella coralità delle voci, nell’equilibrio di tutte le presenze che la compongono.

Isolare una figura e farne il centro assoluto del racconto non è solo una semplificazione: è una perdita di senso.

Ogni storia vive nella sua totalità, Biancaneve non esisterebbe senza la Regina, senza i nani, senza lo specchio; Pinocchio non ha senso senza Geppetto, il Grillo, la Fata, Mangiafuoco; Cappuccetto Rosso è solo una bambina qualunque se non c’è il lupo, la nonna, il bosco, il cacciatore.

Formare gli infanti attraverso le fiabe significa educare alla complessità dell’insieme, non all’idolatria del singolo e, significa mostrare che ogni personaggio ha un ruolo, ogni scelta una conseguenza, ogni voce un valore. Anche quelle che sembrano minori.

Questa edito non vuole riscrivere le fiabe, né rovesciarle, ma vuole rileggerle come sistemi narrativi vivi, dove nessuno è protagonista assoluto e tutti concorrono al significato.

È un invito a guardare le storie con occhi più ampi, ad ascoltare anche chi sta sullo sfondo, a comprendere che la vera ricchezza non sta nella gloria individuale, ma nell’armonia dell’insieme e, solo così, la fiaba conserva il suo potere educativo, solo così, diventa davvero formazione o informazione.

Le fiabe classiche che attraversano la formazione infantile, come: Pinocchio, Cappuccetto Rosso o Il gatto con gli, non sono racconti semplici, né mai nate per essere ridotte a mascotte scolastiche, a oggetti scenici o a temi da ricorrenza.

Sono epiche di formazione, narrazioni profonde e stratificate, che parlano simbolicamente di crescita, paura, desiderio, responsabilità, perdita e identità.

Eppure, troppo spesso, anche in ambiti educativi e istituzionali, si cede alla tentazione di semplificare il racconto, di “approvarlo” e proporlo solo attraverso elementi iconici e isolati: la casetta nel bosco, la mela avvelenata, il lupo cattivo, la giostra del paese, il naso lungo, la scarpetta smarrita.

Oggetti e simboli che, estrapolati dalla complessità narrativa che li genera, diventano feticci privi di forza formativa, perché una storia non si educa con una sola casa, non si cresce con un solo bosco, non si comprende il mondo attraverso una giostra.

Ogni fiaba è un organismo narrativo complesso, in cui ogni personaggio, anche il più silenzioso, contribuisce al senso, e in cui ogni ambientazione è parte di un percorso simbolico più ampio.

Ridurla a una “festa a tema” o a un “laboratorio sul personaggio” rischia di svuotarla della sua funzione originaria che, deve educare all’equilibrio tra immaginazione e realtà, tra giusto e ingiusto, tra sé e l’altro.

Non si può fare vera formazione infantile se si censura la complessità, non si può parlare di crescita senza attraversare l’intera storia, non si può approvare una fiaba spezzata, frammentata o trasformata in prodotto.

Solo restituendo l’interezza del racconto, solo ricomponendo il senso dell’insieme, possiamo rendere queste fiabe ancora vive, ancora capaci di formare, ancora degne di entrare nelle scuole, nei programmi, nelle istituzioni.

Perché non è con una mela, un bosco o una giostra che si cresce, giacché con il racconto intero, e con tutti coloro che la vissero che si fa formazione e si dà senso a quella determinata esperienza.

Questa riflessione nasce non da un intento polemico, ma da un’osservazione ineludibile, viste
le attività promosse da alte istituzioni nazionali, in accordo con gli apparati preposti all’informazione di massa, con il rischio di svuotare di senso ciò che dovrebbe costituire il cuore della trasmissione culturale.

Parliamo non della favola o del racconto popolare, simbolico, antico, ma parliamo della narrativa che, più di ogni altra, ha saputo educare all’ascolto, alla convivenza, alla paura e alla speranza, alla relazione con l’ignoto, alla gestione del desiderio e del limite.

Eppure, queste storie, patrimonio del Mediterraneo, voce millenaria di popoli migranti, di madri narratrici, di alfabeti orali e linguaggi del cuore, vengono oggi ridotte, spezzettate, svuotate.

E dalla favola resta solo la scenografia infantile di una recita scolastica, la figura stereotipata per un laboratorio, l’oggetto di consumo di una festa tematica.

Lasciando sfuggire in dato che proprio questa storia è stata, il modello più solido di accoglienza e di trasmissione simbolica dell’identità collettiva nel Mediterraneo.

Un modello che non educava separandolo, ma unendo, non si semplificava, ma si stratificava, ma lo si rendeva narrazione unica e indivisibile.

Quando una favola viene spezzata, quando si isola un personaggio, si svuota il contesto, si rimuove la complessità non resta nulla di quel modello originario.

E se proprio quel modello viene “approvato” dalle istituzioni, ma svuotato della sua coerenza, allora cade a terra ogni sistema culturale che voglia definirsi educativo.

Non si può parlare di accoglienza, se si esclude la voce del diverso nella fiaba, non si può parlare di identità, se si taglia il filo simbolico che collega il narratore all’ascoltatore, non si può fare cultura, se si manipola il racconto per adattarlo a contesti superficiali e privi di profondità educativa.

La fiaba è un corpo intero, non un collage, in quatto organismo narrativo completo, con il suo respiro, le sue pause, i suoi rischi, le sue svolte.

Privarla di tutto questo significa non solo tradirla, ma tradire ciò che siamo stati e ciò che potremmo ancora essere.

Quando la fiaba cade, cade anche la possibilità di credere in un altro, in un futuro, in una parola che insegni, consoli e, con essa, si sgretola anche il senso della cultura come sistema vivo.

A breve, secondo quanto annunciato da fonti ufficiali, avrà inizio un’iniziativa promossa da un accordo tra lo Stato e il sistema informativo pubblico, volta a raccontare e celebrare “una favola della nostra tradizione”.
Un progetto presentato come nazionale, educativo, storico e, nelle dichiarazioni iniziali, si promette di valorizzare “il patrimonio simbolico, culturale e popolare che unisce il nostro Paese”.

Eppure, alla prova dei fatti, di nazionale ha ben poco, perché le regioni realmente protagoniste di quella favola sette, tutte storicamente coinvolte in un modello culturale comune e stratificato, di cui sono state escluse, tranne una.

Una sola regione chiamata a rappresentare l’intero racconto, una sola a parlare, mentre le altre restano in silenzio.
E per tutte le altre, una promessa vaga: “Per ora basta così, il futuro sarà chiaro e coinvolgerà tutti.”

Ma una favola non si racconta a metà, una cultura non si costruisce per turni, un banchetto non è una festa ma dimostrazione di potere.

La favola che si voleva celebrare parla di un tempo lontano in cui sette regioni del sud si incontravano, si scambiavano stoffe, parole, proverbi e sogni e, ogni anno, i Katundë a primavera si preparavano alla memoria collettiva, le strade si riempivano di voci canti e balli, in costume e, raccontavano storie, con le parole che passavano di bocca in bocca come semi da piantare.

Non c’era un re, non c’era un centro, ma equilibrio narrativo e culturale, fragile ma reale, in cui ogni terra portava qualcosa che nessun’altra poteva imitare.

Le discussioni erano accese, si parlava di chi aveva il grano migliore, il canto più antico, la danza più rotonda e, pur se nessuno pretendeva di avere tutto, è la pluralità a rendere quel racconto una favola vera.

Oggi, invece, si vuole raccontare quella stessa favola da una sola finestra, su un solo balcone, con una sola voce.
Si distribuiscono microfoni e telecamere come se fossero premi, non strumenti di condivisione.
Si costruisce un evento che dimentica che il Mediterraneo è polifonico, che la tradizione non è una proprietà, ma un coro.

Così facendo, si spezza non solo la storia, ma anche il senso stesso della cultura e, si trasforma una narrazione collettiva in una favola mutilata, dove il banchetto non è più festa, ma spettacolo;
i costumi diventano scenografie, e le discussioni vengono silenziate in nome dell’efficienza mediatica.

Una favola senza tutti i suoi narratori non è una favola, ma una rappresentazione vuota, utile solo a chi deve mostrarsi, non a chi vuole formare.

E intanto, le altre regioni aspettano, siedono fuori dalla sala, con in dosso i loro pani, i loro racconti, i loro gesti e, nel contempo si domandano: “È davvero questo il modo di raccontare chi siamo noi arbëreşë?”

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                     Napoli 2025-09-18

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