NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In origine, prima che l’industria del costruire prendesse forma, i centri antichi primari si fondavano su risorse naturali, saperi tradizionali e intenti condivisi.
Le abitazioni cosi progettate venivano realizzate con materiali locali quali legno, pietra, terra cruda e canne, il tutto poi veniva innalzato, secondo tecniche tramandate oralmente e, l’architettura rifletteva i bisogni del territorio.
E anche i Katundë si svilupparono in armonia con la natura, privilegiando la sostenibilità e la connessione con l’ambiente naturale.
Di contro le Civitas, nasceva attorno a un’idea di ordine sociale e spazio pubblico, dove la costruzione rispondeva più a una visione collettiva e politica.
Tuttavia entrambi i sistemi erano basati su relazioni, rituali e funzioni quotidiane, molto prima che la costruzione diventasse il profitto dell’industria.
Ne corso della storia, l’essere umano ha sentito il bisogno di unirsi ad altri simili sin dalle ere più antiche, per costruire spazi comuni dove vivere, scambiare beni, difendersi e praticare riti.
Prima ancora che l’urbanistica diventasse una scienza o che l’edilizia fosse regolata da tecniche industriali, la nascita di centri abitati in forma di, paesi e città si fondava su un forte senso di cooperazione sociale e, proprio da questa unione che nacquero i primi centri, le cui radici germogliarono nei nostri attuali insediamenti urbani.
I primi esempi noti di organizzazione sociale, per la costruzione di centri urbani si trovano in Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate, qui le popolazioni sumere intorno al 3000 a.C., fondarono città-stato come Uruk, Ur e Lagash, che avevano al centro un tempio (ziggurat), simbolo dell’unione tra potere religioso, civile e produttivo.
L’intera comunità partecipava alla costruzione degli edifici, lavorando secondo un sistema di ruoli e doveri condivisi e, il modello metteva al centro gli elementi pulsanti della vita urbana.
Anche nell’Antico Egitto, la costruzione di centri abitati e monumenti come le piramidi o i complessi templari non sarebbe stata possibile senza un forte sistema sociale unificato.
Qui la società si organizzava in gruppi di lavoro collettivo, spesso legati al culto del faraone, considerato un dio vivente.
Le città nacquero così attorno ai templi, con quartieri funzionali e un sistema di gestione che coinvolgeva operai, artigiani, scribi e architetti e, non era solo religione, ma una vera rete sociale organizzata attorno all’idea di costruire per il bene comune.
Con l’arrivo della civiltà greca, la costruzione dei centri urbani prese un carattere più politico e comunitario e, ogni città (polis) era progettata attorno all’agorà, una piazza pubblica dove i cittadini si incontravano per discutere, commerciare e prendere decisioni collettive.
I greci furono tra i primi a unire l’idea di architettura urbana e partecipazione civica, sviluppando un senso di appartenenza e di identità collettiva.
Anche la divisione degli spazi (residenziali, religiosi, commerciali) era pensata per favorire la coesione e la collaborazione tra le persone, anche se qui una sorta di diversificazione sociale iniziava germogliare attraverso il modello (Hora).
I Romani perfezionarono l’idea di città come spazio pubblico condiviso e, ogni nuova colonia seguiva uno schema preciso: foro centrale, cardo e decumano (le due vie principali), templi, terme, anfiteatri e acquedotti.
In definitiva la costruzione non era più solo frutto di iniziativa religiosa o spontanea, ma parte di un grande sistema organizzativo basato su leggi, manodopera specializzata e amministrazioni locali.
Roma riuscì a creare un modello urbano esportabile, dove ogni cittadino, anche se lontano dalla capitale, si sentiva parte di un unico ed esteso sistema comunitario.
Dopo la caduta dell’Impero Romano, durante il Medioevo, la costruzione dei centri storici si diresse attorno a castelli, monasteri e chiese.
Le comunità si raccoglievano per protezione e sostegno reciproco, costruendo mura, piazze, mercati e case con l’aiuto di corporazioni di mestieri e confraternite religiose, sulla base anche delle esperienze che i romani acquisirono quando iniziarono ad espandersi per accumunare potere.
Ancora una volta, fu la cooperazione sociale a rendere possibile la nascita e lo sviluppo dei piccoli centri antichi e, qui ogni elevato edilizio rappresentava, non solo una funzione pratica, ma anche un legame sociale tra le persone che lo avevano costruito.
La storia della costruzione dei centri storici è anche la storia dell’unione tra le persone, dalla Mesopotamia all’Europa medievale, ogni civiltà ha saputo creare città e paesi non solo con pietre e mattoni, ma soprattutto con idee condivise, collaborazione e spirito comunitario.
Prima ancora della tecnica, fu la coesione sociale a dare forma ai primi paesaggi urbani della storia.
Fin dall’antichità, l’uomo ha sentito l’esigenza di proteggere, organizzare e collegare gli spazi urbani.
La costruzione di mura attorno ai centri abitati e l’adozione di sistemi di iunctura urbana, ovvero quei dispositivi architettonici e urbanistici che mettono in relazione le diverse parti della città, hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo storico delle città e dei paesi.
“Murare” un centro abitato non significava solo costruire una barriera fisica per proteggersi da nemici esterni.
Le mura urbane avevano un forte valore simbolico e sociale: delimitavano lo spazio della città civile rispetto al mondo esterno, rappresentavano l’autonomia politica, la sicurezza collettiva, e in molti casi anche l’identità culturale di una comunità.
Le mura assunsero un ruolo centrale: Nelle città-stato greche, come Atene, dove la cinta muraria legava la polis al porto del Pireo, garantendo continuità commerciale e difensiva;
Nell’Impero Romano, le città erano spesso circondate da mura fortificate, ma anche collegate da strade consolari, vere arterie di comunicazione.
Nel Medioevo, quando le mura difensive assumevano un carattere più marcato: torri, bastioni, porte urbiche e cammini di ronda diventavano elementi fondamentali per la sopravvivenza dei borghi.
Le mura condizionavano la forma urbana: lo spazio interno era limitato e per questo densamente occupato, favorendo lo sviluppo verticale (case torri) e l’organizzazione compatta della città.
Anche i percorsi interni, vicoli, corti e passaggi, erano spesso legati alla logica difensiva.
Con il termine shiesciole (variante dialettale o storica usata in alcune zone italiane) si indicano spesso passaggi coperti, vicoli stretti, gallerie urbane o collegamenti tra edifici, tipici dei centri antichi medievali o rinascimentali e, queste strutture, spesso nate in modo spontaneo, avevano una funzione ben precisa, ovvero: proteggere dai venti, dalla pioggia o dal sole; collegare parti diverse della città in modo più diretto, offrire passaggi sicuri in caso di attacco, favorire l’intimità e la coesione tra famiglie o comunità ristrette.
Le shiesciole erano spesso costruite su proprietà comuni o condivise, il che rafforzava l’idea di collaborazione sociale e di complicità urbana.
In alcuni casi diventavano veri e propri elementi identitari del luogo, contribuendo a creare un tessuto urbano “labirintico”, ma funzionale alla vita comunitaria.
Un cambiamento decisivo nella storia della progettazione urbana si ha con Ippodamo di Mileto (V secolo a.C.), il primo urbanista teorico dell’antichità.
Il di cui sistema a griglia, detta sistema Ippodameo, introdusse una nuova logica ovvero: la città non doveva solo adattarsi al terreno o alla difesa, ma doveva essere ordinata, razionale e leggibile.
Il modello Ippodameo si basava su: Strade ortogonali che si incrociavano a 90°, formando isolati regolari; una divisione chiara tra spazi pubblici, privati e sacri; un’organizzazione funzionale dei quartieri, pensata per favorire la mobilità, la ventilazione e la distribuzione delle risorse.
Questo sistema fu adottato dai Greci, perfezionato dai Romani (nelle colonie e accampamenti militari), e ripreso in epoche successive fino al Rinascimento e all’Illuminismo.
Anche molte città moderne derivano ancora da principi Ippodameo, adattati a contesti diversi.
Il valore del sistema a griglia non era solo tecnico, ma sociale e, facilitava l’integrazione degli abitanti, migliorava la gestione dei beni comuni e dava alla città un’immagine di ordine condiviso.
La storia urbana mostra come la città sia sempre stata un equilibrio tra due forze opposte: da un lato, il bisogno di chiusura (mura, controllo degli accessi, percorsi protetti), dall’altro, la necessità di apertura e connessione (strade, piazze, passaggi coperti).
Le mura difendevano, ma delimitavano, i sistemi di iunctura come le shiesciole e le griglie ippodamee, ricucendo, collegando e ordinando il sistema sociale contenuto.
La forza di una città non stava solo nella sua capacità di proteggersi, ma anche nella sua abilità di connettere persone, spazi e funzioni in un organismo vivente, flessibile e coerente.
Murare un centro abitato, tracciare strade, costruire passaggi coperti o pianificare l’assetto urbano a griglia: ognuno di questi gesti non è mai stato solo architettonico, ma profondamente sociale e politico.
Le mura raccontano la paura e l’identità; i sistemi di connessione narrano la volontà di unione, scambio e coesistenza.
Insieme, hanno definito il volto delle città storiche, rendendole non solo insediamenti, ma spazi di vita condivisa.
La storia degli Arbëreshë è una storia di radici profonde e di rami che si allungano verso la luce, come alberi che non dimenticano mai la terra da cui sono nati, questo popolo non cercava solo rifugio, ma cercavano un luogo dove ricominciare, dove custodire la memoria e dove farla fiorire nuovamente il suo credo e le cose ereditate in millenni di ascolto.
Gli Arbëreshë, per la loro posizione lungo l’antica via che da Roma conduceva a Costantinopoli, accolsero per secoli i pellegrini penitenti diretti verso la nuova chiesa. Da questa esperienza di ascolto e accoglienza, hanno sviluppato una profonda sapienza relazionale, che si è riflessa nella forma e nella struttura storica dei katunde, ricostruiti nella regione storica meridionale, ad ovest del fiume adriatico sino allo jonio.
Fu con questa volontà, la volontà di vivere e di condividere, che gli Arbëreshë iniziarono a riedificare antichi centri abbandonati.
Non si trattava di semplici ricostruzioni architettoniche: ogni pietra posta, ogni sentiero tracciato, ogni casa sollevata era un atto di amore, un gesto di resistenza culturale e spirituale.
Quei centri tornavano a vivere non solo grazie al lavoro delle mani, ma anche per il soffio vitale delle storie, delle paure, delle gioie e delle memorie condivise dalle genti che li abitavano.
In ogni borgo riedificato si riversava un’eredità collettiva: il bagaglio umano e culturale di un popolo che non aveva mai smesso di raccontarsi, di tramandarsi, di vivere insieme.
Le parole si intrecciavano alle pietre, le tradizioni alle mura, le usanze ai paesaggi, così, i centri abitati tornavano a pulsare, diventando spazi vivi, aperti, comunitari.
Ciò che emerge chiaramente è il valore profondo di questi insediamenti, in quanto luoghi non solo abitati, ma vissuti.
Essi erano aperti, permeabili, sempre in dialogo con la natura circostante, che li rappresentava e, in un certo senso, li accoglieva, di giorno, le colline, i boschi, i venti sembravano avvolgere quei paesi come una madre fa con i propri figli e, li proteggeva, li nutriva, li faceva crescere, con i figli, che a loro volta, imparavano a conoscere il ritmo della terra, i suoi silenzi, le sue stagioni.
Gli Arbëreşë hanno saputo fare di ogni centro abitato un cuore pulsante, un luogo di rinascita, un nodo vitale in cui la storia si intreccia con il presente.
E questa tessitura denota, la forza della condivisione, in tutto una scelta umana e politica, una forma di resistenza, un modo per custodire e rinnovare la propria identità.
Oggi spetta a noi, cultori responsabili, il compito solenne di custodire ciò che resta dei Katundë, non semplici villaggi, ma frammenti vivi di un passato che ancora respira sotto le pietre, tra i muri a secco, nei silenzi dei cortili abbandonati e nei nomi di luoghi antichi che il vento porta via un poco alla volta.
In un’epoca dove la modernità avanza come una nebbia uniforme, impalpabile ma implacabile, è nostro dovere non lasciare che questa coltre grigia cancelli i colori dell’identità.
Perché la globalizzazione, quando è cieca e disattenta, non unisce, ma appiattisce, perché il suo abbraccio non è materno ma gelido e per questo scompaiono parole, riti, mestieri, forme di vita che non hanno prezzo sul mercato ma custodiscono ricchezze che nessuna economia sa misurare.
I Katundë, con le loro architetture modeste ma cariche di senso, con le loro piazze dove ogni pietra ha udito racconti, sofferenze, nascite e partenze, sono specchi del nostro passato e, spegnerli, lasciarli marcire nel silenzio, equivale a rinnegare una parte di noi.
Ogni tetto che crolla, ogni porta che resta chiusa per anni, è una perdita più grande di quanto si voglia ammettere, perché esso rappresenta un nodo tagliato nella rete della memoria.
Non è nostalgia quella che ci spinge, ma coscienza storica e culturale, la stessa che ci impone di non cedere al fascino effimero di un progresso che non si interroga su cosa lascia indietro.
Le “sfere economiche”, così le chiamano, disegnano confini invisibili con mappe fatte di interessi, ma non conoscono il valore di una canzone popolare sussurrata da una nonna al focolare, o la sacralità di un gesto antico compiuto durante una festa di paese.
Noi siamo i custodi, non per scelta, forse, ma per devozione, e la custodia non è un atto passivo, ma resistenza, ricerca, amore lo stesso che ci ostina a raccontare ancora, insegnare, tramandare e scegliere ogni giorno di non dimenticare.
Perché un giorno, forse non lontano, qualcuno cercherà tra le rovine quel che noi oggi possiamo ancora salvare.
Atanasio Pizzi Olivetano Napoli 2025-09-16