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CERCAVO INTELLETTUALI E HO TROVATO UNA MOLTITUDINE DI ANTIQUARI ARBËREŞË

Posted on 14 settembre 2025 by admin

Lapide in marmoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giovane erudito desideroso di rompere l’isolamento intellettuale e umano in cui si sentiva confinato nel suo paese natio, decise a un certo punto della sua vita di trasferirsi a Roma, con la speranza di entrare in contatto con un ambiente culturale vivace, popolato da studiosi, letterati e pensatori con cui potersi confrontare.

Le sue aspettative, però, furono presto deluse e, la Roma che trovò era ben diversa da quella che aveva immaginato.

Nei fatti qui invece di veri storici o intellettuali animati da una sincera passione per il sapere, si imbatté principalmente in antiquari e salotti accademici chiusi, dominati da un’arida erudizione e da una mentalità conservatrice.

Amareggiato da questa esperienza, e sentendosi ancora una volta incompreso e isolato, decise di lasciare la capitale e spostarsi a Napoli, città che, per la sua vitalità e il fermento culturale che vi si respirava, sembrava offrirgli un ambiente più stimolante e in sintonia con la sua visione del mondo.

Il paragone può forse sembrare ardito, ma una dinamica simile si è verificata anche nel percorso di chi compila questa diplomatica e, quando iniziò gli studi universitari a Napoli, immaginavo che tornare e frequentare gli ambienti accademici arbëreşë, sicuro che gli avrebbero offerto agio e accoglienza culturale, al suo senso di appartenenza, perché spazio fertile per il confronto e la crescita.

Invece, di ritrovò in una situazione sorprendentemente simile a quella vissuta giovane erudito su citato e,  anche lì, al posto del dialogo autentico o della ricerca condivisa, incontrò chiusura, formalismo, e un approccio più conservatore che realmente innovativo, denotando il dato che, l’ideale si scontrava con la realtà.

A un certo punto, termino il desiderio di dare peso a ciò che accadeva in quegli ambienti e, si aprirono nuovi scenari che contribuirono alla formazione di architetto, utilizzando strumenti ed eccellenze sparse sul campo partenopeo più solidi e, in grado di alimentare la visione concreta e organica del mondo, rispetto a certi accademici che negli ambiti di non confronto locale si presentavano come intellettuali ma che, alla prova dei fatti, erano poco più che collezionisti di citazioni e nostalgie svuotate di significato.

Oggi, quando si apre un tema sulla storia e sulla cultura degli arbëreshë, senza timore alcuno con sana consapevolezza si valorizza il fare concreto, la capacità di costruire, resistere e rinnovarsi nel tempo.

Non è semplice mettere in luce le figure eccellenti, che con il loro impegno, hanno lasciato un segno, nella cultura, nell’arte, nella vita delle comunità, senza cedere al culto sterile della celebrità.

Chi scrive non si allinea con quanti si limitano a celebrare registi, commediografi o personaggi da palcoscenico, cinematografico o televisivo, come se bastasse un’apparizione pubblica a legittimare uno spessore culturale per dimostrare di essere un solido cultore.

Né tantomeno serve il bisogno di fare la fila per prendere la parola o peggio, la confessione in chiese dove vale la metafora di un culto ormai svuotato, dove il gesto ha sostituito il senso, e la forma ha divorato il contenuto.

Durante il percorso formativo sostenuto a Napoli ai tempi della formazione, lo scrivente ha avuto la fortuna di incontrare figure di grande rilievo culturale, tutte capaci di accoglierlo con rispetto e interesse per il modo di pensare, di esprimermi e confrontarsi.

Tra queste, va citato il ricordo particolarmente vivo e affettuoso del compianto Aldo Di Biasio, uno dei più autorevoli meridionalisti del cosiddetto “decennio francese”.

Quando lo conobbi, mi invitò con sincera generosità a leggere le sue opere già edite, in particolare quelle dedicate alla storia della Scuola di Ponti e Strade, cuore tecnico e simbolico di una certa idea di progresso del Sud.

Io lo ringraziai con una punta d’ironia, parlandogli in lingua arbëreşë e, lui mi guardò stupito, e allora gli dissi: “I tuoi eroi, per diventare grandi, pensavano in questa lingua.”

A quel punto gli spiegai cosa fosse l’arbëreşë, non solo come lingua e identità, ma come chiave per leggere certi percorsi nascosti della nostra storia, secondo un pensiero poi tradotto in lingua antica.

Da quel momento nacque un legame profondo, una fratellanza culturale autentica, fondata sul rispetto reciproco, sulla memoria viva per la verità delle radici arbëreşë.

L’ episodio fondamentale della mia formazione, forse tra i più rivelatori, avvenne comunque nel 2005, lungo la via Forcella a Napoli, durante una conversazione con un docente universitario della scuola olivetana parteopea.

Gli posi una domanda semplice ma pungente: «Perché Giura non è mai stato considerato vera eccellenze nella storia culturale arbëreşë?»

La sua risposta fu sconcertante, quanto purtroppo prevedibile: «Perché non hanno pubblicato nulla in scritto albanese».

A quel punto, replicai citando un fatto poco noto, ma significativo, svelando ciò che Giura aveva fatto per Giacomo Leopardi, in accoglienza la sera in cui giunse a Napoli e, la sua mediazione con l’ambiente partenopeo, decisivo nel rendere accessibili certi contesti intellettuali.

La reazione del docente fu eloquente, si fermò di colpo, quasi sorpreso, e da quel momento non volle più lasciarmi andare via, finché non gli ebbi illustrato con precisione i luoghi, gli aneddoti e le tracce culturali che conoscevo.

Rimase senza parole, colpito dal livello di dettaglio, dalla connessione tra fonti orali, documenti e osservazioni sul campo.

Da allora, ogni volta che ci incontravamo, mi chiedeva con un misto di curiosità e ammirazione: «Allora, cosa hai scoperto di nuovo, che i dipartimenti ancora oggi ignorano?»

Fu per me una conferma importante che attribuii al sapere, che non dipende esclusivamente dalla lingua in cui viene espresso o dalla sede in cui viene pubblicato, ma dalla profondità della visione, dalla connessione tra storia e territorio, e dalla volontà di far emergere ciò che spesso viene dimenticato o ignorato proprio da chi dovrebbe custodirlo.

Un altro incontro per me significativo fu quello con Giuseppe Galasso, figura di primo piano della cultura meridionalista e della storiografia italiana.

Mi rivolsi a lui con una domanda precisa, perché volevo conoscere come e chi, dalle università del Mezzogiorno, fece emergere il concetto di Gjitonia arbëreshe, e quale fosse stato il percorso intellettuale che aveva portato a riconoscere in quel termine un modello antropologico e sociale.

Galasso, con la sua consueta lucidità, mi spiegò da dove provenisse quell’interesse e chi fossero i protagonisti di quella riscoperta.

Mi indicò alcuni studiosi che, indirizzati da lui studiarono le vicende del dopo guerra per risollevare il valore abitativo e sociale dei Sassi di Matera e, come avevano saputo cogliere le affinità tra le forme di vicinato tipiche di quei ambiti retrogradi e le strutture relazionali presenti nei paesi arbëreshë.

Fu lui a farmi i nomi, a raccontarmi di quel gruppo di ricercatori che, tra urbanistica, antropologia e storia sociale, aveva saputo leggere nelle pieghe del vicinato materano non solo una sopravvivenza del passato, ma una chiave per comprendere una cultura del vivere insieme, basata su solidarietà, ascolto, equilibrio tra spazio privato e collettivo.

E mi parlò anche dello psichiatra che per primo contribuì a formalizzare il concetto di “vicinato” come categoria relazionale, ponendo l’accento sulla sua valenza affettiva e terapeutica, oltre che urbanistica. Quella conversazione con Galasso, intensa e piena di rimandi culturali, fu per me un momento di vera crescita, un tassello importante per comprendere quanto fosse profondo e interconnesso il patrimonio della mia comunità con le dinamiche più ampie della cultura meridionale e mediterranea.

Il mio sapere si è costruito nel tempo attraverso incontri autentici, colmi di aneddoti, di scambi con eccellenze e studiosi di alta formazione, figure che hanno lasciato un segno non solo per ciò che sapevano, ma per come sapevano condividerlo.

Ho avuto il privilegio di confrontarmi con uomini e donne di pensiero, capaci di superare i confini disciplinari, di vedere nella cultura non un recinto, ma un ponte.

Fu un incontro casuale eppure inevitabile, come se le vie della storia avessero deciso di farsi trovare proprio lì, nei vicoli dove Napoli cela il suo passato più profondo.

Il suo nome portava in sé il peso della stirpe e, al tempo stesso, una leggerezza disarmante, tipica di chi è cresciuto con la consapevolezza che la storia, per quanto ingombrante, è fatta per essere raccontata.

Una collaborazione che ha permesso di avventurati nei luoghi che hanno visto i passi di Giorgio Castriota e, soprattutto, quelli di sua moglie, Donica Arianiti, figura troppo spesso relegata ai margini dei racconti storici, ma centrale nella conservazione della memoria del condottiero albanese.

Fu proprio lei a vivere gli anni successivi alla morte del marito a Napoli, in una vita ritirata e devota, segnata dalla nostalgia e dalla volontà di mantenere vivo il ricordo dell’uomo e dell’eroe.

Abbiamo percorso le navate silenziose delle chiese dove si dice che Donica si ritirasse in preghiera, tra cui la Chiesa di San Giovanni Maggiore e Santa Chiara, e visitato gli antichi palazzi che un tempo ospitavano esuli e nobili balcanici.

Ogni pietra raccontava una storia, ogni eco sembrava portare un frammento di una lingua ormai dimenticata ma ancora presente nei gesti e nei suoni delle famiglie Balcane radicate in Campania.

Quel viaggio non è stato solo una ricognizione storica, ma un atto di restituzione e, Napoli, con la sua anima plurale, si è rivelata il teatro perfetto per riportare alla luce un’eredità che non appartiene solo a un popolo o a una famiglia, ma a tutti coloro che credono nella memoria come fondamento dell’identità.

Insieme al discendente di Castriota, abbiamo ricucito una mappa emotiva prima ancora che storica, fatta di luoghi, documenti, aneddoti tramandati oralmente, e soprattutto di silenzi, gli stessi che parlano più di mille parole.

La sua presenza accanto a noi non era solo simbolica, ma concreta, viva e nel vedere il discendente di Giorgio Castriota non si intravedeva solo una figura, ma una presenza da onorare con gesti semplici e con la determinazione di chi non vuole permettere all’oblio di vincere.

Questo capitolo della ricerca non solo ha rafforzato i legami tra Napoli e l’eredità Castriota, ma ha anche aperto nuove prospettive e progetti culturali, e una rinnovata attenzione verso il patrimonio condiviso tra Italia e Albania.

In fondo, camminare accanto al sangue di Scanderbeg ha significato camminare nella storia, ma anche nel presente.

E in quel presente, Napoli si è confermata ancora una volta crocevia di culture, custode di memorie e fertile terreno per nuove narrazioni.

Eppure, oggi, tutto questo “fare” frutto di studio, sudore, esperienza, ascolto, memoria e, fatica a trovare spazio di confronto.

La realtà con cui devpa confrontarmi è spesso segnata da un appiattimento culturale, dove l’essenza degli arbëreşë, interessa solo se ridotta a una dimensione monolingue e monotematica.

Se non si parla esclusivamente della lingua, e in modo canonico, allora tutto il resto viene scartato, ignorato, considerato secondario, specie se per opera di un architetto.

È ancora più sconfortante vedere che proprio chi è rimasto, o chi è tornato illuminato dal proprio “parere suo” nel luogo natìo, si fa spesso custode di questa chiusura, in tutto un’identità che si vuole pura, ma che è in realtà impoverita, irrigidita, lontana dallo spirito plurale e vivo che ha sempre caratterizzato la vera cultura arbëreshe.

Oggi, ancora una volta, mi ritrovo qui, affacciato su questo pulpito senza pubblico, non c’è applauso, non c’è fischio, non c’è voce ma solo i silenzi.

Quei silenzi densi, quasi solidi, che si appoggiano sulle pietre, sulle travi, sui volti delle statue mute, in tutto silenzi che raccontano più di mille discorsi che poi sono i silenzi della Storia.

È passata di qui, la Storia e, l’hanno calpestata scarponi e sandali, l’hanno sfiorata sguardi pieni di fede, rabbia, lotta.

Eppure, oggi, nessuno sembra accorgersene, come se fosse diventata trasparente o una reliquia troppo scomoda da ricordare, troppo viva per essere archiviata ma troppo morta per essere compresa.

ho provato a chiamare, ad aprire, a costruire ponti verso chi verrà, ho teso la mano e tutto il braccio alle nuove generazioni, ho sussurrato loro che qui c’era qualcosa di vero sin anche che questo luogo, queste parole, questi ideali non erano solo polvere, ma semi, tuttavia ogni tentativo s’è infranto su muri di diffidenza, d’orgoglio, di paura.

I sindacalisti d’un tempo, o quelli che si vestono da intellettuali oggi, chiudono ogni canale, perché anno paura, che tutto ciò che è stato fatto, con sacrificio, sudore, lotte, possa sciogliersi come neve al sole, appena esposto al giudizio libero di chi non deve nulla a nessuno, temono che la memoria diventi critica e, che la verità venga liberata dalle mani che la custodiscono.

Ma io continuo a scrivere anche se nessuno legge e anche se la polvere si accumula sulle parole, perché questo pulpito, vuoto com’è, resta un testimone e, non ha bisogno di applausi, ma solo di resistenza, di presenza, di voce chiara.

Un giorno, forse, passerà di qui qualcuno in cerca di senso e troverà le mie parole incise nell’aria, solo allora capiranno che il silenzio non era assenza, ma attesa.

 

Atanasio Pizzi Architetto                                                                                    Napoli 2025-09-14

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