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UNA PAGINA DI STORIA IN TERRA DI SOFIA ESPOSTA AL TEMPO E AL VENTO DI NORD  (Shëpia Jannùnitë ku rij Manganërvetë ka Acrà)

UNA PAGINA DI STORIA IN TERRA DI SOFIA ESPOSTA AL TEMPO E AL VENTO DI NORD (Shëpia Jannùnitë ku rij Manganërvetë ka Acrà)

Posted on 08 aprile 2025 by admin

Cattura 12-2009

NAPOLI- (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

LA CASA DEL FATTORE

 

Premessa

In questo breve tratteremo dell’architettura del bisogno, o architettura vernacolare, giacché essa si distingue dalle più famose, perché strettamente legata alle necessità quotidiane della vita di una comunità, piuttosto che a tendenze estetiche o teoriche imposte dall’architettura accademica.

Questo tipo di architettura in edificato, si sviluppa in risposta ai bisogni pratici, sociali, culturali e ambientali di una specifica zona geografica e, l’uso dei materiali risultano essere quanto reperibile con facilità nella vicinanza al loco di edificazione del bisogno abitativo.

I materiali per questo, rispecchiano i pigmenti dell’ambiente circostante, adattabili quindi alle condizioni climatiche locali, offrendo agio a quanti trovano rifugio al suo interno.

E la pietra, fa da primo attore strutturale, di questi ambiti collinari e montane, dove è facilmente, disponibile e pronta a rispondere all’uso.

Alle pietre poi si associano sabia, calce e il legno delle aree boschive, storicamente facili da lavorare e reperire, l’insieme rende possibile e rispondere a necessità pratiche quotidiane legandosi all’ambiente il risultato finale del volume edilizio che in questi centri si integra con misura all’ambiente naturale.

Le costruzioni per questo rispondono alle condizioni climatiche, del bisogno, mantenendo nel contempo un regime temperato, senza discostarsi dai pigmenti e le forme dell’ambiente naturale.

Tetti spioventi facilitano il deflusso dell’acqua e nel contempo con il volume non abitabile del sottotetto, creano cuscini di tempera del volume vernacolare, sia in inverno che in estate.

In questi manufatti, la forma segue la funzione e le soluzioni estetiche, le stesse che non sono imposte da ideali stilistici, ma derivano dalla necessità pratica.

Tuttavia, l’uso dei materiali locali e l’adattamento all’ambiente conferiscono alle costruzioni un aspetto caratteristico e un’identità unica, le cui soluzioni innovative sono tramandate di generazione in generazione, spesso senza il supporto di una formazione accademica, ma tramite esperienza diretta o meglio la consuetudine del costruito.

Le tecniche vernacolari sono per questo intuitive e si sviluppano attraverso il miglioramento continuo di pratiche che rispondono direttamente alle esigenze del momento storico vissuto o la necessità dell’ampliamento.

I  cui muri portanti in pietra, in molti casi non richiedono fondazioni elaborate, ma sfrutta la forza e la resistenza del territorio in genere di identica radice delle pietre.

Gli intonaci sono realizzati in calce terra e argilla e proteggono i muri dalle intemperie e consentono una certa traspirabilità dell’edificio.

L’architettura vernacolare si collega anche agli aspetti sociali e culturali della comunità e, l abitazioni e gli spazi pubblici non sono solo funzionali, ma riflettono anche le tradizioni e i comportamenti sociali:

Le case schiera, dove il giardino diventa il centro della vita quotidiana e, l’uso di focolari per unire le famiglie intorno al fuoco, particolarmente, infatti l’insieme nasce ed esprime il bisogno di utilizzare risorse locali in modo efficiente.

Le costruzioni sono progettate per durare e con un basso impatto ambientale, in quanto i materiali utilizzati sono rinnovabili, e le tecniche costruttive sono semplici ma robuste e si possono rifinire o consolidare con materiali di spogliatura nei momenti di bisogno estremo.

Tutto questo non solo riduce il consumo energetico, ma permette alle strutture di rimanere sempre integrate nell’ambiente circostante.

Per questo, la metodica vernacolare resta fortemente legata al territorio e alla comunità e riflettono nelle costruzioni, l’unica e rappresentativa cultura locale.

 

Il loco denominato Terra

In sintesi, questa resta ed è l’arte del costruire in modo pratico, economico e sostenibile, rispondendo ai bisogni quotidiani e alle condizioni ambientali locali, ma anche alla cultura e alle tradizioni di una specifica comunità.

Per questo scrivere la storia di “Terra di Sofia”, significa addentrarsi nell’intreccio antico di Terra ai tempi della Sibari fannullona, perché dismessa la diocesi di Thurio.

I filari di Terra Laica compongono il filato con i perpendicoli di Sofia di credenza Bizantina, cadenzati dai passi longobardi, in tessitura di risalente del IX e mai terminata.

Spiegare gli intrecci storici, non è semplice e solo chi ha formazione adeguata può affiancare le prospettive che rendono visibili le vicende del rione, dove la toponomastica arbëreşë locale ricorda “Kishia Vietèrë” (Chiesa Vecchia) adagiato a quello che dal 1936 viene appellato “marchianeshëvetë” (Ciliegeto tipico) e (Mandorleto).

Qui in questi breve si vuole illustrare la residenza che fu dei fattori della famiglia di Angelo Giannone, nello specifico l’elevato del bisogno, dove questi nobili proprietari terrieri, del cuneo agrario più antico e prolifico dei principi di Bisignano, avevano residenza in Terra di Sofia.

E qui nei pressi della loro residenza, accoglievano anche il fattore e la sua famiglia, questi ultimi identificati, nella memoria storica locale, nel casato dei “Mangano”.

L’abitazione in epoca moderna, venne acquisita dalla famiglia Caravona e, la demolizione a seguito della instabilità strutturale, hanno esposto tutte le fasi strutturali, che nel volume edilizio si erano sommate o avevano consolidato la stabilità strutturale e abitativa nel corso dei secoli dalla sua edificazione del bisogno vernacolare primo a quelle successive di agio economico sia del fattore che dei nobili Giannone, nel corso della storia.

Ad iniziare dal primo insediamento vernacolare del bisogno identificato come Katoj e, la successiva espansione seicentesca e l’ampliamento settecentesco con l’apposizione del profferlo sulla via Castriota, l’asse che collega la chiesa di Sofia Bizantina, con la successiva Arbëreşë, di Sant’Atanasio l’Alessandrino.

Il manufatto edilizio identificato nella mappa catastale con la particella n° 13, si presenta a pianta rettangolare, con lo sviluppo più esteso in direzione Nord, Sud e, il suo sviluppo verticale si compone, del piano terra seminterrato, un primo piano in elevato e la copertura a due falde di esenzione differente, in direzione Est quella più estesa e, Ovest la più ripida, con aghetto realizzato da tegole murate onde evitare lo scorrere dei reflui piovani lungo l’elevato murario,

Il volume comprendeva anche un ballatoio con scala, a profferlo, nella mezzeria del prospetto rivolto ad est, sulla via Costruita.

Mentre sul prospetto a sud era l’antico accesso al piano abitabile supportato superati di tre gradini in elevato, per raggiungere la quota del piano elevato dal piano di calpestio esterno.

Questo ingresso era gemellato a una finestra al piano, mentre nel piano della copertura in prossimità del colmo di falda era una finestra di ventilazione del sottotetto.

Il prospetto a Nord a piano terra aveva un ingresso per le stalle, gemellata anche questo a una finestra posta verso est e, nel lato ovest subito al lato dell’ingresso, un rinforzo sino al solaio del primo livello, realizzato con materiali di spogliatura e calce, questo seguiva su tutto il fronte del prospetto ad Est il quale era caratterizzato da un accesso dal giardino e una finestrella del secondo interrato, mente al piano primo aveva due finestre che caratterizzavano il prospetto.

A Ovest, era ed è allocato l’orto botanico a esclusivo servizio del fattore, dove ad oggi resistono alcune essenze botaniche, ricoperte da rovi e senza più l’originario ordine, uso o impiego di medicina empirica.

Il volume edilizio nasceva probabilmente come umile residenza del bisogno vernacolare, abitazione tipica di tutta la fascia collinare della preSila Greca Arbëreşë.

Quelle che in lingua ad Est del golfo adriatico si appellavano: Kalljve, Moticellje o Katoj, in tutto, un ambiente unico, con annesso camino e, una zona pranzo assieme ai giacigli dei componenti la famiglia e, gli animali domestici compreso l’asino o il mulo a seconda le esigenze.

Uno spazio con dimensione di profondità maggiore rispetto la larghezza, che non superava i sei metri, con unico tetto a falda, che scaricava il flusso piovoso davanti all’ingresso, che allo scopo era sempre igienizzato, nel corso delle stagioni.

Le vicende agro silvo pastorali dei cunei agrari sofioti, nel corso del settecento diedero agio e distribuirono ricchezza all’economia locale e, tutte le famiglie che in questo centro risiedevano e svolgevano attività, lungo i cunei agrari della produzione e della trasformazione in agro di Terre di Sofia, elevarono il potere economico e, con di fatto anche le valenze edilizie.

Tuttavia a seguito del terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e iniziarono a svilupparsi verticalmente assumendo una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello.

E anche la casa del fattore qui in studio ebbe modo di essere ampliata avendo un piano abitativo con uso di un locale magazzeno e la vecchia residenza continuo ad essere solo la stalla per gli animali domestici.

E successivamente, venne posto la pertinenza della scala esterna ad uso di profferlo modificando radicalmente le prospettive della odierna via Castriota.

Questo perché il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente, ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici.

Ma la casa del fattore divenne anche una vedetta che mirava e seguiva chi si apprestava a bussare a quella porta dei nobili Giannone, infatti con furbizia e accortezza strategica ancora oggi la finestra della stanza da letto del fattore che mira a nord sulle stalle e quella ad est verso la casa dei Giannone conserva una feritoia di osservazione o di mira, per eventuali male intenzionati che si apprestavano ad avvicinarsi all’ingresso della casa nobiliare.

Per riassumere, la consistenza volumetrica dell’intero edificato, esso si componeva di una mono volume conce come abitazione del bisogno vernacolare in epoca di espansione trasformata la stalla nel piano terra, addossato al declivio dell’orto botanico ad est, con ingresso tipico con porta gemellata ad una finestrella, entrambe rivolte a nord.

Un volume con dimensione di poco più di trenta metri quadri, ricoperta con un tetto a falda unica che scaricava i reflui piovani, igienizzando l’ingresso.

Questo singolo manufatto originario allestito secondo le necessità delle epoche in evoluzione, nel corso della risalita economica del XVIII secolo venne integrato secondo i temi di una più lussuosa abitazione, articolato in ma magazzeno, a continuità di livellamento semi interrato, verso sud dell’antico abituro, il quale assunse, da adesso, la funzione di stalla, mentre al primo livello si dispone, con ingresse dal lato sud, con più vicinanza alla residenza dei nobili Giannone e, superati tre gradini dal piano del vicoletto e la porta d’ingresso gemellato ad una piccola finestrella si accede all’ingresso cucina da cui con una botola e relativa scala si accede ai magazzini.

Mentre superata la porta interna si va verso un disimpegno che da acceso alla stanza da letto del fattore e, la stanza della prole, come disposto nella planimetria di rilievo qui allegata in fig. XXXX

Dalla cucina che funge da ingresso si trova la botola per accedere alla cantina o magazzino da cui una porta da la via sull’orto botanico di pertinenza esclusiva.

Questa era lo stato di ampliamento del casale noto come dei Mangano, a cui per facilitare e disimpegnare la cucina dall’ingresso, venne aggiunto il profferlo lungo la via Castriota, da cui, superato sette alzate e sei pedate si giungeva nel ballatoio di poco più di sei metri quadri, il tutto coronato da parapetto, e adesso, l’accesso posto in corrispondenza del disimpegno, rendeva l’intero abitacolo indipendente da ogni funzione privata di casa.

Il manufatto realizzato con muratura additiva, verticale con materiali locali come pietrame, assemblata con impasto di calce e sabbia della “parerà” locale che in quell’epoca era sul fronte ad est del torrente del duca quando diventa Cancello, oggi non più presente perché quel refluo che attraversava il centro antico è stato interamente interrato e modificato del suo antico tracciato e valore.

Il pietrame che compone la muratura sicuramente proviene dal Torrente Galatrella, che scorre a poca distanza.

In tutto, un modello abitativo che basa la sua consistenza nelle “Murature vernacolari” come accennate in anteprima e, del bisogno tipicamente locale e, tipici di questo luogo in forma di pigmenti naturali della comunità.

In questo caso, indicativo dell’architettura che si sviluppa i Santa Sofia Terra, senza il ricorso a progettisti formali, ma adattando ogni cosa al bisogno in funzione delle risorse, il clima e la geografia di questo specifico rione.

Le murature della casa dei Mangano, sono realizzate con materiali reperibili nella zona circostante, come pietra, sabia, calce, creta e legno.

Queste strutture sono solitamente molto funzionali e, pensate per adattarsi alle condizioni climatiche e ambientali specifiche del luogo, e riflettono la tradizione, la storia e le necessità di chi le ha costruite.

Il luogo nello specifico, per la sua natura geologica, come l’intero centro antico dalla radice bizzantina sino ai tempi della venuta del costruito arbëreşë, non faceva uso di fondazioni di rilievo ma rifiniva il declivio naturale con un pianoro di necessità su cui poi elevava le murature perimetrali.

Questo è il motivo dei rinforzi che emergono e sono evidenti nella porzione del prospetto a Nord e di tutto il piano terra del prospetto di Ovest. Vedi Foto

Anche se ricuciture di fessurazioni riferite agli intonaci o per rendere più emblematico l’edificato appaiono lungo via Castriota e in tutti i varchi di accesso le finestre e i varchi di ventilazione del sottotetto, ri quadrati con mattoni i terra cotta e architravi in legno o componimenti di mattoni, cosi anche per poi intonacare il tutto, rinforzando con scaglie di spogliatura di tegole e mattoni.

Il solaio del piano abitabile e realizzato con travi panconcelli e cuscinetto in sabbia miscelata a calce e rifinita con mattoni in terra cotta.

Il solaio che fa da separatore con il sottotetto e composto da travi e tavolato regolare, in modo da rendere il lastrico solare diffusamente distribuito con evidenziate le travi e il regolare sviluppo del tavolato regolarizzato lungo i bordi, il tutto trattato con getto o pennellata di calce liquefatta.

Gli infissi delle porte esterne, sono ad un battente, cosi come quelle interne, diversamente dalle finestre a due battenti con vetrata oscurata dai relativi semi porte nella parte superiore, al quadrangolare di base, onde evitare la facile visione interna quando durante il giorno illuminano l’interno.

Il tetto a due falde si compone di trave di colmo, da cui degradano le travi a est e ad ovest, su cui i travicelli, disposti a intervalli regolari, accolgono il doppio ordine di coppi, sino al calibrato aggetto terminale, quest’ultimo realizzato con un filare di coppi incastonati o meglio solidarizzati con l’elevato murario.

Questi accolgono e danno il terminale appoggio inferiore alla lamia di coppi, che poi defluiscono perimetralmente all’elevato murario, evitando che le il displuvio scorra lungo le pareti dell’edificato dell’attento Fattore.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                                                                 Napoli 2025-04-08

 

 

P.S. Quando studio e progetto, la terra trema e il cielo si apre, gli orizzonti, della regione storica, diffusa e sostenuta in arbëreshë, si illuminano e, le tracce della storia mi guidano lungo la via pertinente, solida e indissolubile.

Questa ormai è diventate regola solidale, ma quello che adesso vorrei è conoscere la stagione in cui avrò modo di confrontarmi con quanti appongono “IN” precedendo la “cultura”, specie da chi si forma tra u surdù e lu settimù

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UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

Posted on 05 aprile 2025 by admin

Sergente

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gennaro raccontava spesso, ai suoi familiari riuniti, nelle gelide serate d’inverno, quando ad illuminare era il fuoco di quel camino antico di casa, che guardava la piega della via detta “lljëmë llëtirjtë”.

Era qui che al calar del sole, lui riuniva i suoi figli, per raccontare il patire, lungo la via del ritorno a seguito del disarmo dell’esercito Italiano, finite le ostilità il settembre 1943, della seconda guerra mondiale.

Egli raccontava che, dopo aver parcheggiare il camion officina, nel cortile della caserma a Riva di Trento, gli venne ordinato di recarsi nella camerata, ritirare il tascapane, gli effetti personali e, poi un ufficiale preposto gli fece consegnare il percussore del fucile in dotazione, la baionetta e, in fine di tornare a casa, perché i servigi verso la patria erano terminati.

All’inizio grandi grida di gioia con i commilitoni e, subito dopo si rese conto che casa sua distava oltre mille chilometri e, dalla parte opposta della penisola Italina.

E non nella comoda direzione Est-Ovest; ma secondo quella più impervia e colma di pericoli, Nord-Sud, che pur se abituato a percorrere distanza da giovane con il suo gregge quella era una distanza inimmaginabile e doveva svolgersi senza lamenti o belati di genere alcuno.

In tutto, un percorso intriso di pericoli, in quanto, andare controcorrente alle truppe tedesche che ripiegavano devastando ogni cosa e imprigionando ogni figura che non avesse effigi germaniche, in altre parole sarebbe stata tratta non semplice da percorrere.

Infatti in quella verde vallata dove erano terminati i doveri di soldato e servitore della patria, rimaneva un solo ed unico alleato: il pensiero Sant’Atanasio il Grande Patrono e di Adelina la sua amata moglie; fu per questo che fece voto di rientrare in paese entro e non oltre il due di maggio, per onorare il santo e abbracciare moglie e figlia.

Stava sbocciando dopo un lungo inverno, quel voto antico di tornare a casa e festeggiare con la sua amata il mito protettore; un fine antico sempre perseguito ma mai, in questa esagerata misura, con le uniche forze, fisiche, mentali sostenute dalla credenza bizantina.

Gennaro raccontava che dopo aver salutato i commilitoni, e presa la via solitaria, onde evitare di apparire come gruppi antagonisti alle eventuali truppe tedesche in pericolosa ritirata, ogni commilitone prese la via di casa propria rimanendo comunque a debita distanza.

Sapeva di non dover seguire strade carrabili, porti e ferrovie, in quanto, la campagna, i boschi e i corsi fluviali erano gli unici alleati, di cui fidarsi e, quante chine e quante discese, dovette percorrere seguendo torrenti e campi senza semina, sempre vigile ed attento dovette attraversare con occhi e orecchie allertate.

Si cibava di cose naturali, assieme alle poche cose, che ogni tanto, gli donava contadini che cercavano di rigenerare, gli scenari di semina dismessi dalla guerra che avevano voluto altri e lui si portava in spalla quel peso di dovere.

Pastori, contadini, mugnai e manovali che svolgevano attività, nel vederlo come figlio che tornava a casa, dividevano volentieri con lui le poche cose del pranzo e, lui per ricambiare, avevo solo il racconto della sua storia e la meta a cui ambiva.

Nell’esporre il suo entusiasmo per il ritorno, non ricordava a quanti aveva detto di essere un Sofiota e quali ideali lo sostenevano; poi giungeva il momento di riprendere l’orizzonte ancora soleggiato e in solitaria meta.

Giunto in Campania era ancora incredulo e quanti incontrava, dicevano che forse non avrebbe mai potuto portare a termine l’audace impegno, perché era stanco e forse non sarebbe giunto il due di maggio.

Cosa lo spingesse ad andare avanti era la memoria di quel sagrato, quella chiesa e la famiglia, che aveva promesso di sostenere dal 9 ottobre del 1937 e, i visi fiduciosi di quanti incontrava, come in una gara podistica facevano il tifo per lui, non avendo altro da offrirgli, se non le poche cose per cibarsi.

Tuttavia, la sua rimaneva, una gara contro un invasore che contro corrente, avrebbe potuto portarlo con se in un loco più distante e concentralo a termine.

Tutte le persone che incrociava ritenevano che la distanza fosse eccessiva e trovare un passaggio era pericoloso, in quanto avrebbe potuto mettere fine al suo voto, quindi, ogni volta gambe in spalla fino che la luce del sole lo accompagnava.

Lungo la strada immaginava di risalire dalla chiesa vecchia, via Castriota e arrivare in piazza Sant’Attanasio, nel momento in cui le campane a festa annunciavano l’uscita del Santo; poi gli amici, i parenti come lo avrebbero accolto, chissà se nella processione ci sarebbero state la moglie Adelina con in braccio la figlia Francesca o come promesso, era in casa ad attendere il suo ritorno.

Questo e tanti altri erano i pensieri che lo accompagnavano, e intanto chilometro dopo chilometro la meta era sempre più vicina.

Era iniziata la terza decade di aprile e iniziate già le novene, quando si trovò ad affrontare la piana del Sele e, se le forze lo avessero sostenuto così come, nelle settimane passate, l’impresa sarebbe stata possibile.

Intanto continuava a cibarsi di ogni cosa che la primavera offriva, la meta diventava sempre più prossima e sempre più familiari, erano gli scenari naturali.

Intanto continuava ad evitare centri abitati, così come fece da diversi mesi, preferendo le gole e boschi impervi e deserti, riposando in grotte e anfratti naturali.

Preferiva seguire percorsi impervi per evitare di incontrare le retroguardie tedesche o le avanguardie parigiane e comunque senza mai fidarsi di alcuna divisa o gruppi armati.

E finalmente l’ultima settimana di aprile, vedendo valicando gli scenari del dolce dorme e intravede il luccichio del suo paese natio dove lo attendevano le cose di credenza materiali e non, le stesse mire di memoria che lo avevano sostenuto.

Solo adesso ebbe modo di concedersi una pausa di riposo per presentarsi degnamente da soldato al raggiungimento dei suoi cari e dei suoi paesani.

Attraversato il Crati vicino il cimitero di Tarsia e raggiunti, i luoghi della giovinezza, dove portava le pecore a pascolare, la china che avevo percorso tante volte la conosceva bene e, lo fece sentire a casa, conoscevo ogni zolla e ogni anfratto di quegli ameni luoghi, per mesi immaginati.

Quell’anno il due del mese di maggio cadeva di martedì e quando, Adelina si senti Chiamare da suo zio Giuseppe, mentre iniziavano i primi rintocchi delle campane a festa, nulla di più intonato e desiderato per lei il sentire le parole che gli diceva: Adollì, ezë ndë quishë, se u mbioshë Janari!

 P.S. Gli attori primi di questa storia di devozione antica, sono: Gennaro Pizzi padre, Adelina Basile madre e il Santo che sostenne e diede agio agli avvenimenti di questa casa senza termine: Atanasio.

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L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË  (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

Posted on 01 aprile 2025 by admin

 

Bimbo4NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

LA STORIA DEL COSTUME E LA REGINA DEL FUOCO

Premessa

Questo discorso, vuole svelare e, dare significato o senso definitivo al prodotto di vestizione femminile arbëreşë relativo allo storico protocollo del matrimonio.

Espressione consuetudinaria di memoria e augurio in forma d’arte o manuale sartoriale, realizzato seguendo l’antico disciplinare, contemplato in ogni particolare che fa vestizione o costume nuziale femminile, prima durante, dopo l’evento di promessa coniugale, sino alla solitaria convivenza generata di certezza o incertezza della continuità coniugale.

Il tema pone ed evidenzi, in oltre, il valore associato al matrimonio, in espressione di sistema famiglia, sotto gli auspici e le consuetudini beneauguranti di credenza diffusa Greco Bizantina, su radice di promessa data Kanuniana.

Sono numerosi i teoreti o teorete che hanno diffusamente sparlato di questo manufatto identitari, ma tutti o tutte nel farlo hanno più mirato ad illuminare se stessi, che il costume di macro area di cui trattavano senza alcun fondamento storico.

Tuttavia prima di dare inizio alla trattazione di questo discorso in merito, la macro area presilana e il trittico di paesi noti per le saline.

Prima di iniziare questo discorso è doveroso ringraziare: Adelina e Lucia da Terra di Sofia, Caterina e Carmela da Frascineto, Anna Maria da Vaccarizzo, Gabriella da San Benedetto Ullano, Fortuna da Lungro, Anna Rita da Falconara, che assieme a Paola di Firmo, hanno espresso in forma di genere femminili, i valori sostenuti nell’atto della vestizione e, di quanto qui esposto, perché rilevato nell’atto dalla vestizione perché atto di genere.

Va in oltre sottolineato che il numero delle figure, cui era stato posto il breve dialogo per l’analisi, doveva essere più consistente, per esprimere sensazioni e pareri direttamente da chi indossa e ripete quegli attimi di antica consuetudine con rispetto e senza travalicare il termine .

Tuttavia c’è stato un numero di addette/i, che ha ritenuto più idoneo seguire la “via fatua”, per la definizione della ricerca in forma sensoriale; per questo continuano a vivere, di sentito dire, in forma di favole o di quanto si presentano al cospetto pubblico con la storica vestizione, per caso, per moda o per apparire in forma folcloristica e offendere la morale femminile pubblicamente di questo storico, ricco e rigido protocollo di vestizione.

Questi ultimi, in specie, continuando imperterriti, ogni volta che indossano le vesti, a vivere orfani dei principi fondamentali dell’identità arbëreşë, entro i termini dettati da teoreti/e malevoli/e di comuni messaggi, e coloro che le espongono, invece di unire separano e offendono la memoria del popolo che si riconosce con rispetto nella Regione Storica Diffusa e Sostenuta, attraverso scenari privi di valori attinenti la storia delle consuetudine di promesse date in Arbëreşë.

Introduzione

Di sovente si racconta e s’illustrano i costumi arbëreşë, elencando le parti che lo compongono, secondo il mero apparire, attraverso enunciazioni locali, ben distanti dal loro reale significato, consuetudinario e, non rispettando il il protocollo identitario generazionale secondo cui la madre parla, gesticola e veste la figli che ascolta, segue ogni cosa e apprende.

Il più delle volte infatti, la consegna non avviene direttamente come la storia vuole, ma per sentito dire, terminando la consegna storica ereditaria, nell’esprimere pareri gratuiti di vestizione, coronando il tutto di errori a dir poco paradossali e, addirittura amalgamando arte sartoriale, con attività non proprio di radice di tessitura, non certo per l’onore o il rispetto del genere femminile che termina di apparire senza decoro dove si passeggia sulla retta via di scesa indecorosa.

Un’altra metodica che ormai è diventata regola per il turista distratto della breve sosta, consiste nel proporre il tema della vestizione nuziale, per divagare con tesi di laurea o esperimenti editoriali, in cui docenti o esperti/e di, non appartenenti al protocollo di “madre che parla e figlia che ascolta”, quindi senza alcun titolo, finiscono per approvare, invece di correggere, quanto portato come vessillo folcloristico il valore più solido e intimo del genere femminile degli Arbëreşë.

Questi inopportuni atteggiamenti di vestizione, producono un duplice danno: il primo proprio da quanti dovrebbe sostenere il prezioso modello, arbëreshë, purtroppo, certificando come istituti o plessi pur non avendo alcuna capacita culturale, titolo o conoscenza di radice, in questo campo, ma solo la notorietà del plesso dove non score certamente la consuetudine di radice Arbëreşë; il secondo ancor più pericoloso è che si lasciano in eredita alle nuove generazioni componimenti scrittografici, come vangelo originale, traducendo tutto in una perdita della tradizione più intima della minoranza, il più delle volte espresso in parlato di lingua moderna Albanistica.

In tutto formano componimenti che poi non sono altro che riversamento malevolo di concetti senza alcuna attinenza del protocollo consuetudinario arbëreşë, oltremodo facendo grande sfoggio, nel citare il senso di appartenenza, senza avere alcuna consapevolezza del significato dell’oggetto esposto in misura, di mezza festa o mezzo lutto o mezza sposa, compromettendo il valore depositandolo in forma liberamente pagana o volgare invece di depositarla nella culla della religione sostenuta, che a questo punto non è più tradizione.

Questo è il motivo che ha determinato la deriva, senza precedenti, mina vagante del significato della vestizione in giovane donna, sposa, regina della casa, vedova, e vedova incerta; le cui vesti, pur se accumunate in presidi preposti da quando le istituzioni, ancora non in grado di fare editoria hanno ritenuto utile tutelare e promuovere, immaginando che esporle in forma di statici manichini queste vesti, serva a diffondere con coerenza antica i temi del disciplinare o della ricerca condivisa dalle nostre madri arbëreşë, le quali nel contempo si rivoltano in pena lì dove vivono il loro termine.

Tutto ciò ha condotto quanti si elevano ad emblemi esonerati dai cinque sensi, ad assumere per arroganza di passaggio generazionale, privi dei fondamenti di olfatto, tatto, visione, ascolto che non fa lungimiranza, di gusto e orecchio del governo Ghratvemëşianë .

  E Qui si ferma la prima parte

Bimbo Bimba2 Bimba3

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ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

Posted on 21 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – A Napoli, in quella via dove si ricorda il grande maestro che compose la famosa canzone “anima e core”, si sente la melodia di un battito antico, eseguita dal maestro della scuola napoletana degli incisori.

Tutto si svolge su di un tavolo speciale, con tanti fori per la giusta ammorsatura, dove il maestro con un martello di legno e, mille attrezzi per scalfire il legno, sfida il tempo e batte i ritmi dell’atre più antica dell’uomo e, lascia stupiti gli uomini, più di quanto faccia oggi l’intelligenza artificiale che aiuta le conquiste moderne dei generi umani.

Qui dove Napoli venne scelta come una delle capitali delle fratrie più antiche del vecchio continente e, dove si dice vi sia il tesoro più ricco ancora non ritrovato, il maestro Antonio, continua solitario a incidere secondo la scuola della più antica arte, che rendere case, chiese, corti e palazzi nobiliari degne di questo appellato nome.

Un lucido e geniale ottantenne, con la sua manualità, rende unico ogni ramo fusto o radice stagionata, di essenza naturale adeguatamente modellata poi dal suo fare.

In tutto un antico patto che la natura stipulo con l’uomo, al fine di rendere le cose naturali indistruttibili e non solo utili per riscaldare e fare cenere per lavare storia.

E mentre il centro antico di Napoli è invasa da gitanti, turisti della breve sosta e scolaresche alla riscoperta dei fatui sapori di pizza, spaghetti, dolciumi e manicaretti presepiali, qui in solitaria armonia, i batti di un martello in legno e le scalfitture concesse dei mille scalpelli sagomati, Antonio compone arredi di una raffinatezza unica e irripetibile, prima disegnando, poi incidendo e in fine liberano la forza e il senso di un’arte antica mediterranea, senza eguali.

Una attività che il saggio padre Giuseppe, vedendo crescere Antonio, lo indirizzo a seguire i vecchi maestri dell’epoca, oltre un mezzo secolo addietro e, lui credendo in questa via prospettatagli dal padre, da giovinetto, frequentava la scuola di mattino e i pomeriggi, la bottega del suo maestro, il quale a quel tempo riconobbe il lui, il futuro maestro che presto di affermò.

Napoli, notoriamente venne segnata e riconosciuta nel corso della storia, per i palazzi. i vicoli e le strade sempre affollate, il tutto sviluppava, rioni quartieri e sobborghi, che la storia ricorda per le su arti ed eccellenza, in campo della stampa, dell’oreficeria, della tessitura e di tutte le arti che fanno eccellenza in questo abbraccio costruito.

La Calata Capodichino è nota storicamente per tante numerose vicende, tra le quali l’arte della manualità dell’incidere a realizzare manufatti in legno ricercatissimi.

Ed è qui nello sviluppo di questa china storica, precisamente il un vicolo cieco, senza uscita che ricorda “Anema e Core”, il maestro Antonio segna e scolpisce essenze di legno senza mai smettere di suonare con i suoi mille attrezzi che creano componimenti, che solo l’intelligenza dell’uomo può sprigionare e rendere visibili.

Un vicolo cieco, è una strada da dove non si può sfuggire, essa è un percorso antico che per la complessità delle cose della storia di Napoli fu necessario realizzare.

Antonio questa strada l’ha scelta da adolescente indirizzata dal padre e, da allora la segue senza mai ripensare di tornare indietro, perché l’arte di eccellenza napoletana, una volta che le fai in fondo alla strada, dove questa piega e illude il distratto passante, ma chi la segue e la conosce sa già che non ha bisogni di altre vie di sfogo, in quanto il podio dell’eccellenza non la trovano quanti vagano incerti e, senza meta.

L’invito di questo breve, è rivolto a scuole, turisti e viaggiatori distratti della breve sosta: venite a Napoli; ma non per soddisfare solo il senso del palato o dell’incultura turistica presepiale, ma per ascoltare vedere, odorare, assaporare e toccare, componimenti di incisione unici e irripetibile, mentre nascono e vedono la luce. 

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VALLJE E LA STAGIONE LUNGA (Verà  Arbëreşë).

VALLJE E LA STAGIONE LUNGA (Verà Arbëreşë).

Posted on 15 marzo 2025 by admin

Estates

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – C’è una stella pronta a illuminare la storia e le cose degli arbëreshë, ciò nonostante, si preferiscono quanti passano la vita a cercare di capire come vivono gli altri, senza mai riuscire a guardare come vive lui e il suo ristretto prossimo familiare.

Oltremodo recandosi in ambiti dove vive il governo delle donne arbëreshë, privi di ogni minimale conoscenza o sapienza del parlato di questa antico popolo che sostiene la sua cultura con il parlato, il canto e movenze di codice.

Diffondendo così incoscientemente il culto di polvere sottratte e pietre da schivare, convinto che abbia un significato profondo il dialogo con ogni artifizio innaturale, senza comprendere alcun che o cosa, che sia vero motivo che costituisca il fondamento di questa storica minoranza del vecchio continente emigrata nel meridione Italiano.

Il risultato a cui addivengono questi ricercatori della vita di chi è storicamente organizzato, come gli arbëreşë, è molto penoso specie per queste piccole figure cultural-economiche, senza misura di ascolto, per questo, non hanno titolo e intelletto per comprendere il valore culturale o i messaggi con cui è intriso Katundë.

Infatti per identificare per affermare cose, serve saper ascoltare e tradurre gli elementi distintive apposti nei portali delle chiese e, delle case dove hanno vissuto quanti contraeva matrimonio con gli indigeni e non, valorizzando, famiglie, luoghi abitati e sepolcrali.

Una consuetudine ereditata e trasportata nel cuore e nella mente dalla terra madre e, qui nei luoghi paralleli ritrovati, segnarono senza soluzione di continuità ogni cosa, degnamente valorizzando quanti si resero protagonisti. 

Nel rispetto di questo principio, gli arbëreşë, designarono anche un mese a primavera, durante il quale i Katundë ereditari o riedificati, fossero aperti ad ospitare le mutue russale, ovvero, organizzazioni di solidarietà locale, con un forte spirito di comunità integrata, in cui i membri si aiutavano reciprocamente, senza scopo di lucro.

In tutto, solide comunità che celebravano l’antico paese dove erano avvenuti gli alti fatti nobilmente compiuti.

Il tutto aveva un forte valore di fede e speranza, mirando a non perdere il valore dei figli dell’antica patria e, ogni persona chiunque essa sia e dove si trovi, conosca l’opera compiuta da questi, per non perdere la memoria e rendere vivo anche a noi l’entusiasmo per le opere queste portate a compimento per onorare il culto completo e l’entusiasmo di appartenenza.

Tutto questo aveva il fine che le nostre popolazioni, pur se ristrette in piccoli Katundë, mantenevano alti i valori dell’antichità; e siccome le diverse classi non si sono disgiunte tra loro, le ultimo partecipano alla conoscenza in egual misura delle prime e, l’educazione particolare e private diviene diffusa in egual misura a tutti gli arbëreşë.

Valori sociali diffusi siano alle famiglie più agiate, le quali allevano i figli propri e, quelle dei meno abbienti, avevano possibilità in egual misura a tutte le nuove generazioni, di migliorarsi e illuminare l’insieme di Iunctura sociale unico e inimitabile, in altri luoghi del vecchio continente.

Per saper leggere tutto ciò non serve dialogare o mettere in risalto figure come il drago sconfitto dall’indimenticabile Giorgio, ne urlare su campanili senza croce, immaginando che la stagione corta, quella della luna di castagneti e noceti, crei più germoglio di quando produca la stagione lunga del sole e dei campanili, in tutto: “Verà i Arbëreşë”.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-03-14

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REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

Posted on 04 marzo 2025 by admin

Arber

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia delle migrazioni Arbëreşë è molto articolata, complessa o variegata e, i tipi possono essere classificati in base ad avvenimenti storici, sociali e di confronto, svoltisi o avuto luogo nello scorrere di numerosi secoli.

In tutto, un componimento latente di flussi costanti, con picchi cadenzati di marce soldatesche; abbandono di terre natie per bisogno di migliorarsi; o di quanti, preferirono abbandonare ogni cosa materiale, per cercare terre parallele e tutelare consuetudini, identità linguistica e religiosa, questa ultima categoria di migranti, sono i più titolati per essere ricordati e ricevere merito per la caparbietà palesata.

A tutte queste fasce migratorie, poi vanno aggiunte le conseguenti attività di sovrapposizione dei propri nuclei familiari o richiamate o facenti parte del flusso posto in essere nel corso degli anni.

Non esistono gruppi di un sol genere, che nelle rive dell’adriatico sbarcarono per trovare vita nuova o agio, infatti sin anche quanti portati a Napoli da re Carlo III per essere la sua guardia personale, la gloriosa Real Macedone, furono seguiti dai propri familiari che vennero allocati nelle marche e, liberi di essere raggiunti dai valorosi e famosi stradioti.

A tal proposito va sottolineato un dato, che nessun gruppo era fatto di un esclusivo genere, ma tutte o erano famiglie in cammino o in attesa di riunirsi, con il proprio genitrice.

E se in qualche macro area, i tempi e le scelte di integrazione hanno intaccato la propria identità e, smarrito la retta via nel mantenere le proprie consuetudini, non si possono nascondere dietro le affilate lame delle spade degli stradioti, per camuffare le nudità femminili, palesate nel presentarsi innanzi le effigi o i giorni della memoria Arbëreşë.

Da ciò si può dedurre che le migrazioni, sono fenomeni complessi, spesso originati da una combinazione di fattori e, numerarli secondo le epoche in cui hanno avuto efficacia, non da merito e distingue l’operato eseguito per dovere, per necessità o per ideali identitari da non smarrire e, chi lo fa numerando solamente, si copre di vergogna tipica “lljtirë” indigena.

Incentrando il discorso nello specifico di queste pieghe avute luogo tra le sponde del fiume Adriatico sino allo Jonio e, di queste le più remote, furono innescate a causa di guerre o conflitti e, i soldati mobilitati dovettero recarsi, in luoghi lontani e, terminata la missione, per diffidenza dei duchi mandatari, furono allocati oltre il faro e ancor di più, per non insediare, con lo scorrere del tempo quelle terre conquistate.

Un altro atto significativo che ha innescato le migrazioni era la ricerca di migliori opportunità economiche è quindi rendersi utili in specifici territori abbandonati al fine di renderli produttivi, partecipando e dando agio alle poche e inadatte braccia  locali.

Le persone si spostano da aree con economie deboli o opportunità di lavoro scarse, verso regioni o paesi con prospettive più promettenti.

Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si guarda alla migrazione per lavoro o per migliorare le proprie condizioni di vita.

A questi evidenti e incontrovertibili avvenimenti, si aggiungono le migrazioni della diaspora, ovvero: “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo” guidate programmate e disegnate secondo arche o ideali di libertà, giustizia e uguaglianza.

In tutto quanti sfuggono ai regimi oppressivi, cercando asilo in paesi dove possono vivere secondo i propri valori, senza essere scambiati per invasori, masse soldatesche o fugaci economici, diversamente da quanti mirano alla sola ricerca della tranquillità che la democrazia di un ben identificato luogo parallelo offre, essendo una terra dove si garantisce il germoglio della certezza di libertà politica, sociale o religiosa.

Queste in maniera poco attenta e molto spesso inopportuna, sono assoggettate al popolo che oggi sostiene la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Infatti essi sono assoggettati e distribuiti secondo un numero inopportuno di migrazioni, nonostante si disposero nel corso dei secoli, in eventi che dal tempo dei romani ad oriente, poi i veneziani, senza dimenticare, San Marino, Jesi e Recanati.

Tuttavia le migrazioni che istituirono le macroaree della Regione Storica si disposero nelle sette regioni del meridione italiano, dando luogo a cento dieci Katundë, con capitale Napoli.

Un insieme storico diffuso ancora oggi solidamente identificabile grazie all’idioma, che tramanda consuetudini della antica terra madre, oltre la credenza e i patti di iunctura familiare allargata, più nota come Gjitonia o governo delle donne, l’ambito dove i cinque sensi degli Arbëreşë, ebbero il loro germogli dal 1469 al 1502.

Questi sono la parte degli esuli, delle migrazioni su citate e, rappresentano l’insieme migratorio che intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, innestarono le radici e la credenza da preservare, tutelare e tramandare perché minacciate in terra balcana da campanili non più bizantini.

Altre realtà migratori sono sempre pervenute dalle regioni ad est del fiume Adriatico, ma con esigenze diverse, che rispondevano a cadenze soldatesche, o di imperi in terminazione, comunque di altra radice o di episodi migratori latenti che non hanno nulla a che vedere con le arche arbëreşë, della parentesi su citata con anno di inizio e termine di approdo.

I profughi che oggi tutelano l’antico idioma Arbëreşë, da non confondere con l’Albanese moderno, sono una risorsa storica inarrivabile e, solo immaginare che una lingua antica dei Balcani, la cui radice è tra le più antiche del vecchio continente ad Est, vive nel meridione italiano così tanto ad Ovest ancora intatta, dopo oltre sei secoli, non è un caso fortuito.

Constatare che l’idioma ancora si tramandato oralmente senza attività scrittografiche, se non l’uso del canto; apre uno scenario a misura di quanta caparbietà è allocata nei sensi, di questo popolo che non smette mai di stupire i visitatori che qui trovano sonorità e parlato antico.

Parlare di migrazioni dai Balcani numerandole e datandole potrebbe essere interpretato come una riduzione del fenomeno a semplici cifre, che rischia di non rendere giustizia alla complessità e alla varietà di esperienze individuali e collettive legate alla migrazione.

Le migrazioni sono fenomeni sociali, culturali e politici profondi, che non possono essere spiegati solo in termini numerici e, a tal fine diventa opportuno considerare le cause storiche, le condizioni socio-economiche, le politich, le esperienze personali degli emigrati e le dinamiche di accoglienza nei paesi ospitanti.

Tuttavia, se il contesto in cui si discute riguarda dati statistici o un’analisi quantitativa, allora può essere utile includere numeri per comprendere l’entità del fenomeno, ma sempre con una narrazione che tenga conto del lato umano e sociale in essere emergenza.

In sintesi, parlare solo in termini numerici delle migrazioni dai Balcani non è “normale” nel senso di una visione completa e rispettosa del fenomeno, ma può essere parte di un’analisi statistica, sempre accompagnata da un’attenzione agli aspetti qualitativi.

Chi migra per tutelare la propria lingua, le proprie consuetudini e credenze rientra tra i gruppi di genere o persone che preferisce mantenere i propri “motivi culturali” o “motivi identitari”.

In questo caso, la migrazione non è motivata solo da ragioni economiche o politiche, ma dal desiderio di preservare un patrimonio culturale e spirituale che potrebbe essere minacciato nel contesto di origine.

I termini su citati definiscono la tipologia di migrazione e indicano un fenomeno in cui le persone cercano di mantenere intatti i propri valori, tradizioni, lingua e credenze, magari in risposta a un ambiente che non li favorisce o li minaccia.

In tutto il fenomeno potrebbe essere inteso come “esodo culturale” specie quanto interessa o fa riferimento a gruppi della stessa radice identitaria che migrano in massa, al fine di proteggere la propria identità collettiva.

Se gli arbëreşë hanno salvato una consuetudine linguistica antica, chi salverà l’arbëreşë e tutta la sua storia da chi si ostina a riversare aceto che non diverrà mai buono vino?

Anche qui senza fare confusione come accade nella legge 482/99 serve un terzo articolo in questa legge e, sino a quando non si provvederà a seguire “la regola della tabellina del tre”, la stessa che ogni asinello a scuola dopo i precedenti 3 e 6 terminava la prima decina con il trittico del sancito dall’’art. 9 della attuale Costituzione che tra i principi fondamentali recita quanto segue:

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della popolo tutto.”

A tutto questo comunque e dovunque nel 2022 è stato aggiunto il riferimento alla tutela dell’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, disciplinando i modi e le forme di tutela di cose materiali ed immateriali.

Tale articolo deve considerarsi la vera “testa di capitolo della legge a tutela delle minoranze in specie quella Arbëreşë”, la scintilla, deve allestire e preparare il principio di tutela in senso generale senza avere il banale bisogno di rendere banale, dipingere o alfabetizzare la consuetudine linguistica sostenuta dal canto, più solida e integrata, del vecchio continente mediterraneo.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                         Napoli 2025-03-04

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I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO  (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

Posted on 02 marzo 2025 by admin

Pecore

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono valori, che i comuni viandanti locali, non potranno mai fare propri e, questi per cavalcare le onde del protagonismo locale usano i battiti del cuore, che in quegli ambiti pulsano perché furono di quanti partirono per apprendere il mestiere del confronto.

La premessa vuole sottolineare o meglio ricordare ad alcuni “lagrimosi culturali” che i temi e le memorie locali rimangono impresse nella mente di quanti partono per migliorarsi e, non di quanti fanno restanza per essere mantenuti dal tesoro culturale di quanti vanno alla ricerca di certezze di confronto.

Il teorema è un’espressione poetica o filosofica, che fa riferimento al principio, che vorrebbe, fare memoria, cambiamento e di continuità storica di un luogo specifico.

Non si tratta di un vero e proprio componimento matematico, ma esso viene inteso come principio indispensabile a rendere chiaro il quadro dello stato delle cose.

Che sottolinea una situazione di un luogo e ricordi o meglio esperienza di radice per chi parte, di contro chi rimane e, fa “restanza”, tende a dimenticare e rendere vivide o violacee quelle esperienze di anomalia locale scambiate per sviluppo.

Certamente quanti rimangono e fanno “restanza oltremodo statica”, non hanno consapevolezza della vita che continua per migliorarsi e, il loro contributo non deve terminare con il cambiamento ad ogni costo senza mantenere alcun legame con il passato.

In contesti più emotivi o letterari, non possono essere racchiusi nella mera idea del cambiamento a tutti i costi, creando così disconnessioni nelle relazioni locali, facendo sì che chi se ne va, abbia ricordi più vivi, solidi e indispensabili, mentre chi resta si adatta a nuove realtà, spesso lasciando andare ciò che è stata radice, ammesso che ne abbiano avuta una.

Chi si vanta di restare o tornare appena assolto un compito in classe con lode, potrebbe essere intesa come paura, di affrontare le opportunità che la vita ti offre fuori dal recinto di casa.

E se chi parte, riflettere solidità priva di dubbi e attaccamento al luogo natio; dall’altra viene intesa come povertà economica o incapacità di quanti partono per confrontarsi con nuovi processi per affinare il proprio germoglio culturale fatto di frutti buoni e genuini.

In questo caso, chi resta potrebbe essere visto come una persona che sceglie di non affrontare le difficoltà e mantenere un legame, magari per senso di irresponsabilità, anche se poi, forte dei suoi luoghi casalinghi in amministrazione, imita gesta altrui, fatte per quei luoghi, che per i restanti restano il bosco della paura.

D’altra parte, è facile vantarsi o atteggiarsi senza confronto, e tentare di enfatizzare una qualità che non si ritiene necessaria come la memoria di ieri, perché ignota.

Spesso, la scelta di rimanere o tornare dipende da fattori più complessi, come il contesto emotivo, le circostanze pratiche o le proprie aspirazioni, molto limitate o circoscritte in ambiti di piccola ristretta.

Se qualcuno si vanta di questo, potrebbe essere interpretato come un modo per cercare di dimostrare qualcosa agli altri, come se fosse una “vittoria da celebrare”, ma che se in cuor loro, sanno che a segnare i ritmi della storia sono quanti partiti per promessa data, conservando nel proprio cuore e nella propria memoria le gesta intatte della storia locale.

In generale, la chiave sta nel riconoscere che ogni scelta ha il suo valore, e non c’è una risposta universale su cosa sia giusto o sbagliato.

Ma il vantarsi o aoto elevarsi, perché in casa propria, potrebbe dare l’impressione di non avere chiare tutte le sfumature della situazione, riducendo ogni cosa in mere affermazioni o canti di superiorità armonizzati.

A volte, la scelta di restare non è una forma di resilienza meritevole, infatti sono proprio queste figure che incantate dai paesaggi dove sono transitati furtivamente pensano di riversare ogni cosa nei luoghi di origine, che a questo punto diventano un mercanteggiare diffuso, dove esporre cose che indigeni di ogni luogo portano per vendere e far violare la memoria che inizia e disfarsi per essere velata.

La distinzione tra chi resta e rinnova un luogo e chi parte per arricchirsi di conoscenza solleva un dilemma che ha una ampia applicazione, in quanto entrambi i percorsi generano impatti radicali e, su piani diversi.

Chi resta e si esalta nel rinnovare dimenticando le sue radici, che lo fanno apparire come agente di cambiamento diretto senza fornire solide certezze connesse con le cose del passato.

Infatti, rimanendo in un luogo, questa persona ha la possibilità di influenzare concretamente l’ambiente in cui vive, portando innovazioni, idee fresche o anche piccole trasformazioni quotidiane che migliorano la qualità della vita e contribuiscono a una crescita collettiva. In un certo senso, questo tipo di persona “radica” il cambiamento, costruendo qualcosa che può durare nel tempo.

Chi parte, invece, va a cercare un arricchimento interiore, un ampliamento delle proprie competenze e della propria visione del mondo.

La conoscenza che si acquisisce, sommata alle esperienze vissute sviluppano la conoscenza e il confronto con la memoria e, quando si ritorna, avendo un largo e più giusto valore agli ameni luoghi natii.

Chi parte quindi, se consapevole ha il potenziale di trasformare se stesso e, di conseguenza, potrebbe essere in grado di portare un cambiamento più innovativo e versatile, a quei luoghi che vivono all’ombra dei restanti.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciamo nel nostro contesto specifico, facendo crescere ciò che è realtà locale vissuta, nei tempi della crescita personale, la stessa che consente e permette poi di portare un contributo più idoneo ottimale e radicato.

Tutto comunque dipende dal definire “valore” e “miglioramento” e se da un lato, chi resta in un luogo e si esalta ad essere o diventare un punto di riferimento, un leader o qualcuno che contribuisce in modo duraturo alla comunità.

La sua capacità di resistere e crescere può essere vista come una forma di forza e resilienza, il cui risultato è sempre compromesso dal ripetersi ed apparire come emblema o difensore di quel identificato ambito.

Dall’altro lato, chi parte e si migliora potrebbe proporre nuove esperienze delle prospettive del passato che sono rimaste immutate e, adattarsi per arricchire il tempo dei domani.

Spesso il cambiamento e l’evoluzione vengono viste come simboli di crescita, se poi sono parte di un ampio progetto di forza al luogo, che non ha termine di assolvere al ruolo di necessità, offrendo opportunità alle prospettive di miglioramento di competenze diffuse con attori i generi di quel luogo.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciano quanti partono, facendo crescere le opportunità, di chi resta sperando in un raggio di sole che illumini il luogo in senso generale, non il palco trasversale dove si esibisce chi resta in solitario apparire demenziale.

In definitiva e per concludere, quello che più conta per la valorizzazione e la resilienza, di un ben identificato luogo, deve avere come protocollo i valori consuetudinari di Gjitonia, lugo di cinque sensi dove crescere secondo le antiche consuetudini fondamentali del governo delle donne.

Quello che non forniva solo misure di confronto alle generazioni in crescita, ma sentimenti di rispetto e confronto con tutti i generi, onde evitare di rimanere isolati e diventare un prete senza devoti, che non fa il bene comune per diffonde la consuetudine antica del popolo Arbëreşë, immaginando che ogni Katundë, sia recinto dove allevare belati unitari diretti sulle terre paludose dell’hişkj e non dal un saggio massaro che sa quando dove, come e di cosa farle cibare.

Atanasio Arch. Pizzi              

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IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

Posted on 22 febbraio 2025 by admin

ciliegio

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della popolazione arbëreşë, non è fatta dei riflessi della luna negli occhi di una madre, quando allatta i suoi figli, specie se seduta sotto l’ombra che fano le foglie di un albero di noce; ma raggi di sole al mattino, che indicano la via maestra ad un popolo in crescita solidale, in quelle “Terre lagrimose, colme di pia genti Arbëreşë”.

Questo teorema fa la differenza tra la luna il sole e, in tutto il circoscritto del genio del male e il santificare del bene, nel corso del tempo per dare agio alla minoranza, di purificarsi e diventare il gioiello più solido e prezioso dell’integrazione mediterranea.

Nel racconto generale che gli eletti dispongono o stendono a gocciolare di notte e di giorno, senza cautela di raccontare sotto l’ombra di quelle pianta si viene poi allattati dal primo giorno di vita e, di quelli futuri a venire.

Tuttavia la differenza la fanno le cupe e tondeggianti noci, l’affilato mandorlo, a cui si contrappongono il sorridente ciliegio e il verde ulivo.

Una sostanziale differenza che ha come protagonista il colore in primo piano, in specie di quelle piante che non hanno, bisogno di una corazza per presentarsi a primavera innanzi alla luna, ma quando le illumina e il sole svelano la vera natura.

Un po’ come fanno gli isolani d’archivi e di biblioteca per seguire le tracce della storia mirano a sottrarre la scena di quanti vivono d’ascolto e confronto e, in specie minano le conquiste di memoria storica locale.

Quando si semina il grano in quelle piane che nella consuetudine linguistica locale degli arbëreşë, appellate, corredo steso al sole (arethë i shëtruatë ndë dialjtë), si preferivano le terre migliori, nel mentre gli ulivi azotavano quell’oro di coltura, con le foglie sempre verdi.

Un teorema antico, che poi la consuetudine degli arbëreşë, riversava nelle nuove generazioni che crescevano nei stenopoi e i plateiai della iunctura familiare sotto la luce e le ombre del sole che accarezzava Gjitonitë.

Pericolosi diventano quanti si sentono interi, ma poi culturalmente sono solo una metà di quello che serve, in tutto la negazione del vero che viene riferito agli altri condannati all’ascolto della libera e gratuita interpretazione che si espongono sotto il nocivo e liberale arbitrio.

Imparare a sognare quando non si è più bambini perché la speranza di essere eccellenza, si allontana dalle tue aspirazioni culturali, non ti dà rispetto in te stesso, specie quando ti specchi e, ti vedi sempre più nudo e senza alcuna veste di nobiltà sociale, che ti possa confortare per quello che hai dato e non puoi più ordinare.

Chi segue le linee parallele dell’arato deve saper espandere, la giusta dose di seme, altrimenti i covoni non saranno solo di spighe di grano ma anche di inutile fatuo, che serve solo a degenerare quel terreno che sostenere il tuo essere e la casa del bisogno.

Il fatuo nel seminato storico degli arbëreşë è sempre stato presente, ma la saggezza dei nostri avi ha fatto sì che non invadesse più di tanto, il seminato estirpandolo prima che diventasse spiga e fare danno, purtroppo le generazioni che hanno dimenticato questo atto di tradizione, hanno lasciato libero agio a quelle piante infestanti come se fossero genere buono e genuino.

Oggi purtroppo ci ritroviamo con campi di fatuo, dove non riusciamo più ad individuare il genuino, che la storia separa la crusca dalla farina.

Il senso di questa frase vuole dimostrare che il libero racconto democratico, dove tutti sono liberi di esprimere opinioni e un processo naturale che l’uomo espone come giusta causa.

Ma non tiene conto del dato che oltre la linea della porta di casa propria, le cose devono essere e rispettare la storia di tutti gli uomini, le cose che fanno Katundë e valorizzano il senso della regione storica diffusa, sostenuta in arbëreşë.

Ovvero dove termina il solco del seminato di ognuno di noi e, iniziano le terre che appartengono agli altri, per questo vanno rispettate senza essere contaminate da tutte quelle genti che li transitano per dare agio al cuneo di sostentamento, economico e civile, non fatto dalle foglie del nocivo arboreo, ma del verde candido dell’ulivo mediterraneo.

Tuttavia la professione più nobile e diffusa è quella del cantare seguendo la musica o invadere le professionalità  di quanti vogliono emulare e cercano senza risultato, le antiche direttive degli Olivetani napoletani, quelle che si diffusero dal convento lungo il crinale che porta a capodimonte, quando non era ancora reggia.

La Repubblica, nonostante l’articolo nove, promuova lo sviluppo della cultura, tutela il paesaggio, il patrimonio storico, artistic l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni.

Tuttavia i liberi pensatori, sotto la bandiera del dualismo politico, compiono senza respiro ogni genere di gemellaggio e miscelano la tutela su citata, che si decompone e diventa polvere al vento.

Ed è questo che bisogna concentrarsi a saper avvicinare le menti e i principi senza intrecciarli o renderli tessitura impropria. Va in oltre sottolineato che le istituzioni tutte di ogni ordine e grado sono all’oscuro o meglio adombrati dalle foglie del noce e si finisce nel rendere sin anche pagana il ricordo del termine di tutta la regione storica un tempo sostenuta dalla credenza  arbereshe, che in questa giornata promuoveva le cose buone della natura esclusi tutti i ricavati di sangue o di estrazione animale; buona ricorrenza a tutti quelli che sanno e tutelano memoria che non è per quanti, davanti a una fetta di salame o un bafa di genere aquatico sotto olio, dimentica il dovere del rispetto dei morti e, ingurgitano tutto, in memori di un nulla che si prospetta davanti a queste blasfemie senza radice.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                NAPOLI 2025-02-22

 

pppppp

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I PAESI DI RADICE ARBËREŞË SONO TUTTI STESI SULLE COLLIME CHE MIRANO AD EST (diersëtë thëjatruatë më thë mirà janë ata cë kamë shëlognë) (i sudori di studio migliori sono quelli che ancora devo versare)

Protetto: I PAESI DI RADICE ARBËREŞË SONO TUTTI STESI SULLE COLLIME CHE MIRANO AD EST (diersëtë thëjatruatë më thë mirà janë ata cë kamë shëlognë) (i sudori di studio migliori sono quelli che ancora devo versare)

Posted on 19 febbraio 2025 by admin

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PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

Posted on 15 febbraio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giorno vi dirò, che ho lasciato il luogo della mia radice, per trovare risposte e prospettive che mancavano al progetto di riqualificazione dei luoghi della mia crescita e, di tutti quelli simili o equipollenti.

Forse riderete di me, perché non sono istituto, ma una promessa data, quando il sole tramontava e la luna si prestava a sorgere, andava finalizzata per diventare “Istituzione Storica” del parlato, della consuetudine e del cantato, che ancora oggi ai musicanti inquieti rimane costellazione ignota.

E per poter oggi indicare la strada fatta in adempimenti di: ricerca preliminare, pianificazione definitiva, poi di esecuzione e, solo dopo il termine di questi atti preparatori di analisi, predisporre il cantierabile  per recuperare ogni cosa.

Voi tutti oltre a non credermi, non mi crederete e, né mi consentite di esporre tutto da oltre due decenni, i risultati ottenuti e negatimi anche pubblicamente, ma credetemi è costato tanto sacrificio di sudore lagrimoso, come fa il vento quanto una madre allarga le braccia per tenere stretto il suo nascituro, crescere leale e orgoglioso di essere protetto da quel vento buono.

Oggi è il giorno che vi dirò, che ho voluto bene più di me a questi luoghi lagrimosi, ancora sani, non per chi ci vive, ma perché sono stati costruiti bene e, colmi di sentimenti antichi, similmente a come fa un padre con un figlio, quando lo accompagna a migliorarsi nelle cose pratiche della vitta, anche se un padre non deve mai piangere e né mai smettere di credere in quello che fa per il bene degli altri e continuare a vivere per sostenere e soddisfare del suo operato.

Tutto il progetto nasce per garantire, salvaguardare ogni manufatto o area da recuperare, per questo, ogni scelta è stata fatta secondo un protocollo rigido supportato da adempimenti di attività che non sono mere o semplici arche illustrative.

Infatti i protocolli richiedono esperienze multi disciplinari alte, con il fine di raggiungere il risultato desiderato entro i limiti di tempo, risorse e finalizzate a sostenere dopo averli ritrovati, tutti i segni identificativi senza incutere velature di qualsivoglia inventiva, al fine di perseguire il risultato finale, che deve restare memoria di lugo, uomini e tempo, ma non quello importato oggi dalle terre dell’antico impero ancora in caldera vulcanica, oltre quel fiume di lava denominato Adriatico.

Ogni fase, per questo, assume un ruolo ben preciso e finalizzato a non produrre danni o finire nel campo del fatuo o inutile intervento.

La prima fase serve ad identificare il luogo o l’edificato valore storico cercando, l’originario impianto del bisogno otre a definirne le aggiunte di miglioramento sia strutturale che storico, che perseguono, il fine del migliore risultato di risorsa per il bene del luogo in tutto l’esperienza necessaria a, stabilire chi è responsabile delle prime valutazioni di eventuali rischi, che ne compromettano senso di luogo, storia e necessità dell’uomo.

Nella seconda fase vengono dettagliati i valori astorici architettonici da seguire, le scadenze, il budget, oltre le risorse indispensabili da porre in essere al fine più idoneo o perseguibili.

Questa è la fase in cui vengono prese le decisioni più importanti a riguardo al progetto, pianificare e prevedere eventuali problemi disponendo strategie e tecnologie per mettere in atto quanto predisposto per la gestione e utilizzo delle attività senza smarrire l’originario fine di tutelare forme, luogo, cose e storia in esso contenuti per, mantenere vive le prospettive, del valore pittorico/architettonico in tutto il segno forte che genera quel luogo di memoria e arte che non dovrà mai essere smarrita.

Il terzo ambito del progetto mira a rendere possibile quanto stabilito e, rendere l’operato in svolgimento sempre sotto il rigido controllo del progettista e del gruppo di lavoro preposto al progetto, che deve svolgere attività e controllo sempre presente per gestire le risorse lavorative e gli strumenti idonei per la più giusta applicazione e svolgimento vengono secondo le maestranze di compiti.

Questi sono anche momenti cruciali per monitorare l’avanzamento dell’opera e fare eventuali aggiustamenti in corso d’opera che non potevano essere previsti e contemplati al chiuso delle aule di studio che sono sempre e rimangono teoria di esperienza.

La Quarta fase mira alla realizzazione vera e propria del progetto e, tutto dipende dalla direzione dei lavori e dalla manualità di tutti i componenti del cantiere maestranze e manovalanza al completo, avendo il progettista responsabile conoscenza di ogni attività che qui in questo circoscritto viene posta in esse, sia dal primo atto della eliminazione di tutte le superfetazioni sino al primo getto di lavorazione.

Avendo cura di eseguire sopraluoghi dove si valutano le lavorazioni in atto compreso le modalità di esecuzione di ogni facente parte la piramide dei lavoranti.

La revisione finale, deve solo raccogliere i risultati di valore e rispetto rivolte a tutto il sistema e dei suoi elevati, orizzontamenti, sia in piano che inclinati, il tutto rigorosamente archiviato e documentato in ogni genere di lavorazione eseguita, con fotogrammi specifici e generali di adempimento lavorativo.

Nella fase esecutiva cantierabile, si raggiunge la meta di riflettere su cosa è andato bene e cosa potrebbe essere migliorato per sostenere il valore identitario del manufatto senza metterne in dubbio il suo valore.

Affermare e annotare quanto detto, nasce dall’aver avuto esperienza collaborativa diretta, in progetti di rilievo e recupero funzionale eseguiti con successo e, menzione in tutto il meridione italiano, in specie archivi, biblioteche, musei, cattedrali e conventi, oltre residenze reali e non, acquisendo e maturando, così, una esperienza di valori pratici innescati in gioventù da chi ha avuto genitori attenti, in campo impiantistico e di meccanica manuale, finalizzato all’artigianato generale, poi preservato e consolidato con passione irripetibile nei tempi della formazione scolastica; e quanti hanno avuto modo di avere questi esemplari di gioielli di lume, al loro fianco nel percorso formativo di titolo, questo giunto in un secondo momento e, per questo di sovente  tutti, si interrogavano e gli chiedevano: come mai non sei ancora laureato? E l’ira dei domandatori, era sempre ripetitiva e, si elevava riecheggiante negli studi e, nei cantieri creando non poco imbarazzo verso gli astanti: alla risposta preconfezionata in difesa: si, è vero, non sono un professionista titolato, ma conosco tutti i mestieri questo mi rende perla del semplice titolo cartaceo.

Poi il titolo, giustamente e meritatamente arrivato, ma quello che è cambiato è solo il sostantivo di avvio di una richiesta lavorativa ad opera dei peggiori artigiani, e che ancora oggi crea panico e preoccupazione a un professionista direttore dei lavori, con le rassicuranti parole, che cito per allertare i professionisti tutti, specie quanti non praticano cantieri ma solo cattedre: ci penso io, so come e cosa fare (Muu bighù iù, sacciù cùmë ajè fa!) questo, se non lo sapete è l’inizio di una tragedia irrecuperabile del cantiere dove vi trovate e mi raccomando non sostate al centro di solai o volte pericolanti.

Specie voi che siete docenti e non praticanti di un cantiere.

Tuttavia sento progetti di “gemellaggio e di recupero di piccoli centri” eseguiti o diretti da chi frequenta cattedre frastagliate o allestisce consiglieri infanti, che si credono eccellenza giacche eletti culturali.

Le stesse figure di genere ignoto alle quali se proponi cose con finalità storiche, invece di ascoltarti, preferiscono deliziare il palato e aspettando di saggiare manicaretti dolci, mel mentre il pensiero è rivolto a sognare cose che non esistono e nessuno è in grado di reggere o supportare, nel continuo dissipare risorse o insaccare falsità di loco.

Ma questa è un’altra storia di pena che a breve avrà un inizio, svolgimento e fine ignota, dato che a proporla sono i soliti cavernicoli di cattedre in elevato o ferro di asino piano con due appigli laterali inutili, in quanto a reggere

e rinforzare sono i chiodi piegati saggiamente inseriti nello zoccolo duro dal maniscalco saggio.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-02-15

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