NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il mestiere dell’architetto storicamente nasce per ottimizzare la convivenza tra gli uomini e la natura:
(Archi), secondo il vocabolario etimologico rappresenta il principio antico, si configura nel tecnico che con esperienza di luogo inizia a tracciare linee ed archi;
(Tek-Ton), artefice, rifinitore, compositore, esprime anche la figura capace di fabbricare, produrre ogni cosa lavorandola.
Non vi è ombra di dubbio, che “la bottega dell’artigiano artista”, dall’appellativo così completo e complesso, non si può terminare, nell’inquadrarlo in uno stravagante o allegorico modellatore dello stato di luogo.
L’architetto è la figura più rappresentativa della storia dell’uomo, la sua funzione di artigiano, non termina nell’uscio della sua bottega, in quando si espande come cerchi concentrici nel territorio senza mai terminare di illuminare i luoghi per dargli valore, vivo, utile e fruibile.
Dal primo punto, dove parte la linea o il cerchio, quando appoggia la matita sul foglio di progetto, inizia il processo di esperienza, attraverso il quale, si produrranno i presupposti di comune convivenza tra ambiente naturale e uomo, grazie alla sua idea e la relativa manualità; fuori dall’uscio della sua bottega le sue arche diventano, realtà, convivenza con la natura, senza smarrire la via che collega metrica e idea.
Il buon prodotto o provocazione, messo in atto, avrà come verificatore di tempo, il principio della resilienza, solo allora le architetture e le trame urbane, avranno modo di dimostrare la loro adeguatezza.
Oggi, comunemente si elevano nuove generazioni di “riparatori del passato” i quali privi di maturata esperienza in senso di tempo, ma carichi di entusiasmo, dimenticano che ogni cosa che ormai appartiene al passato, (riconosciuta o meno dalle istituzioni), esige rispetto e indagine multidisciplinare, almeno storica, giacché quelle emergenze ancora in vita hanno accolto e salvato il genere umano da calamità telluriche, mediche ed economiche ancor più violente di quanto avviene si possa immaginare nella nostra epoca.
Allo stato delle cose, non serve riformare l’architettura, ma solo ed esclusivamente l’itinerario di formazione, visto che hai tempi nostri si ambisce al titolo e non per capacità manuali ma per le mere idee non ancora poste in essere nel confronto con i luoghi e la natura.
La formazione delle nuove generazioni, a cui le università fornisce il metodo intangibile, lasciando al libero arbitrio l’espressione tangibile senza una’adeguato metrica all’interno delle botteghe di architettura; allo stato dei fatti serve incutere alle nuove generazioni, l’uso delle mani e della mente in stretta e costruttiva composizione architettonica, tra uomo fruito e natura sostenitrice.
Purtroppo questo è il grande progetto o disegno dirsi voglia, assente; il luogo della deriva storica da cui non si ha la prospettiva libera, come usufruito dai nostri padri artigiani, nel processo di convivenza tra uomo, natura, ambiente costruito, la comune lettura non consente il distinguere cosa sia una fonte genuina, da uno torrente idoneo per annaffiare giardini o per lavare vesti.
Questo dato porta comunemente gli addetti, ad avventurarsi in processi irreversibili per i quali non hanno consapevolezza del danno che andranno,a produrre, abbandonando poi i temi allestiti senza la idonea radice, e per questo nelle disponibilità della natura ,che con tempo e cautela riporta l’ambiente come prima.
Immaginare che una fibra ottica o un’intelligenza matematica possa risolvere i mali delle città metropolitane e/o i problemi sociali economici e culturali, è una favola cui non crede nessuno.
Gli architetti che storicamente sono artigiani fuori e dentro le mura della loro bottega, hanno fornito risposte più a misura d’uomo e meno di macchina o di vacini matematici come unico risultato.
Un detto dice: per bagnare non basta solo l’acqua ma ci vuole l’uomo che sappia comprendere quanto continuare il flusso; se troppa si finisce per distruggere, se ristagna, si ottiene la palude, se poca, il deserto.
A tal fine è bene precisare che i mezzi sono una cosa, ben diverso è il fine cui si ambisce; ritenere che viaggiare bene per raggiungere una meta è la certezza di giungervi, non è scontata.
Per questo quando si vanno a manomettere le originarie trame, che compongono, oggi, le nostre città, paesi e casali, è utile formarsi prima o se troppo complicato l’argomento, creare un gruppo di lavoro multidisciplinare che prima studia gli eventi analizzando la luce, che ha prodotto le ombre lasciate dal passato, se previste, o causate da nuovi eventi.
Oggi si studino i processi di resilienza immaginando di dare risposte sulla base, di progetti a dir poco irrealizzabili, i quali per un benessere ipotetico non hanno consapevolezza del luogo e la misura dei cinque sensi necessaria a sviluppare la comune convivenza.
Ipotizzando misure di città, ambiente con carature dissimili, prevedendo che ogni cosa possa essere inserita in ogni dove, si termina di produrre la radice e i relativi germogli utili solo per la serra.
Le nuove generazioni di architetti istintivamente, ritenendosi rinnovatori, sfuggono al cospetto della storia, e mi limito a parlare della nostra Italia e dei suoi centri antichi, le fucine ideali del fenomeno della resilienza, di cui si fa un gran parlare.
Accade di sovente e in molte manifestazioni di formazioni, ascoltare un insieme informe di provvedimenti da adottare, e tutti, nessuno escluso, hanno una caratteristica fondamentale che li accomuna: l’assolata mancanza di formazione e analisi storica degli ambiti trattati, specie riferibili a concetti spaziali dove i cinque sensi in misura differenziale dovrebbero fare da protagonisti .
Nel progetto della nuova generazione, di sovente sfugge il dato che gli ambiti che contengono le architetture del passato hanno già vissuto gli effetti di resilienza, e grazie al giusto rapporto tra uomo, ambiente naturale e costruito, è stato possibile affrontare ogni avversità sia naturale che indotta dai generi umani distratti.
Aristotele nei trattati dell’architettura divideva il modello urbano in tre categorie differenti e ogn’una di esse caratterizzava la vita e la prosecuzione della specie, se il sito era innestato in ambito montano, collinare o di piano in riva al mare.
Architetture e trame urbane che dovevano rispondere a esigenze dell’uomo che per la loro posizione geografica si confrontavano e innestavano la loro specie indelebilmente.
Va in oltre precisato che le architetture del passato non erano immaginate e crescevano nel tempo di una stagione, esse rappresentavano l’abaco della vita dell’uomo, era lui che le modellava dietro le direttive del maestro architetto, secondo un rapporto rispettoso di parametri che non sovrastavano ne le esigenze della natura e ne quelle dell’uomo.
Centri antiche che si sviluppano prima in senso orizzontale senza mai perdere le misure dei rapporti umani e quando questi iniziano a non avvertire il riverberarsi della misura dei cinque sensi, si sviluppano sovrapponendosi, dando avvio così all’urbanistica verticale.
Sistemi sviluppatisi prima in senso orizzontale e poi in senso verticale sono i centri antichi che ancora oggi resistono alla modernità, conservando l’originaria trama urbana, la stessa che ha visto rispondere alle avversità sia che avesse radice naturale o indotta dagli uomini.
Oggi chi immagina boschi verticali, commette un grave errore, le piante nascono perpendicolari al suoli e chi le costringe ad adattarsi, ben distanti dal luogo dei cinque sensi, commette un grave errore naturale; se avete dubbi chiedete alle Alpi o agli Appennini sino al di qua del faro e vi risponderanno come accade.
Ovvero, le piantare sul fianco della montagna per inverdire la dimensione verticale, non fioriscono ma feriscono solo la dignità dei giovani arbusti obbligati dall’uomo, restituiti dalla natura sofferenti e in nuda e deforme piega.








