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LA MONETA DI MEMORIA E DIMENTICANZA CHE UNISCE ALBANESI E ARBËREŞË ghë gherë ishë kiana e kjepàtë thë bardà

Posted on 06 dicembre 2025 by admin

photo_2025-12-06_09-25-15NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sono numerose, tra Italia e Albania, le manifestazioni che si svolgono in dipartimenti, palazzi istituzionali e consolari, per rinnovare, spesso in modo quantomeno singolare, la memoria di una sola liberazione.

Quando ad accadere sono due: la prima al termine della stagione lunga a novembre e, la seconda rimane ancora viva la sensazione di quella disdetta che accolsero in solitario, l’inizio di quella stessa stagione in marzo.

Un’appartenenza isolata arbëreşe, senza che si vedesse ombra, di coloro che oggi si ergono a conservatori o promotori di un modello consuetudinario che, ormai, non appartiene più a loro e che vide in solitario operare Domenico, Antonio, e Massimo; coadiuvati dagli instancabili e operosi “cavalieri di legalità, geologia e architettura”, onde evitare di subire una nuova diaspora, che cancellasse irreparabilmente le cose immateriali e materiali appena scalfite da quella benedizione ostinata del lagrimoso Abate.

Furono questi sei impavidi discendenti a dover trovare la forza di organizzarsi e di affrontare una diaspora moderna, che oggi nessuno ricorda e nessuno osa menzionare, perché non conosce fatti luoghi e cose.

Allora, nel cuore più profondo, tutto si dissolse, privando quella piana di ogni appoggio fisico e morale per conservare memoria, luogo e una tradizione antica che senza soluzione di continuità ostinatamente vive.

E non attende una strada, non attende istituzione ma almeno una processione che unisca tutti in una devozionale processione dello storico Katundë.

Infatti tutto si concentra oggi nell’apparire di un vecchio quadrupede sul cui basto si posano due pesanti fasci di rami, uno rivolto a oriente, l’altro a occidente.

E mentre il falso condottiero, ignaro e frettoloso, si incamminava lungo il torrente adriatico per ansare verso la veneta capitale, la sua mano priva di cautela lasciò scivolare nel nulla l’intero carico d’occidente che non era stato opportunamente avvolto dalla corda.

Così tornò a casa fiero soltanto dei rami d’oriente, incapace di vedere l’asimmetria, la perdita, la menzogna che portava con sé dal 2005 al 2011.

E mentre in Albania si festeggi la fine del dolore di novembre, qui in Regine Storica si continua a patire l’inizio di quel mese di marzo discioltosi lungo la via del ritorno del distratto contadino

Ed è questo, ancora oggi, ciò che appare all’occhio solitaria di chi osserva da un lato chi si esalta, celebra, si autoproclama custode di tradizioni che non gli appartengono più; dall’altro, nella piana dove la diaspora non concede tregua, lasciando soli ed isolati coloro che portano sulle spalle il peso silenzioso di ciò che è stato davvero vissuto in lacrimosa imposizione istituzionale e culturale.

In quel tempo d’inizio della stagione lunga, quando ancora risuonavano gli echi delle manifestazioni esaltate di un inverno piovoso, la gente di quel piccolo Katundë attendeva San Giuseppe con la lanterna accesa, sperando che potesse portare un raggio di luce nelle pieghe ancora umide dell’oscurità.

Ma quel canalone, lasciato per anni a compiere il suo lento dovere, come se il suo respiro fosse soltanto un dettaglio del paesaggio, si destò all’improvviso.

E il suo risveglio, repentino e furioso, fece uscire tutti dalle proprie case, come se un’antica voce avesse chiamato ciascuno a ricordare che le cipolle non si potevano più ripiantare.

Le istituzioni, che avevano ignorato troppo a lungo la condotta e gli avvisi del religioso “Abate solitario che continuamente benediva quel canalone”, si trovarono dinnanzi alla sua ira, un’ira non urlata, ma scolpita nei gesti storicamente ignorati e, tanto potenti da far vacillare perfino chi non avrebbe mai immaginato che un semplice luogo benedetto dalle acque potesse generare tanta pena.

Così, in quel frangente sospeso fra acqua e terra, fra colpa e risveglio, prese forma la consapevolezza di un abbandono che non poteva più essere nascosto.

E quando giunse il giorno dell’abbandono, nessuna istituzione si mosse da alcun luogo sia della regione storica o della fratria Albanese e, tutti si dichiararono estranei a quella pena arbëreşë, come se appartenesse soltanto a un passato remoto, come se bastasse immaginare un paese nuovo, “costruito attorno alle cinque Gjitonie”, per cancellare il dolore, le pene delle partenze subite.

E poi venne novembre, e con esso il giorno in cui Sant’Andrea salì al cielo, portando con sé un filo di luce da offrire al Paradiso.

Ma per quella piana, ormai trasformata in un canalone colmo di lacrime, che segnavano la loro ascesa segnò solo l’inizio di un’altra stagione, ovvero quella del tempo della “Dimenticanza”.

Un tempo in cui le voci si affievolirono, le memorie si sbiadirono, e il silenzio prese il posto dei racconti tramandati, come se tutto ciò che era stato vissuto potesse essere sepolto sotto lo scorrere lento e indifferente dei giorni.

Oggi è spontaneo domandarsi a cosa servano questi momenti di giubilo, qui, in questa nostra terra, quando le stesse istituzioni che ora innalzano vessilli e parole solenni furono le prime a negarsi e non venire in questa piana del canalone ad apparire solidali.

Nessuno venne allora a celebrare la fine dell’incubo di quanti furono costretti ad essere diasporici, raggirati con le ire dell’abate che adesso era in cielo a riferire che la piana affondava nella sua ferita e andava verso il Crati.

E così, nel vederli oggi festeggiare soddisfatti la liberazione albanese, sembra quasi di assistere a una scena rovesciata, come se affondassero benedizioni nel vuoto, proprio come faceva “l’Abate” su quella ferita storica che, ancora oggi, non termina in favore di quel luogo di memori diasporica antica.

Ci sono dolori che non conoscono giubilo, e memorie che non si lasciano riconciliare da una festa improvvisa specie se fatta dalle stesse istituzioni che dal quel marzo del 2005 voltarono in accordo sistematico le spalle.

Perché quelle negate sono radici che restano, anche quando chi dovrebbe custodirle sceglie invece di dimenticare e, mentre tutto questo scorre, in quella depressione storica che doveva andare nel Crati, la radice solida e viva ha germogliato alberi fieri che restano orgogliosamente inalberati e attenti a confermare che li “l’Abate” non benedice più con quelle acque virulente e vili.

Arch. Atanasio Pizzi (Attento Ricercatore Storico Arbëreşë)

 

 

 

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