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CONTE BIANCAMANO

Posted on 07 aprile 2011 by admin

ROMA ( di Paolo Borgia ) – Il Conte Biancamano era un bastimento di linea con lo scafo nero che andava a carbone. Collegava l’Italia con l’Argentina fino a quando il rivoluzionario avvento dell’aereo passeggeri di linea lo rese inutile. Partiva da Palermo, faceva scalo a Napoli, Genova… Rio de Janeiro, Montevideo e giungeva a Buenos Aires quando poteva. Almeno dopo tre settimane, a seconda dell’umore e della particolare violenza del tempo della Zona di Convergenza InterTropicale (ITCZ) sopra l’Oceano Atlantico che la nave doveva attraversare per intero, navigando lungo il meridiano e cercando di stare alla larga dai cicloni tropicali, che durano tutta l’estate boreale. Sempre, ad ogni viaggio c’era la condanna di fare un salto stagionale di sei mesi. Dalla partenza all’arrivo si incontrava la stagione opposta.

Nino aveva venduto il suo unico capitale, il mulo, per ottenere sul passaporto il difficile visto di ingresso “turistico” nel Paraguay e per pagare la interminabile traversata in terza classe, la più economica, quella della sofferenza sorda e mutamente urlante e della ineluttabile speranza. Per quei passeggeri quello non era mai un viaggio turistico. Neanche per il nostro “trabresh”, che aveva ottenuto un effimero ingaggio di lavoro in Paraguay.  

Si trattava di “picco e pala”, come egli stesso scriveva sul retro della fotografia scattata con due compagni di lavoro e inviata alla famiglia. Questa, poco usa all’italiano, pensò quella volta che fossero i nomi dei due che gli erano accanto nell’immagine. Come riferì in seguito egli stesso, là si mangiava sempre carne di pecora e si alloggiava in mezzo alla foresta dentro un capannone esclusivo per gli uomini. Anche le donne erano appartate, cosicché i mariti e le mogli stavano insieme soli, la domenica. Quando gli scapoli scendevano in città per “il cambio biancheria”.

Era una vita insopportabile persino per lui abituato alla dura fatica dei campi sotto i raggi rabbiosi del sole sulle colline interne siciliane. Così, non appena ebbe raccimolato la cifra necessaria per il biglietto, tornò in Italia. Ma non al suo paese. Andò da sua sorella a Torino. Qui trovò lavoro ma non poteva affittare un alloggio, perchè non aveva il certificato di residenza. E la residenza gli era negata perchè non aveva la lettera di assunzione da parte del suo datore di lavoro – ecco dove stava il ricatto! C’era sempre il rischio del famigerato “foglio di via” – il rinvio coatto al paese – foglio che verrà abbrogato solo nel 1954.

Quando ebbe regolarizzato tutti i documenti, trovò un alloggio e si fece raggiungere dalla moglie.

Era stato fortunato nel lavoro. Era entrato in una piccola ditta di decorazione. Non imbiancavano semplicemente appartamenti ma realizzavano restauri di chiese di paese e di ville antiche, quelle che adornano la collina a Sud-est di Torino. Piano piano egli si impadronì dei segreti dell’arte antica e, grazie alla sua abilità, raggiunse la bravura del suo padrone-maestro. Così piano piano i suoi colleghi  smisero di chiamarlo col nomignolo “Napuli” e divenne caposquadra. Poi il padrone, che aveva piena fiducia in lui, finì per farlo socio.  

Ma non si montò la testa. Pienamente soddisfatto della sua vita, non s’affannò a rincorrere maggiori guadagni. L’unico “capriccio” era quello di puntare soldi al casinò ma solo alla “ruota” – alla roulette – come una rituale liturgia festiva. Si commuoveva come un bambino di fronte alla bellezza. Che appartenesse ad una donna, ad una città, alla natura o al progresso non fa la differenza: tutto era per lui occasione d’indicibile meraviglia, gioia, senso. L’affascinava soprattutto il loro colore, che imitava con gusto istintivo nei suoi pigmenti. Questo era il suo linguaggio.

Non portò mai rancore a nessuno per le pene e le sofferenze patite nella sua gioventù in una società gerarchica, nè per la pleurite buscata per le notti passate all’addiaccio da bambino durante la mietitura, nè per i bubboni e la febbre sopravvenuti per la paura che lo raggelò, lui vittima scampata al misfatto della Portella delle Ginestre. Ne parlava poco e con estrema dignità e con pudore. Tornava ogni anno in paese, come molti, quasi per devozionale pellegrinaggio, sobbarcandosi la fatica di attraversare l’Italia, allora ancora senza autostrade, con la sua fragile ma indistruttibile “600” bianca.  

L’unico legame con il suo passato lo volle siglare con ironia anche sul biglietto da visita della sua ditta artigiana: «CONTE··BIANCAMANO··DECORAZIONI».

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