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PIETRE LEVIGATE CHE RACCHIUDONO L’IDENTITÀ ARBËREŞË DA SECOLI   purù ù si ghuratë bhëghë jatrojnë

PIETRE LEVIGATE CHE RACCHIUDONO L’IDENTITÀ ARBËREŞË DA SECOLI purù ù si ghuratë bhëghë jatrojnë

Posted on 08 agosto 2025 by admin

FondazioniNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’infinita murazione di iunctura familiare, silenziosa ma pulsante, continua a sostenere le architetture invisibili dei centri storici arbëreşë.

Essi non sono solo case che affacciano su vicoli stretti e tortuosi, ma nodi di memoria intrecciati da generazioni, in tutto pareti che raccontano appartenenze, voci e riti antichi.

Qui, la famiglia non è un’unità chiusa, ma una rete porosa che tiene in vita la lingua, la fede e l’anima di un popolo migrato senza mai andarsene davvero o dimenticare i luoghi natii.

Ogni cortile è un confine tra tempi, ogni anziano un archivio vivente e, la comunità resiste non solo perché rimane, ma perché continuamente si ricostruisce dentro il cuore delle sue stesse mura.

Nei centri antichi dove vivono gli arbëreşë, il tempo scorre in due direzioni: una che scava silenzi nella continuità di chi resta, e un’altra che si tende come un filo sottile tra l’andarsene e il tornare.

Chi rimane, immerso nella quotidianità del luogo, spesso dimentica, non per disamore, ma perché l’abitudine erode i contorni del ricordo.

Le pietre, i riti, le parole diventano sfondo, e il vivere stesso smussa la memoria collettiva, che attende anzi grida il desiderio di essere rigenerata.

Chi parte, invece, custodisce e, porta con sé il profumo del pane rituale, il suono gutturale del parlato materno, l’eco di una liturgia ascoltata da bambino.

Nella distanza, ogni dettaglio si amplifica, diventa oggetto di cura ed è proprio nl momento del distacco che si sedimenta la memoria, e il desiderio anzi la promessa del ritorno.

Senza misura e non è fatto di lunghi, brevi periodi o solo simbolico, perché lo scopo il potere mira a ridestare ciò che il tempo aveva sopito.

Il forestiero che torna non è mai straniero, ma portatore di un’identità affilata dalla nostalgia, capace di rigenerare legami e rinnovare significati.

Come ad esempio svelare usanze che parevano perdute, ridà valore a gesti minimi, ravviva le case vuote con parole antiche e prospettive nuove.

Il suo sguardo che proviene dall’esterno è necessario, perché ha il valore di uno specchio che riaccende la consapevolezza in chi è rimasto.

Così, il movimento non è fuga, ma ciclo e, la partenza non è rottura, ma solidità di quel momento, il ritorno non è solo memoria, un seme antico che inizia a fare radici per fiorire come si fa con la buona semina.

Sulla riva del tempo si sviluppa una forza silenziosa in ciò che si stacca dal flusso e trova il coraggio di restare esposto.

Una pietra rimossa dal fiume, che per anni è stata levigata, trascinata, nascosta nel fondo opaco della corrente e, quando finalmente si adagia sulla riva, non è più solo un frammento in balia del corso.

È materia nuova, temprata dal passaggio e ora posta alla luce, sotto il sole, dove può rivelare tutta la sua forma.

Così accade anche per le comunità dove, le persone, i luoghi che scelgono di non lasciarsi travolgere dalla corrente del tempo ma di uscire, di mostrarsi, di prendersi lo spazio dell’attesa.

I centri storici arbëreşë, con le loro pietre antiche, sono come quelle rocce emerse: sopravvissute a secoli di mutamenti, guerre, migrazioni, assimilazioni culturali.

Eppure restano ancora lì, a brillare quando il sole, la memoria, la coscienza, l’attenzione, vi si posano sopra.

Non temono le stagioni, perché le hanno già attraversate, non temono l’erosione, perché sono forgiate nella resistenza.

E non temono neanche l’oblio, perché hanno imparato che, al di fuori del fiume, la forma che si prende non è casuale, ma una scelta di vita, da cui ogni incisione è segno di storia, ogni spigolo è testimonianza, ogni levigatezza è memoria.

Lontano dal fluire continuo che inghiotte e confonde, ciò che è stato portato fuori può finalmente essere visto, riconosciuto.

Può riflettere la luce e generare nuova vita. Come una pietra sulla riva, non è più solo ciò che era: è ciò che diventa.

Per questo il ritorno deve essere accolto come un atto generativo all’interno delle dinamiche che governano le comunità diasporiche e, nello specifico, quelle di matrice arbëreşë, dove il tema del ritorno non deve essere intesa come supremazia o dominio verso i restanti.

Ma deve assumere assume un valore che va oltre la semplice dimensione geografica, perché tornare non è soltanto il movimento fisico verso il luogo d’origine, ma è, più profondamente, un atto culturale e simbolico.

In tutto un rientrare dopo essere stati forgiati altrove, per cui il momento diventa esperienza esterna che vuole unire e non separare per essere risorsa.

Chi parte spesso si allontana per necessità o per desiderio di conoscenza e, nel tempo, questa distanza diventa elaborazione.

E quanto era considerato ordinario si carica di significato, ciò che era dato per scontato si definisce nella memoria.

La cultura, il parlato, l’ascolto, i rituali familiari e comunitari si sedimentano nel ricordo, fino a diventare patrimonio consapevole.

È in questo processo che l’individuo si “forma” o meglio, si forgia, come avviene per la pietra levigata dal fiume che poi si deposta sulla riva.

Una volta formati da questa esperienza, tornare non è mai un semplice “rientrare”, ma un “ritorno qualificato”.

Si torna con occhio nuovo, con la capacità di riconoscere il valore delle cose che per chi è rimasto possono essersi assopite nell’abitudine.

Il ritorno, in questa chiave, diventa un atto generativo che produce consapevolezza e, riattiva memorie, crea connessioni interrotte svelando le opportunità nascoste, sfuggite alla memoria di chi fa statica restanza.

Per chi è rimasto, questo ritorno non deve essere percepito come una minaccia, una sfida o come un giudizio o critica fatta dall’esterno, ma come una nuova occasionepe dare continuita storica a un determinato luogo Katundë.

Il tutto deve essere inteso come certezza che da ora in avanti potrà e dovrà fare solo cose genuine, non per idealismo, ma perché il tempo della dispersione ha affinato la visione e ridefinito le priorità. Il bene che si genera nel ritorno è un bene condiviso, partecipato, costruito con lentezza ma con l’intenzione bene in opera diffusa.

Nei piccoli centri arbëreşë, spesso segnati da spopolamento e marginalità, questo tipo di ritorno può rappresentare un momento di svolta, non come mera parentesi nostalgica che immobilizza, ma come progettualità che innova nel rispetto delle radici.

La comunità, grazie a chi ritorna forgiato, può imparare a vedersi di nuovo e, magari con il rigenerarsi delle pieghe amene che oggi appaiono adombrate e, magari prive della giusta luce per farle brillare come erano un tempo.

Anche solo rinnovare un muro, rifare una parete, ridare forma al contatto tra la base e l’elevato, tra la fondazione e ciò che vi cresce sopra, è come compiere un gesto di memoria.

È lì, in quella giunzione antica, che si custodisce il senso profondo dell’abitare, del costruire, del tramandare.

Così, ogni pietra riposizionata, ogni intonaco steso, non è solo un atto tecnico, ma un piccolo rito di continuità, un frammento della storia degli Arbëreşë che ritorna alla luce.

Nelle case, nei muri, nelle geometrie delle architetture, rivive il parlato e l’ascolto, il canto, l’identità di un popolo che ha saputo conservare le proprie radici pur lontano dalla madrepatria.

Restaurare una parete, una casa o un palazzo allora, non è solo conservare il passato, ma rinnovare un legame profondo tra memoria e presente, tra terra e spirito.

Non tutto ciò che appartiene alla storia si conserva dietro un vetro o tra le pagine di un libro in biblioteca o un atto di archivio.

Ci sono memorie che si trasmettono attraverso i gesti, che si radicano nei corpi prima che nelle parole e, quando una mano si posa su una pietra per raddrizzarla, per riportarla al suo posto, non sta solo ricostruendo un muro, ma sta ricucendo un legame, sta riattivando un patto antico tra chi costruì e chi oggi torna a vivere.

Rinnovare una parete, rifare l’unione tra la fondazione e l’elevato, è come riportare in vita un dialogo sospeso.

È come se le voci di chi se n’era andato, portando con sé, la festa e il dolore del distacco, trovassero finalmente un punto in cui tornare a parlare.

Il tutto non è solo un gesto tecnico, ma un atto di memoria incarnata e, il muro rinnovato non serve solo a reggere il peso del tetto, ma anche a reggere la storia che ancora pulsa tra quelle pietre.

Chi è partito, chi ha lasciato queste terre per cercare altrove un pezzo di futuro, porta nel cuore il suono di una lingua imparata dai nonni, l’odore del pane cotto a legna, la geometria delle stanze strette dove si pregava in due lingue.

Tornare non è soltanto varcare una soglia per ritrovare la misura del proprio nome in un paesaggio che non ha dimenticato, ma posare di nuovo in piedi su una terra che non chiede spiegazioni, perché riconosce il passo e il peso di quella figura.

Così accade che, nel rinnovare una parete, si rinnovi anche la fedeltà a una storia che non ha bisogno di essere celebrata nei musei.

Perché i musei custodiscono, ma non vivono e, invece, i muri che si rialzano oggi, con mani giovani e vecchie insieme, raccontano di una memoria che si fa presente, che abita ancora.

E allora il matrimonio tra fondazione ed elevato diventa simbolo di ciò che resiste, come un popolo che non ha mai smesso di essere, anche quando sembrava disperso.

Non serve altro che ascoltare, perché le pietre parlano, e lo fanno nella lingua antica degli Arbëreşë, quella che sa di vento, di resistenza e di radici che non si spezzano.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2024-08-08

 

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TROVATA LA CHIAVE DELLA SCUOLA IN TERRA DI SOFIA ORA RICOMINCIA LA STORIA thë shiurbiaritë me crundie the mirë pà mielë

TROVATA LA CHIAVE DELLA SCUOLA IN TERRA DI SOFIA ORA RICOMINCIA LA STORIA thë shiurbiaritë me crundie the mirë pà mielë

Posted on 07 agosto 2025 by admin

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le Terre di Sofia storicamente famose per le scuole che qui formavano i più solidi cultori arbëreşë di Calabria citeriore, secondo pensieri avveniristici e di formazione, greca, latina in solido progetto sociale e paritario.

Un centro del sapere unico e indivisibile, capace di formare figure secondo parlato, ascolto, religione, società e identità in tessitura educativa, profonda e duratura, che ebbero il loro risultato con le generazioni in grado di segnare indelebilmente la storia.

Ma dal 1799, e poi nel successivo decennio francese, si persero le chiavi di questa scuola e, la sua fiamma, iniziò ad affievolirsi, intraprendendo una lenta china e, da allora, solo un ristretto numero di figure hanno saputo distinguersi con dignità e nobiltà, avendo modo di tenere alta una tradizione meritava ben altra sorte.

Si giunge così al 1994, anno in cui la pena si fa ancor più pregnante e, la gestione di ciò che restava fu affidata ai meno adatti, ispirati dal vento e le movenze Albanistiche, le stesse prive di memoria e consapevolezza del ruolo affidatole.

Senza radici né visione, ogni legame autentico con la cultura arbëreşë venne dissipato, lasciando dietro di sé un vuoto difficile da colmare.

Una china che ha ridotto la memoria a ridicole attività, svuotate di senso, che non trovano agio né in casa né sulla strada e, sin anche nella chiesa, dove le processioni, un tempo sacre, si sono trasformate in manifestazioni a dir poco egocentriche, lontane da ogni spirito di credenza.

Il dato più allarmante è che tutto ciò denota una profonda mancanza di formazione, in ogni genere di conduzione: scolastica, culturale, religiosa, ma soprattutto civile, che denota non solo la esile competenza, ma anche la perdita del senso del rispetto verso la collettività.

Gli appuntamenti storici, oggi, esaltano i vili e dimenticano i pionieri, celebrando chi resta e fa “restanza”, ignorando ed ostacolando chi prova a fare formazione, chi costruisce o semina arando la terra buona per il futuro.

Eppure la prospettiva che fa intravedere un barlume di luce potrebbe far nascere un’inversione di rotta, quella capace di dare senso alla consuetudine, alla credenza, al parlato e alla cultura, perché ogni identità, se non opportunamente studiata termina per essere esclusivamente caricatura.

In questi Katundë dove il sole batte su pietre antiche e lingue spezzate, si celebra l’effimero,
come fosse verità scolpita.

Si vestono giorni di maschere nuove, di riti copiati, svuotati, inventati, mentre la memoria vera, quella dei padri, muore si accantona dopo pur se grida le memorie diventa e trasforma tutto in silenzio.

Chi tiene le chiavi della cultura non ascolta le voci dei nonni, ma costruisce castelli d’aria, con parole estranee al sangue.

Tradizioni ridotte a spettacolo, costumi indossati senza storia, nomi cambiati, usanze ricreate da chi non sa, ma comanda.

E la regione storica si sfalda, come un tessuto lasciato al vento, perché chi dovrebbe custodirla la riscrive senza conoscerla.

Ma c’è chi ancora, nel cuore, ricorda canti mai scritti, gesti antichi come la terra, e li serba, lontano dal clamore.

Ogni estate, nei paesi è un mercato d’ombre colorate, di suoni finti, di danze scollegate dalla linfa che un tempo le nutriva.

È una festa per chi passa e non resta, per il turista della breve sosta, per il viandante distratto che applaude, ma non capisce.

Non è più rito, è spettacolo da locandina, la cultura svenduta a buon prezzo perché l’applauso vale più della verità.

Le parole non trovano palco né microfono, mentre chi dirige la “tradizione” ne conosce solo la superficie.

Tutto questo per fare solo vetrina, di un’eco lontana truccata per fare scena, mentre chi ricorda davvero, viene zittito, o peggio: ignorato e lasciato in un angolo mentre riceve abbracci materni da madre cultura.

E onde evitare il continuo ripetersi lo stato di fatto è opportuno precisare che la memoria non si compra, non si ricama su un abito nuovo, e tanto memo si può assegnare a nome e per conto di improvvisate associazioni di faccendieri culturali senza alcun titolo o merito di studio che si nutrono di falsa cultura travestita per nascondere la verità e quando tutto appare evidente palesano tutte le nudità di vergogna.

Per conto e per nome della cultura, parla chi non ha mai ascoltato, dirige chi non è maestro, racconta la storia chi non sa nemmeno dove inizia e scrivono con l’inchiostro del sudore altrui.

Si riempiono i palchi di finzioni travestite da tradizione, mentre i sapienti tacciono, tenuti fuori, esclusi, dimenticati e tenuti fuori dall’agro della cultura sin anche con gli abbai dei cani randagi loro amici.

Ogni cosa è fatta da chi meno dovrebbe farla, e intanto si spengono le fioche luci del passato, perché non serve sapere, basta apparire, non serve custodire, basta vendere basta onorare gli ultimi per avere voti e preferenza al tempo delle elezioni.

Altra pena infinita è l’allestire musei del costume e biblioteche a opera di figure che non sanno tessere cucire o riconoscere colori, gli stessi che non conoscono il postulato dell’ascolto del parlato e non sanno sin anche leggere gli scritti in italiano corrente.

Soggetti privi di competenze specifiche si improvvisano esperti, continuando a fare danni alla cultura locale, pur non conoscendo né pratiche tradizionali né lingua né storia.

È urgente fermare questa tendenza e restituire valore alla competenza autentica, al sapere tramandato e a chi davvero custodisce l’eredità arbëreşë.

Questa è una prassi fortemente diffusa per la quale si moltiplicano musei del costume e biblioteche allestiti da chi non sa tessere, non sa leggere e, soprattutto, non conosce la tradizione che pretende di rappresentare.
Così facendo, si diffondono concetti inopportuni, ricostruzioni inventate e fatti mai avvenuti, snaturando il senso autentico della cultura della regione storica diffusa e sostenuta dai suoi abitanti formati.

Il costume femminile, di sovente, viene ridotto a un modello scenografico, un abito che appare all’improvviso davanti all’altare per il matrimonio, e il tempo che verrà, come se fino ad allora fosse stato sotto sale sia la stoffa e sia la figura che lo indossa di genere femminile, stella appena caduta dal cielo, perché chiamata dal divino a fare matrimonio sull’altare.

Una visione folkloristica e fuorviante che cancella il vissuto quotidiano e la crescita paritari dei generai, sino ad allora inesistenti e, il significato dei simboli, e il valore profondo che questi elementi avevano nella vita reale delle comunità.

È necessario difendere la memoria vera, ascoltare chi conosce davvero, e impedire che l’arbitrio e l’improvvisazione si sostituiscano alla storia e alla competenza.

A tal proposito è bene sottolineare che non è sufficiente recarsi in archivi e biblioteche per acquisire quella tessitura solida che dà sostanza alla storia.

Il lavoro dello storico non si esaurisce nella raccolta diligente di documenti o nella consultazione di fonti, giacché, queste sono condizioni necessarie, ma non ancora sufficienti.

Fare storia significa saper interrogare criticamente le tracce del passato, riconoscere ciò che le fonti dicono e, soprattutto, ciò che tacciono e, questo significa connettere indizi dispersi, contestualizzare, interpretare, e talvolta contraddire la voce stessa dei documenti.

Solo attraverso questa operazione intellettuale, che richiede metodo, sensibilità e capacità di sintesi, si costruisce quella trama complessa che trasforma i dati in conoscenza storica.

Senza questo passaggio fondamentale, la ricerca rischia di ridursi a un accumulo di informazioni, priva di respiro e di senso.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                          Napoli 2024-08-07

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NEMO PROPHETA IN PATRIA nà u mbiodë zotë

NEMO PROPHETA IN PATRIA nà u mbiodë zotë

Posted on 06 agosto 2025 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – E va bene, tutti lo sappiamo e lo conosciamo, ma quando la patria si ostina a ignorare il proprio profeta, il danno non ricade solo su di lui: è la patria stessa a condannarsi.

Una nazione che rifiuta la voce fuori dal coro, che emargina chi vede oltre, si condanna a vivere nella miseria culturale e, con essa, tutti i suoi addetti, servi fedeli di un sistema cieco, si nutrono di vuoto e mediocrità, così, mentre il profeta cade nel silenzio, il declino diventa destino.

E se poi il profeta è cieco in un occhio, la patria che da decenni non lo riconosce è cieca in entrambi.

Perché chi vede anche solo a metà, vede comunque più lontano di chi si ostina a non guardare e, la patria, che lo ignora, non fa che scavarsi la fossa con le proprie mani, confondendo la voce lucida del dissenso con rumore da zittire. Ma è proprio quel rumore che le manca: il suono della coscienza che ha smesso di parlare.

Infatti, una patria che vive grazie a chi non ha il coraggio di partire, e resta dentro i suoi confini senza mai formarsi altrove, cade nell’ignoranza più buia.

Un buio che è già stato visto e, vissuto da chi è partito, ma quando chi è partito torna, portando con sé la luce lunga della formazione, trova porte chiuse, sguardi spenti, o peggio, indifferenti e così, la sua presenza diventa inutile.

Perché in una patria che non accetta la luce, anche la verità più limpida viene rigettata e, chi resta, resta cieco, per scelta.

E quando il rifiuto non viene solo dal popolo, ma da chi ne assume la guida civile o religiosa, allora la pena si fa duplice e, profonda.

Perché chi ha il compito di indicare la via, se sceglie deliberatamente il buio, condanna l’intera comunità a inciampare.

Non c’è ignoranza più pericolosa di quella benedetta dall’autorità e, così, chi è partito, chi ha visto e appreso, tornando trova non solo ostilità, ma un sistema che si è fatto sordo per scelta, cieco per potere. Una patria che rifiuta i suoi profeti, soprattutto se uno di loro ha anche solo un occhio aperto, si condanna alla sterilità del pensiero. E alla miseria dell’anima.

Lui è tornato, non per nostalgia, né per gloria, ma per una promessa data, decenni addietro a un saggio del paese, uno degli ultimi a vedere lontano, chiedendogli di tornare un giorno e, portare conoscenza, per rendere noto il valore delle pietre, dei vuoti, delle ferite e dei silenzi del centro antico.

Le pietre non parlano da sole, aveva detto il saggio, servono occhi che le abbiano viste da fuori per ridare loro voce e valore.

E lui, quella promessa, l’ha tenuta viva per anni, ha studiato, osservato, custodito ciò che qui era stato dimenticato, ora vorrebbe condividerlo, restituire senso a ciò che è sempre stato sotto gli occhi di tutti ma mai veramente visto per essere con cura e saggezza valorizzato.

Ma la patria, come allora, tace e, chi la guidato dall’istituto civile e il sacro, volta lo sguardo, perché preferiscono il rumore del consenso alla voce del ritorno.

Così, ancora una volta, il profeta rischia di restare solo, ma questa volta non per andarsene, ma per restare. Nonostante tutto, lui parla piano, non per timidezza, ma per rispetto.

Ha imparato a farlo da piccolo, quando camminava accanto a un vecchio saggio del paese, un uomo che non alzava mai la voce, ma che pesava ogni parola come fosse pietra da fondazione.

I saggi di terra parlano piano, gli diceva e, chi strilla viene da altrove, da quel paese là, dove veleggia l’ignoranza più infernale.

E lui il piccolo profeta, ancora in patria ascoltava, assorbiva, cresceva nel silenzio fertile del sapere, lui aveva capito che non aveva bisogno di farsi sentire per forza.

Perché sapeva vedere. E ciò che vedeva lo portava lontano; ma ora è tornato, con uno sguardo pieno e una voce ancora bassa, ma densa di anni di studio, esperienza, visioni, è pronto per diffondere ciò che le pietre del centro antico, gli hanno detto in silenzio, e che il saggio gli aveva insegnato a tradurre.

Ma qui il paese è cambiato poco, anzi, forse non è cambiato affatto e, chi urla ancora e non sa cantare dirige orchestra, comanda, di contro chi ascolta ancora tace ed è felice.

E chi vede davvero viene tenuto ai margini, perché il sapere vero fa paura, fa luce e, la luce acceca chi ha vissuto troppo a lungo al buio la ritiene fastidiosa.

Lui non parla per comandare, non alza la voce per spaventare, parla piano, con garbo silenzioso, come fa la terra, quando accoglie il seme buono.

Ha imparato che le parole vere non si impongono, si seminano e, si affidano al tempo, alle stagioni, al vento.
Proprio come fa la terra: non grida, ma accoglie e avvolge il chicco, lo custodisce nel buio fertile,
e lo lascia germogliare con pazienza, così è il suo parlare, un atto d’amore, non di potere, ma un dono, non un vanto.

E se oggi è tornato, non è per farsi ascoltare, ma per seminare ancora, anche se intorno regna il rumore, anche se pochi sanno vedere ciò che lui ha visto e continua.

Perché sa che un buon raccolto, non arriva mai per caso, ma nasce dal silenzio della terra e dalla fedeltà di chi semina senza pretendere.

Vera resta il dato che quando la negazione non resta isolata, quando si fa prassi condivisa, quando si allarga come nebbia su una provincia intera, su una curia, su una fratria, il problema si fa profondo, radicato e invisibile e per questo pericoloso per la comunità intera.

Non è più solo un rifiuto, è una scelta di non voler sapere, una comodità del non conoscere, una volontà passiva di restare immobili.

Perché conoscere vuol dire cambiare, e cambiare costa, impegno, coraggio e memoria, per avere una visione ampia.

Ma qui, spesso, si resta fermi, in un silenzio denso che non è rispetto, ma rinuncia, in tutto un silenzio che dice: Meglio non sapere chi siamo, meglio non ricordare da dove veniamo, meglio non chiederci dove vogliamo andare.

Lui conosce il senso delle parole perché da piccolo ha saputo ascoltarle prima ancora di pronunciarle e, faceva tanto ascolto, che ci fu un tempo in cui tutti lo credevano muto.

Non parlava mai, ma osservava tutti i gesti degli anziani, il fruscio delle foglie, le crepe nei muri, i silenzi tra le frasi.

Un giorno, un viandante si fermò in paese, lo guardò, seduto com’era in disparte, gli occhi attenti e la bocca chiusa.
Disse, con tono di commiserazione, povero figlio, questo è muto, il paese rise come si ride delle cose che non si capiscono.

Come si ride per coprire l’imbarazzo, perché quel silenzio faceva domande che nessuno voleva sentire.

Ma lui, anche quel giorno, non disse nulla, non per timidezza, ma per scelta, sapeva già allora che le parole devono maturare dentro prima di uscire.

E quando, col tempo, cominciò a parlare, le sue parole avevano radici, erano poche, ma pesavano e sapevano affrontare anche il vento.

Non urlava mai, ogni frase era come una pietra posata per costruire qualcosa è tornato tra quelle stesse pietre, di cui conosce il valore di ciò che dicono perché ha imparato il silenzio prima della voce, consapevole che quanti non hanno ascoltato, non potranno mai davvero parlare.

E così, i giorni passano, le pietre si consumano, le storie si perdono e, chi torna con un seme da innestare viene lasciato fuori dal campo.

E intanto si celebra la mediocrità come fosse saggezza, si chiama prudenza quella che è solo paura travestita.

Ma lui no, il profeta non arretra e, parla ancora piano, come il vento tra i rami antichi, sperando che almeno una foglia tremi, che almeno un orecchio si apra, che almeno una coscienza si desti, perché anche nel deserto più arido, una goccia può fare primavera.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-06

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IUNCTURA IL SISTEMA CHE PULSA INVISIBILE NEI KATUNDË  Jiaku jonë su hharùa

IUNCTURA IL SISTEMA CHE PULSA INVISIBILE NEI KATUNDË Jiaku jonë su hharùa

Posted on 03 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Iunctura è un’espressione che denota l’atto del congiungere, formata da due o più parole che, insieme, assumono un significato unitario, spesso diverso dalla somma dei significati delle singole parole.

Il termine era molto usato nell’antichità per esprimere concetti complessi con eleganza e precisione.

Nel cuore dei centri antichi, specie in ogni Katundë arbëreşë, lontano dalle piazze luminose e dalle strade carrabili, esiste questo sistema poco noto o quasi, invisibile agli occhi dei forestieri.

Esso rappresenta insiemi urbani articolati e diretti dalla iunctura, fatta di vicoli tortuosi, archi incrostati da secoli, vichi ciechi, che si piegano su sé stessi, come vene di un corpo dimenticato.

A tenerlo insieme questo ricamo irregolare, non è la logica geometrica dell’urbanistica moderna, ma una “iunctura familiare”, in tutto una rete di legami invisibili che unisce case, cortili, orti e destini di generi tutti uguali.

Ogni pietra di questi sistemi, paragonabile alle radici in terreno fertile, custodisce una storia muta e, ogni arco che unisce due muri porta il peso di generazioni che qui passavano sotto.

Non si tratta solo di costruzioni materiali, ma di architetture colme con ideali, in relazionali geometrie, di voci che si rincorrono tra lenzuola stese.

Nel sistema organico, lo spazio non è pubblico né privato, ma condiviso e, i cortili si aprono solo a chi ne conosce le consuetudini, la chiave o meglio il codice per aprire ogni porta; i vicoli sono custodi della memoria collettiva; e gli orti botanici, sono tessitura odorosa di basilico e terra umida, in tutto piccoli polmoni di una città che respira piano, in silenzio, per dare al tempo un modo per riposare.

Questo mondo non è costruito con mattoni ma con gesti ripetuti, sguardi discreti, rituali quotidiani e, qui le madri si parlano di porta in porta, le nonne raccontano storie che nessun libro contiene e, i bambini imparano a camminare su pietre vive, scivolose e colme di storia parlata.

Qui, la famiglia non è solo sangue ma prossimità fisica, interdipendenza, tempo condiviso, un mondo che si difende e cresce i figli senza preferenze.

L’accoglienza non è diretta, perché segue e si proteggersi dietro curve strette e silenzi antichi, qui l’estraneo può passare, ma non restare perché novità.

Questo è un sistema chiuso non per ostilità, ma per necessità, perché l’equilibrio interno è fragile, come quello di un orto segreto, in quanto troppa luce lo brucia e troppo rumore lo spezza.

Nel tempo dell’apertura, della connessione perpetua, del tutto visibile e disponibile, questo sistema chiuso appare anacronistico.

Ma forse è proprio lì che risiede la sua forza segreta di questo popolo, non moderno, non lineare, non espanso e, in una parola: resistente.

È ancora oggi l’antico centro abitato, pulsa energia sotto l’asfalto, le beole di livellamento moderne o gli intonaci e i tetti inopportuni, che non hanno forza di cancellare l’antico tessuto di pietra, linfa e relazioni.

Una iunctura, appunto, dove l’umano non è un individuo, ma un nodo, di una rete stretta come i suoi vicoli, che continuano a vivere.

Cosi come i microcosmi familiari all’interno delle architetture urbane, oggi diventate il cuore delle città storiche del Mediterraneo, dove si sviluppano sistemi urbani che sfuggono alle logiche moderne della pianificazione aperta, funzionale e trasparente.

Si tratta di strutture dense e, stratificate, in cui lo spazio urbano si intreccia indissolubilmente con i legami familiari, le pratiche quotidiane che batte moneta di memoria collettiva.

Questo breve, intende esplorare il concetto di iunctura, inteso come metafora di una connessione sociale e spaziale, che si manifesta in vicoli ciechi, archi, cortili e orti nascosti delle sedici macro aree premoderne prese in esame.

L’obiettivo è analizzare queste forme urbane come, microcosmi autosufficienti, in cui l’individuo è parte di un corpo più grande, relazionale e stratificato.

Gli agglomerati storici che dal Levante dell’antica Grecia, sino al Portogallo, tra il diciannovesimo e il quarantaduesimo parallelo, condividono tratti urbanistici comuni, con la presenza di vicoli stretti, passaggi coperti, cortili interni e una separazione fluida tra spazio privato e pubblico, una metrica nota come modello vernacolare del bisogno.

Lungi dall’essere un limite, perché questa chiusura morfologica costituisce una strategia di sopravvivenza climatica, sociale e simbolica.

Come osservano diversi autori, che studiarono questa macroarea simile ad un organismo vivente e, costruito “dal basso” dai suoi abitanti, e non progettato “dall’alto” con protagonisti tecnocrati o pianificatori verticali.

In questo contesto, l’architettura non è neutra, ma il riflesso di un sistema di relazioni che protegge, seleziona e regola l’accesso delle cose.

Qui l’architettura non parla non si mostra e, non fa rappresentanza di apparenza, perché partecipa all’insieme dove non è protagonista prima, ma elemento sostenuto e diretto dalla solidità petrografica dalla morale locale che parla canta e fa consuetudine senza emettere fumo dal camino.

Ogni curva, ogni arco, ogni chiusura è anche una forma di memoria collettiva e di difesa culturale e, il termine latino iunctura, che indica un’unione, una connessione stretta tra elementi distinti, è qui utilizzato per descrivere non solo la configurazione urbana, ma anche la struttura sociale di questi ambienti.

Le famiglie estese, spesso organizzate attorno a cortili comuni, formano reti dense di interdipendenza economica, affettiva, simbolica secondo un manuale di consuetudini trasmesso con gesta e parlato.

Questo tipo di coesione non si limita all’ambito domestico, infatti permea la configurazione stessa della città, dove il passaggio da un vico all’altro richiede conoscenza dei codici locali e accettazione sociale. L’infrastruttura è, in questo senso, anche infrastruttura morale e, chi non a parte della rete, passa automaticamente ai margini, fisici e simbolici.

I vicoli ciechi e gli orti botanici, sono i simboli di resistenza e cura, qui questi adempimenti popolari non sono un’anomalia, ma una forma di resilienza spaziale e speziale.

I vicoli ciechi non sono meri errori della viabilità urbana, ma spazi liminali dove si concentrano pratiche di cura, ritualità e controllo comunitario, che non possono sfuggire.

Essi permettono una sorveglianza dal basso, un filtro sociale e un senso di intimità che l’apertura moderna spesso dissolve.

Gli orti botanici, termine usato in senso evocativo per indicare piccoli giardini chiusi, spesso nascosti dietro mura domestiche, per essere metafore viventi della sopravvivenza culturale.

In essi si coltivano non solo piante, ma anche saperi, abitudini alimentari, e forme di relazione con il tempo e con la terra.

Sono spazi non mercificati, sottratti alla logica produttivista, che riflettono una etica della sussistenza e della memoria.

Il concetto di sistema chiuso può assumere una connotazione negativa, associata a chiusura identitaria, esclusione sociale o resistenza al cambiamento.

Tuttavia, in questo contesto, la chiusura non è difensiva ma protettiva e, diventa equilibrio interno di una comunità complessa, spesso marginalizzate dai processi moderni di gentrificazione e globalizzazione.

La chiusura è, in questo senso, una strategia adattiva e, consente di conservare risorse, memorie, forme di reciprocità che altrove si sono dissolte.

È anche uno spazio di negoziazione quotidiana, dove le relazioni sono regolate da norme implicite, più che da contratti o dispositivi tecnologici.

Tutto questo mira ad evidenziare che le forme urbane chiuse, dense e relazionali, qui ancora pulsanti e pronte a rigenerarsi, trovano agio nei centri storici arbëreşë del Mediterraneo, non sono residui del passato da cancellare o riqualificare, ma radice antica che fiorisce futuro per le società in fermento.

Perché, esse rappresentano modelli alternativi di coesistenza, basati su legami, memoria e prossimità e, la iunctura che li tiene insieme è fatta di pietra, affetti, ritualità, in memoria dove si stabilisce che l’urbano è prima di tutto una costruzione a misura dell’uomo.

In un’epoca in cui lo spazio tende a essere disgregato, connesso ma fragile, questi sistemi chiusi ci offrono un insegnamento prezioso sancito, che ricorda con forza la metafora dell’abitare che include anche l’appartenere a un luogo fisico e morale.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-03

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PROMUOVERE I “BORGHI” NEL MERIDIONE ITALIANO È COME ESALTARE I “TARI” FALSI (Harràssù na sërèsenë lljtirë e jò katundarë)

PROMUOVERE I “BORGHI” NEL MERIDIONE ITALIANO È COME ESALTARE I “TARI” FALSI (Harràssù na sërèsenë lljtirë e jò katundarë)

Posted on 02 agosto 2025 by admin

TerraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un tempo ogni discussione o confronto culturale diretto e condotto nei luoghi più comuni, si chiudevano e terminava con il rito dei “tarallucci e vino”.

Era il segno di un’epoca che, tra mille contraddizioni, sapeva ancora trovare un terreno comune, per definire le cose del futuro, in che forma e solidità, si lascia al lettore la più poetica conclusione.

Oggi invece, sembra che ogni questione debba inevitabilmente passare per “il borgo” e, tutto mira a un’idea idealizzata di comunità, tradizione, identità locale smarrita.

Ma dietro questa nuova retorica, resta il dubbio, ovvero, stiamo davvero riscoprendo le radici o solo è un moderno fare per svolgere lo stesso copione, prima citato?

A tal proposito è bene precisare che “il borgo” è un tipo di insediamento abitativo, tipico del medioevo, si sviluppa con perno un emblema costruito che ne domina via, vita e luogo.

Si tratta di centri, fortificati, che non raggiungono le dimensioni l’ideale di città, ma si distinguono dai Villaggi, Paesi, Contrade, Katundë, Hora, Civitas, Castrum, Porti e Vichi.

Le forme operose di insieme abitativo, pre e post medioevale di radice non germanofona, proprio per la struttura urbana, di sostanza sociale aperta e solare, senza mura e la comunità non organizzata in forma piramidale, ma diffusamente piana e aperta all’accoglienza diffusa.

Diversamente dai Borghi che sono storicamente sistemi chiusi, abitati dal potere e non svolgono attività con l’ambiente circostante, se non quella del comando.

Altra cosa sono gli agglomerati appellati latini, greci o italiano che indicano il luogo, un centro aperto in comune convivenza dell’agro che li avvolge e, attraverso il quale trovano le vie del confronto, dei cunei agrari della produzione degli abitanti che li valorizzano.

Infatti il termine “borgo” ha origini germaniche e deriva dal latino “burgus”, poi rotacismo germanico “burg”, che indicava un luogo fortificato.

Essi storicamente nascono nel Medioevo e, separando i nobili, da quanti erano costretti a vivere fuori dalle mura cittadine, in agglomerati di case attorno al castello, come centri di scambio, artigianato e vita comunitaria, spesso in zone strategiche dove i residenti erano appellati “bovari”.

Tuttavia negli ultimi anni, “borgo” è diventato una parola simbolo, usata comunemente in chiave politica, mediatica, pubblicitaria per evocare un meridione “da svelare”, fatta di tradizioni, buon cibo, relazioni umane genuine.

Terminando nel diffondere più un’idea idealizzata che una realtà vissuta infatti, in specie il meridione che ha avuto varie epoche di pena diffusa non è certo nel medioevo ha avuto un rilancio progressivo e in particolar modo la Calabria.

A tal fine va precisato che le comunità calabresi affondano le radici in un tempo anteriore e ancora più floride dopo il buio del Medioevo.

Non a caso la Calabria fu uno dei cuori pulsanti della Magna Grecia, a partire dall’VIII secolo a.C., i Greci fondarono città e villaggi lungo la costa e nell’entroterra dell’appennino calabrese, portando con sé un modello urbano aperto, partecipativo e agricolo, legato alla “polis” e alla vita comunitaria.

In questo senso, la vita di comunità nei centri collinari o di pianura calabresi ha origini greche, non certo germaniche.

I Greci valorizzavano il territorio, coltivavano le pianure e fondavano insediamenti dove si poteva vivere e commerciare in armonia con l’ambiente e tra cittadini liberi, rimanendo così sempre all’interno delle logiche solari dell’epoca, ovviamente.

Quando arrivarono le popolazioni germaniche, prima i Goti, poi i Longobardi e via via altri, portarono con sé una visione più chiusa e gerarchica della società, come castelli, feudi, strutture piramidali, controllo militare fortificato e, i “borghi” medievali nascono proprio in questo contesto, ma spesso in opposizione o in sovrapposizione ai nuclei già esistenti.

Quando oggi si parla di “borgo” calabrese attribuendo l’appellativo a specifici centri antichi come se fosse una miniatura medievale in stile nordico, creando così una realtà storica distorta e priva di identità vera.

I nuclei abitati calabresi sono piuttosto l’esito di una stratificazione greco-bizantina e poi arbëreşë, non certo del modello germanico-feudale, che non certo contemplava lavoro e sudore nei campi.

In Calabria “borghi” non nascono tra le nebbie gotiche o nei castelli longobardi, ma sulle colline dove i il sole che passava prima dalla Grecia dialogava con la terra, dove i Bizantini costruivano chiese rupestri, e dove gli Arbëreşë hanno conservato riti e lingue che raccontano storie ben più complesse della favola buie medievale.

I paesi della Calabria nascono perché il luogo era parte viva e pulsante della Magna Grecia, in tutto una sorta di terra parallela e diretta dalla madre Ateniese.

Qui i centri abitati si formano come polis, costruite attorno alla terra, ai riti, alla parola condivisa e, con l’arrivo dei Bizantini, quella radice si rafforza spiritualmente e nasce la cristiana credenza colma di riti, che si diffonde nei villaggi, tra le montagne e i santuari rupestri.

Questa cultura bizantina, minacciata dai Longobardi, sopravvive proprio grazie all’isolamento geografico e alla resistenza delle popolazioni locali.

Poi, nel cuore del Medioevo, giungono i monaci operosi e pragmatici francofoni, che introducono nuove tecniche agricole come le grance, per l’uso del territorio, e in parte contribuiscono a dare forma a un tessuto economico più stabile.

Ma la vera ricchezza della Calabria arriva con le minoranze, grecaniche, francofone giunti al seguito degli angioini e soprattutto gli arbëreşë, che con la loro lingua, i loro riti e l’orgoglio della diaspora, ridanno vita a territori marginalizzati.

Così si compone il vero mosaico calabrese, che non è un sistema di borghi chiusi, ma una rete di comunità aperte, stratificate, resistenti e multietniche.

E in fondo, va detto con chiarezza che furono proprio coloro che vivevano in strutture aperte e diversificate o meglio contrarie al teorema del “borgo” struttura non di potere locale, che non lo sviluppo della Calabria, chiudendola in logiche feudali, che qui era fissato nel culto del l’uguaglianza e tutti erano liberi di crescere.

Oggi che tutto si appella al “borgo”, serve ricordare che la Calabria ha sempre prodotto cultura, accoglienza e visione, non nei centri fortificati, ma nei margini, nelle minoranze, nelle resistenze e nella continua evoluzione culturale.

In molte zone del Sud, il modello “borgo” non attecchì, proprio perché le popolazioni locali (greche, romanizzate, bizantine) avevano modelli comunitari diversi, spesso più orizzontali e legati a una gestione collettiva della terra.

Oggi, quando si parla di “borgo” anche in Calabria, si rischia di appiattire un’identità molto più antica e ricca su un cliché medievaleggiante, utile per il turismo o il marketing, ma storicamente parziale.

La rinascita di molti paesi calabresi, oggi definiti “borghi”, non è figlia del Medioevo, ma spesso di una riscoperta moderna delle radici greche, bizantine e contadine operose, di un senso di comunità che precede o segue di secoli il modello germanico, che qui non ha mai trovato agio e prosperità alcuna.

La Calabria non ha mai goduto di una rete viaria estesa o ben articolata e per secoli ha avuto una sola grande via di comunicazione, spesso faticosa, precaria, soggetta alle frane e ai dislivelli.

Eppure, sono sorte oltre quattrocento comunità, disseminate tra colline, altopiani, vallate e coste, queste non si sono sviluppate “lungo una strada”, come nei modelli urbani classici, ma attorno a risorse locali, culture specifiche, equilibri sociali interni fatto da uomini credenza e natura.

Non era il commercio a tenere unite queste realtà, ma l’accoglienza, la custodia del sapere, la forza dell’identità locale le risorse agro alimentari.

E ognuna di queste comunità era, ed è ancora, un mondo a sé, che non è mai rimasto isolato, ma interconnesso nella diversità.

Più che da un’infrastruttura, la Calabria è stata tenuta insieme dalla memoria, dalla lingua, dalla spiritualità, dai riti grazie all’operosità dell’uomo sostenuto dalla natura.

Ecco perché parlare di “borgo”, nel senso moderno e uniforme del termine, non basta, giacché ogni paese calabrese non è solo un “centro antico minore”, ma una costellazione autonoma di storia e cultura, nata non da una strada, ma da un paesaggio condiviso e da una necessità di resistere.

Paradossalmente, proprio chi viveva di “borgo” traeva forza da sistemi chiusi, feudali, gerarchici e autoreferenziali, è stato spesso tra i principali antagonisti dello sviluppo calabrese.

Mentre la regione cercava faticosamente di costruire ponti, reti, identità collettive, i borghi intesi come microcosmi autosufficienti spesso hanno coltivato isolamento, rendita e conservazione del potere.

Non è il borgo in sé il problema, ma la sua idealizzazione fuorviante, oggi viene dipinte e innalzata come emblema di comunità e accoglienza, ma in verità è stato strumento di controllo sociale, di immobilismo, di chiusura al cambiamento.

E così, mentre si continua a parlare di “borghi da salvare”, si dimentica che la vera Calabria da valorizzare è quella che ha sempre guardato oltre la sua unica strada, oltre la collina, oltre il confine del proprio campanile.

Se l’individuazione dei centri antichi si basa su nomi attribuiti o mal interpretati come borgo, allora ciò che sappiamo di quei luoghi rischia di essere una costruzione arbitraria.

Il nome, spesso assunto come chiave d’accesso alla memoria del territorio, può diventare un filtro che distorce la prospettiva storica.

In tal caso, ogni studio puntiforme che pretenda di svelare l’identità profonda di un sito, si fonda su un presupposto fragile, in quanto se si sbaglia il nome, come possiamo fidarci di ciò che crediamo di sapere dell’anima intima o del passato di quel luogo?

P.S.

I tari erano monete d’oro e d’argento utilizzate nel Regno di Sicilia e poi nel Regno di Napoli, a partire dall’Alto Medioevo fino all’età moderna.

Il nome “tari” deriva dall’arabo “ṭarī” che significa “fresco”, “nuovo”, ed era il nome dato a una moneta d’oro araba molto diffusa, chiamata dinaro.

Durante la dominazione islamica della Sicilia (IX-XI secolo), le autorità musulmane coniarono monete simili a quelle arabe.

Quando poi i Normanni conquistarono la Sicilia (XI secolo), continuarono a coniare monete d’oro con caratteristiche simili, mantenendo il nome tari.

 

 Atanasio Arch. Pizzi                                                                                          NAPOLI 2024-07-30

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CRITERI PER FARE UN MUSEO DEL COSTUME ARBËREŞË Trutë satë bëmi ghe Zògnàrtë i vèshjuratë arbëreşë

CRITERI PER FARE UN MUSEO DEL COSTUME ARBËREŞË Trutë satë bëmi ghe Zògnàrtë i vèshjuratë arbëreşë

Posted on 02 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un museo del costume, per essere solido, rilevante e culturalmente significativo, deve articolarsi secondo protocollo specifico.

Esso deve seguire un itinerario in grado di accumunare ogni elemento che è parte essenziale, secondo un percorso fatto di sezioni culturali, scientifiche, di trame statiche, esplicative e nel contempo comunicare l’interezza del messaggio che contiene.

Lo scopo prioritario a cui ambire, partono dalle radici storico-culturale, di uno specifico luogo, studiato e analizzato, attraverso la documentazione di una macro area secondo le epoche i bisogni e le necessità di appartenenza del tempo in cui vennero allestiti.

Il museo deve contenere gli elementi utili per tracciare il percorso evolutivo della vestizione, attraverso consuetudini in continuo parallelismo con la storia e le epoche, evidenziando il contesto, sociale, politico e culturale in cui la vestizione richiesta per rappresentanza di genere.

Un costume pensato per la vestizione della donna dovrebbe contenere, in sé, la memoria e la forma dei suoi passaggi essenziali: la ragazza prolifica, promessa di vita e possibilità, ancora inconsapevole del peso e della bellezza del tempo; la sposa, figura di transizione, che si consegna a un nuovo inizio portando con sé un abito di attese; poi la madre, corpo che genera e si offre, centro di legami invisibili ma tenaci. Seguono il lutto, presenza nera e silenziosa che avvolge, segna e trasforma, e infine il lutto incerto, sospeso tra l’assenza e l’attesa, tra ciò che è stato e ciò che non si può ancora nominare. In un solo costume, ogni strato dovrebbe potersi sovrapporre o svelare, come in un rito di passaggio continuo, dove il corpo della donna racconta, con la sua sola presenza, il ciclo della vita e della perdita.

Sulla base del dato che i costumi sono espressione delle identità di specifiche macro aree consolidate, il museo deve valorizzare le diversità di luogo in relazione alla storia, comprese le cose che legano classi etniche, sociali e genere.

In oltre deve contenere il fondamento scientifico e conservativo, secondo cui i manufatti devono essere rigidamente originali.

Tutto questo per estrarre certezze per quanti si applicheranno a studiarli dal punto di vista tessile, tecnico e stilistico, in aderenza con le consuetudini, per tracciare la sfera ideale dove contenere il messaggio completo.

Quel messaggio che ogni volta che viene indossato dentro la casa, fuori la soglia e sino alla chiesa, traccia un percorso di funzione specifica di tutela e consuetudine locale.

Ragion per la quale ogni elemento che qui viene esposto deve prevedere una specifica conservazione preventiva, affinché non smarrisca alcuna piega, forma o pinto di unione specifica.

I tessuti sono materiali delicati, per questo è necessario avere spazi climatizzati, tecniche di conservazione avanzate e un piano per la gestione del deterioramento, ma soprattutto, l’intero volume specie della parte espositiva, deve essere in pressione, con l’immissione di aria filtrata, un sistema di finestre e porte a tenuta stagna e di emergenza direzionata.

Il fine rende indispensabile separare dove ogni ambiente, controllato da telecamere e sensori di pressione o fuoco eventuale.

Il fine mira a rendere durevoli le cose esposte e, non sottoposte alle variazioni termiche, alla luce solare oltre alle polveri all’interno del volume, queste ultime non devono e non possono volatilizzarsi per depositarsi e fare danno.

In oltre ogni elemento deve essere catalogato con rigore e inventariato con dati precisi: datazione, provenienza, materiale, tecnica di realizzazione, stato di conservazione, ecc.

Gli elementi che fanno vestizione e decoro contengono tutti un messaggio chiare e indissolubile, da ciò chi le indossa deve avere consapevolezza dei gesti e delle posture che assume, per questo l’esposizione museale fatta da titolati e con criterio, deve essere in grado di rendere chiari i valori di esposizione in essi contenuti, tuttavia di sovente anzi molte volte e quasi sempre, sono scambiati per mero folclore che vela la vergogna.

Va comunque applicato un protocollo di fondamento museologico, che segua criteri di esposizione in linea con un progetto curatoriale coerente, che può essere cronologico, tematico, geografico o stilistico.

L’accesso e l’inclusività deve dare agio ai contenuti resi essere accessibili a tutto il pubblico compresi anche i non specialisti, con strumenti idonei per persone con disabilità e materiali multilingua.

L’insieme deve prevedere spazi funzionali in forma espositiva, laboratori, depositi adeguati, archivi, biblioteca, e una sezione didattica.

Il tutto per avere e promuovere un fondamento educativo e comunicativo; il ruolo primario di un museo deve avere il fine di raccontare le storie dei costumi e delle persone che li indossavano.

Il tutto deve essere un luogo di riverbero da cui delineare attività didattiche come: laboratori per scuole, workshop di sartoria, conferenze su moda e società, eventi tematici tipicamente locali.

Oggi con l’Uso della tecnologia, la realtà cognitiva aumentata, ricostruzioni 3D, visite virtuali e supporti multimediali possono arricchire l’esperienza del visitatore.

Da ciò non da meno resta il fondamento etico e partecipativo, avendo come fine l’esporre con garbo e dedizione i costumi di popolazioni indigene, specie di minoranze, dove è importante evitare esotismi o stereotipi.

Attraverso il presidio a cui affidare come primario obiettivo la sua inaugurazione e subito dopo il successivo riconoscimento documentale, serve a stabilire una solida collaborazione con le comunità li presenti, seguendo il fine inclusivo, coinvolgendo artisti, storici locali, portatori di memoria orale e sartorie tradizionali.

Onde evitare acquisizioni inopportune e prive di alcuna etica, specialmente nel caso di costumi cerimoniali o sacri, la certificazione e il catalogo delle provenienze è d’obbligo e improrogabile.

Un Museo del Costume Arbëreşë, deve erigersi con il fine di tutelare, documentare e valorizzare la ricchissima tradizione della vestizione femminile da giovane ragazza sino alla vedovanza certa o incerta e fine vita.

Ogni sezione non deve essere conseguenza e non intreccio libero, specie sei si coinvolgono adolescenti in forma di bambole o manichini viventi, addobbandoli impropriamente sin anche con apparati inopportuni e vergognosi, immaginando che quelle vesti e gli apparati di decoro, siano solo ed esclusivamente folclore da esibire, mostrare inconsapevoli del gesto improprio.

Il museo per avere senso e dare valore alla vestizione si sviluppa o meglio si articola secondo un duplice percorso che non è mera esposizione ma anche secondo una forma didattica che intreccia arte tessile, identità culturale e memoria collettiva, di tutte le consuetudini che riferiscono del percorso che unisce, le attività domestiche della casa e l’altare della chiesa.

La collezione oltre al percorso permanente, deve includere abiti originali e, sin anche riproduzioni, queste ultime capaci di riferire della perdita del valore nel tempo, oltre gli allestiti in oggetti di rifinitura, accessori e oggetti tessili e orafi.

L’insieme delle cose usate nelle varie fasi della vita della donna, dalla giovane età al matrimonio, fino alla maturità e la sua estinzione.

Le sezioni di Adolescente, Donna, Sposa, Madre, Regina della Casa, Vedova Incerta e Vedova, in cui ogni sezione sarà accompagnata da schede esplicative che non intreccino le figure in funzione del tempo, fotografie o ritratti d’epoca, videointerviste alle donne delle comunità e postazioni interattive per la comprensione del significato simbolico della vestizione e del loro uso.

Onde evitare distrazioni visive, al loro fianco non deve essere apposto alcun manifesto o elemento esplicativo se non dei calibrati QR-Code, dove saranno apposte attraverso specifico itinerario multimediale tutti i resoconti storici e del significato del componimento di vestizione

Ogni costume deve essere indossato dalla categoria di vita femminile, e per tutte vale la regola fortemente vietata, di travestire chi è minorenne e, se proprio la misura serve per avere una visione minuta da intercettare meglio è di obbligo allestire bambole o manichini di modeste dimensioni.

Il museo inoltre dovrà prevedere una sezione di ricerca, aperto alla collaborazione con studiosi, etnografi e stilisti, e ospiterà laboratori didattici rivolti a scuole e visitatori per tramandare saperi artigianali come il ricamo, la tessitura e la composizione dell’abito tradizionale.

Un luogo vivo dove l’identità arbëreşë potrà avere continua e raccontarsi attraverso i fili, i colori e le forme di una cultura antica ma ancora viva.

Il Percorso museale, inizia con la vestizione di ragazza come simbolo potenziale e, ancora libera, di una comunità che la forma attraverso usi, consuetudini e credenza.

Questa sezione si articola con l’esposizione di abiti curati, secondo specifici o solidi disciplinari di un idealistico bianco candore.

In questa sezione saranno contenuti ed esposti anche i gioielli della giovinezza, come anche oggetti educativi e domestici e, a memoria di canti e poesie o atti di comportamento sino all’età in cui si diventa donna genitrice.

Poi segue la sezione di spasa con l’abito del matrimonio, celebrazione e sacrificio, a cui si affianca l’essenziale e fondamentale componimento di ori e ricami, simbolo dell’ingresso in un nuovo ruolo.

La donna pilastro della famiglia diventa così anche la regina del focolare domestico, il cuore della casa.

A lei appartiene il focolare, la trasmissione della lingua, la conservazione delle ricette, dei gesti, della memoria da tramandare alle generazioni in crescita.

Secondo questa regola gli Abiti del dignitoso quotidiano, diventano fondamentali oggetti come: per cucinare, telai, cesti, rosari e tradizione del parlato e, mantenere vivo costantemente il “fuoco domestico” come spazio o luogo sacro.

Altro emblema caratteristico sono le vesti che ufficializzano la perdita del marito, la donna entra in uno stato rituale e sociale dove il lutto è visibile, e porta con sé una nuova autorevolezza.

E nel caso del marito scomparso di cui non si ha traccia rientra nel protocollo della Vedova incerta, in perenne attesa senza risposta

Questa figura nasce nel tempo delle guerre, quando molti uomini partivano senza tornare, e le donne rimanevano in un limbo: né mogli, né vedove ufficiali, una condizione esistenziale dolorosa e sospesa, di silenzio e di speranza interrotta.

Il percorso si può concludere con una riflessione, dove ad emergere è la forza delle donne arbëreşë che non è solo racchiuso nella vestizione, ma nella loro resilienza di fronte a ruoli imposti, eventi tragici e silenzi lunghi che durano e vanno oltre il tempo di una vita.

Atanasio Arch, Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-02

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