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POSHËTË, DRELIARTË, KA, THË, JASHËT, MBRËNDÀ, PRAPA, PËR PARA. (Santa Sofia: i luoghi, la storia)

Posted on 14 aprile 2020 by admin

Aglomerati primariNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il panorama urbano dei paesi della Regione storica Arbëreshë, fa riferimento a canoni delle città aperte, rinnovando i vetusti modelli medievali e per questo sono da ritenere come i pionieri per la convivenza, in età moderna, tra uomo e natura.

È con le  migrazioni dai Balcani dal XIII secolo, che nasce un nuovo strumento culturale, sociale ed economico capace di esprimere oltre che a soddisfare localmente, esigenze del vivere a stretto contatto con la natura.

Tutto è architettato, predisponendo e coordinando il luogo, nel pieno rispetto delle opportunità storiche, ambientali, sociali ed economiche.

L’azione degli arbëreshë, nello specifico, fece emergere le potenzialità del ”focus”, il luogo, esaltando le garanzie predisposte dai nuovi signori, in quelle posizioni già note agli esuli, a proposito dell’ambiente.

Un flusso di uomini e competenze di convivenza con il territorio naturale, trovò nel focus, organizzando gli ambiti, secondo arti, mestieri, omogeneità, che solo quanti erano legati alle consuetudini oralmente tramandate, sapevano le terre per trarre il maggior vantaggio, dall’ambiente in cui s’insediavano.

Territori paralleli della terra d’origine ricercate bonificate e vissute, al fine di innalzare idonei presupposti nel pieno rispetto del focus riconosciuto.

Se al tempo degli indigeni locali le stesse terre aveva avuto un mediocre rilievo, conseguito in funzione di limitati impegni racchiusi tutti e unicamente nell’interesse per lo sfruttamento agricolo e per l’uso come residenza personale, distanziando le due esigenze; con l’avvento degli arbëreshë l’impulso è diverso sia dal punto di vista organizzativo e sia per la ritrovata forma territoriale dove depositare le radici culturali, politiche ed economiche.

Allo scopo si vogliono evidenziare attraverso l’odonomastica del popolo, ancora memoria viva (inconscia), e attraverso di essa individuare come l’iniziale e semplice focus  sia stato trasformato nella contea di vaglio ancor oggi presente.

Seppure e riconoscere con amarezza che, mutatis mutandis, vale sostanzialmente anche per Santa Sofia la constatazione che : “Non  esiste città borgo e luogo costruito, che non abbia  adottato,  come  accompagnamento  alle  “escrescenze  caotiche”,  la  distruzione sistematica dei suoi caratteri di facile comprensione.

È per questo che adoperarsi a predisporre l’indagine odonomastica si segnare il modo in cui è nato e si è modellato “l’agglomerato diffuso di Santa Sofia”, ben consapevoli che univocamente e parimente non saranno scontate e le risposte, ma l’impegno e soprattutto sacrificio di ricerca renderà merito alla giustificazione dei toponimi.

Seguire e ricostruire le linee secondo cui  gli originari casali hanno sviluppo il modello, il fuoco diffuso, da cui è in seguito sono sbocciate le tipologie della propria radice storica.

Escono quale risultato indelebile e preciso da tale operazione:  i criteri in base ai quali il centro antico fu edificata, sia sfruttando le caratteristiche naturali del terreno sulla traccia dei camminamenti storici, nelle prossimità dei quali elevare e circoscrivere gli spazi indispensabili.

La regione circoscritta del recinto inteso come Mbrëndà e Jashët è andato configurandosi da spazio libero e non coperto, fino agli innalzati edilizi, disegnando così la pianta urbana che conosciamo.

Nel disegno di origine, rilevanza particolare è affidata all’arteria  Starada Grande (huda made); in quanto essa richiamare alla memoria l’azione  promozionale capace di innescare le varie attività artigianali  e  svolgere  la  funzione  di competenza da cui dipartire vicoli, elevati e piazze, il nettare primordiale  dell’assetto, urbanistico  diffuso, l’anima pulsante in cui conversono gli ingredienti dall’integrazione di esuli con gli indigeni.

Alla storia contribuiscono a dare forma non solo le vicende umane, ma anche gli spazi in cui quelle avvengono, per questo, nelle vie, strade, violi e sheshi, la storia lascia indelebilmente tracce della sua memoria e delle azioni.

Molti toponimi sono scomparsi, di essi si è persa anche la documentazione d’archivio, spezzando così la memoria di una cultura locale colma di significati preziosi, con molta probabilità gli unici in grado di dare  senso  alla  definizione  dell’immagine storica specie se vuole essere espressa in chiave etnica.

Tuttavia avendo ben chiari i riferimenti linguistici e la conformazione geologica e orografica degli ambiti addomesticati per essere vissuti, apre versanti di ricerca molto ampi pieni di momenti suggestivi.

Sicuramente le testimonianze di vita, come si è detto, della fisionomia  urbanistica del passato  possono  essere andati persi, ma rileggendo le tracce degli elevati murari e la loro consistenza materica si possono  recuperare,  rileggendo,  con  ispirazione motivata dalla ricerca; compulsando e rileggendo secondo l’antico idioma antichi riferiti sia in forma clericale o esperimenti di metrica canora abbarbicati ancora al tempo di edificazione.

Oggi nella memoria territoriale rimangono tracce dei materiali e toponimi dell’epoca  Huda Stangoitë, Ka rin reljeth, Kisha Vieter, Kambanari, essi segnano indelebilmente azzioni naturali o indotte che hanno caratterizzato lo scorrere del tempo.

Altre invece, recano le nuove denominazioni cambiate sotto la spinta di noti eventi storici, come personaggi di partito politico che non hanno nulla a che vedere con la storia di quegli ambiti, che in alcuni casi non lasciano neanche sulle lapidi la memoria di un tempo, sostenendo esclusivamente  l’informazione   usurpatrice , come a voler  nascondendola colori intensi con pastelli sbiaditi di di rotacismo analfabetici.

Essi non sono altro che un retaggio di antichi aspetti sociali della convivenza nello spazio cittadino è nascosto nella memoria, di pochissimi anziani e sta a noi attenti interpreti indirizzare il giusto valore alla nota o frammento di essa.                                                                                                                                                

Sia all’epoca di insediamento e poi subito dopo durante il confronto s’individuavano i luoghi con riferimento a episodio architettonici o di frammentazione di residenze dismesse o noto quali: la chiesa, il luogo di arrivo o il luogo promontorio;  oltre  a  particolari  pittorici,  della  devozione popolare icone oluoghi di culto in generale; elementi naturali come il pennino/pendino o/e indotte come frane, Kambanari.

Dopo i primi riconoscimenti caratteristici, segue lo sviluppo urbano e la diffusa possibilità di elevare moduli abitativi in muratura si definirono Sheshi, Rugha, Huda, assoggettando luoghi identificativi della famiglia insediata o particolari confini, come Prati o Kanlhë.

In origine era la strada stretta e articolata (Rugatë),  sulle di cui quinte si  aprivano gli usci delle case e le tipiche finestre di controllo, cosi come alcuni moduli non abitativi con attività artigianali indispensabili alle consuetudini dei componenti il rione, identificato con il suffisso “Ka”. 

La denominazione aveva origine dalle attività che si praticavano, dall’identificativo del luogo o dalla particolare categoria di persone in essa residenti (nomadi, indigeni o comunque provenienti da altri agglomerati urbani).

Nei meriti identificativi di quest’ultima categoria una nota più dettagliata va fatta, anche se comunemente si dice che la storia, “si fa solo con i documenti o in base alle testimonianze corroborate”, va fatta per tutte quelle residenze allocate a nord e a sud del “vico stella” e quindi non documentate ma notoriamente stese al sole.

Queste  abitazioni erano tutte appellate con i nomi dei paesi di provenienza dei residenti; persino la strada che delimitava l’urbe dalla campagna era denominata come: “limite dei latini”.

A completamento di questo spunto, mi pare opportuno sottolineare, l’origine del  termine  “Trapesë”  che secondo alcuni vuole indicare, il piano, tavola malsana o terreno  paludoso, tralasciando il dato storico locale che il “trappeso” è anche un’unità di misura di piccole quantità.

Non di metalli nobili quali l’oro o l’argento, li mai estratti, ma in conformità a luogo in cui le genti povere, attendevano il riversare delle poche resta della mensa arcivescovile che li rimetteva i resti della mensa.

Questa e altri toponimi, quali: Uda Ka Sanesh, Kar karegleth, Kamorchiaveshët, Ka mbanari, Shighëata, shesi Ku arvomi e altri, se opportunamente indagati e confrontati, con la storia locale sono in grado di fornire l’itinerario di sviluppo del centro antico, a cui tutto si può  accreditare ma non comunemente annoverare come Borgo Medioevale.

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