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NON È PIÙ TEMPO PER L’OMBRA DELLA PIETRA ANGOLARE ARBËRESHË

Posted on 18 ottobre 2020 by admin

Pietra angolare

NAPOLI (Atanasio Pizzi Basile) – Lo studio della Regione storica Arbëreshë eseguita in chiave, materiale e immateriale nasce sulla base di un progetto che ha avuto spunto quando furono attuati i primi dibattiti, immaginati per valorizzare le minoranze ricadenti nelle pieghe della legge 482 del 99, diversamente rendendo ancor più povere di contenuti, specie quelle meridionali.

Era la prima decade del mese di Luglio 2003 e quanto riferito, dai comunemente noti, lasciavano perplessi quanti ascoltavano, parche, fuori dalla sede in cui si disquisiva liberamente, tutti vivevano “il luogo dei cinque sensi” secondo metriche immutate e ignote ai relatori.

Questo ha rappresentato, l’atto, per il quale si è ritenuto essere giunto il tempo di chiudere all’interno del recinto i portatori sani di matite rosso/blu e proteggere il patrimonio materiale ed immateriale, diventato il pascolo dove brucare liberamente.

Difendere quanto restava per le future generazioni arbëreshë, era una missione da non lasciare più al libero arbitrio, oltre a difendere il buon nome di “Zia Clementina” e di quanti come lei avevano preferito diventare muti e sordi per il grande dolore subito.

Se a questo si aggiunge che in occasione dello svolgimento dell’ottava storica si è giunti:

ritenere che l’estate arbëreshë, doveva appellarsi, “Valja di Sant’Atanasio;

le tipiche vesti femminili delle spose arbëreshë, allestite senza alcuna garbo;

un solco di semina, che non fosse di avena fatua, ma dimora di semi identitari non era più prorogabile .

Questa ha rappresentato la chiusura della stagione di cultura libera, immaginando ill danno che avrebbero prodotto le monotematiche figure con le tasche colme di ombre che celavano dannose alchimie.

Dare avvio alla fase definitiva del progetto, iniziato un trentennio prima per la valorizzazione dei cinque sensi Arbëreshë, è diventata una missione, in memoria di “Zia Clementina” che diceva sempre che l’acqua della fontana di fronte al suo uscio, sarebbe stata sempre amara, coprendo dal quel dì,  gli altri quattro sensi.

Il progetto a sua memoria, e di quanti come lei che avevano vissuto intensamente i sensi tipici della regione storica, ha avuto così inizio, peregrinando attraverso stati di fatto ritenuti complementari, rispetto al tema linguistico di una nonna muta.

È importante premettere che la pianificazione degli abitati storici, rurale e le relative reciprocità sono il teatro a cielo aperto dei luoghi notoriamente schiavistici, ragion per cui le implicazioni che tale questione comporta, diventando argomento fondamentale per leggere in forma puntuale l’evoluzione  insediativa.

La nascita di questi ambi costruiti e naturali, hanno una radice antica, le cui peculiarità vanno ricercate nella presenza della katundë-servizio, nati a seguito di infrastrutture stradali, che poi erano dei veri e propri tracciati avventurosi ma comunque indispensabili perche complementari alle vie di costa e quella interna.

Questi rientravano negli interessi dei pochi membri dell’aristocrazia che ne sfruttava le produzioni agricole intensiva, connessa all’innalzamento di luoghi costruiti per la conservazione e il conseguente trasporto dei prodotti ad opera dei poveri residenti.

La localizzazione di questa tipologia insediativa, associata principalmente alle specifiche produttive nascevano principalmente dall’analisi territoriale, scegliendo la più idonea posizione topografica, alla luce della disomogenea morfologia, avendo come riferimento tempi e regola di consegna del prodotto finito. 

La specifica territoriale, le produzioni agricole connesse si riflettono nella struttura degli ambienti stessa; infatti, esse hanno funzione di abitazione e “modelli proto industriale” per la trasformazione delle derrate alimentari.

La fertilità del suolo in queste zone permetteva l’innestarsi delle strutture rurali per la coltivazione della vite, della vite e nelle stagioni di riposo dei cereali, favorendo così l’impianto di strutture dedite alla lavorazione e alla conservazione dei prodotti e di derivati.

Oggi servirebbe produrre la fase esecutiva per valorizzare le pietre angolari dell’architettura e delle urbanistica ritenuta, “dai mono tematici”, di estrazione indigena, quando sarebbe bastato munirsi di una lampada ad olio per illuminare le menti buie di chi non è stato in grado di guardare oltre il proprio naso.

L’analisi ambientale, l’evoluzione dei territori, l’urbanistica, l’architettura, quest’ultima prima in forma estratti e poi additiva, sono gli argomenti che grazie ai riferiti cartografici, i trattati archivistici, editoriali e le notizie locali, hanno disegnato la prospettiva ideale che non teme confronto.

Tutto ciò è stato realizzato avendo piena consapevolezza delle parlate locali e per questo ricucire, con arte, lo strappo ormai secolare tra elementi tangibili, presenti sul territorio e quelli intangibili, della memoria di quanti ancora sono veri arbëreshë.

Si precisa altresì che ogni elemento studiato, ha avuto applicato disciplinari di ricerca comprovata, diversamente da quanti ritenendo sufficiente restringere gli ambiti alla sola parlata, hanno tralasciato, cosa e quanto fosse ancora intrisa di consuetudine, manualità, tipiche degli arbëreshë.

Soprattutto in sede locale per la verità di elementi, si sono realizzate ricerche, verso aspetti interlacciati tra le terre poste a est e a ovest, prospicienti il mare adriatico e lo jonio.

Le metodiche utilizzate non prendevano spunto dai comportamenti di quanti, riversano stanca­ti tesi enucleabili, sin anche imbibiti di contributi degli eruditi dei secoli passati, brandendo in ogni genere di occasione il volume, la ballata, o l’abito perfetto senza essere in grado di verificarne, il senso e il contenuto di tempo, luogo e società.

Inoltre il più delle volte i risultati, sono utilizzati in mere esigenze di un irrazionale campanilismo e a quelle di un cieco provincialismo, generando ostacolo, più che utilità ad una serena ed equilibrata ricostruzione degli eventi.

Si potrebbe apparire genericamente, ingenerosi se non si attribuisse agli ingegnosi locali, notizie e informazioni anche di interesse e d’impianto locale, generalmente assenti nei contributi più accreditati.

Tuttavia pur se presenti, restano solo elementi grafici cui non si da valore alcuno e ne si possono confrontare con quanto emerge dai fogli branditi al vento e accreditati come  fonti di saggezza o capitolo di storia.

In questo stato di gregge perenne è parso opportuno tenerne in osservazione, quanto prodotto da quanti vivono all’addiaccio, o meglio fuori dai presidi della cultura, scavando senza meta nelle buie notti, senza consapevolezza se si compiono atti di violazione.

Paradossalmente in questi buchi neri, sono inciampati proprio i nomi più affidabili della storia, inficiando notevolmente il continuo cammino verso una regolare andatura di fatti ed eventi in rispettosa successione.

Si ritiene comunque doveroso rilevare che le manchevolezze sono molteplici, esse hanno una radice antica, colme di inesperienze e poca dedizione alla ricerca, perché in capaci incrociare dei dati.

Valga di esempio la legge 482/99 che pur citasse, nella sua comune trattazione citasse testualmente, “le delimitazioni degli ambiti territoriali e sub comunali in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche”, nei fatti non è stata, posta alcuna rilevanza all’aspetto territoriale costruito e non, quale fondamento per ogni trattazione.

Si è preferito inquadrare la minoranza come “il luogo”, dove i fenomeni di resilienza dovevano ritenersi incamerati nell’atto idiomatico di un luogo ideale, come se l’orografia e l’ambiente non avesse ne forma e ne colori.

Lasciando in questo modo, al ruolo di mera quinta colma di nebbia, l’ambiente costruito e quello naturale, pur se in origine sono state queste a essere cercati e modellati per comprendere se rispondevano alle metriche degli uomini che vi hanno vissuto.

Un Katundë o Kastrjonì, rimane comunque espressione degli uomini e le donne che l’hanno costruito, vissuto e sostenuto, sin anche, quando l’incoscienza e l’interesse degli uomini, lo esasperano al punto di chiudere Case, Chiese e Luoghi condivisi.

La scelta delocativa in genere ha come prassi storica l’incolumità, comunemente illustrata con la promessa di saper predisporre, nel breve di una stagione, un paese arbëreshë nuovo (?).

Quando tutti siamo ben consapevoli che la storia degli uomini non si compie in sunti catastali, scambiati per temi di gjitonia, illuminando l’immateriale degli uomini come si fa con i quartiere, i rione, o luogo comunemente vissuti di ogni genere, come se i paesi minoritari fossero luoghi del banco dei pegni dove imprestare, uova, lievito e vino.

Solo chi è sciocco può credere a ciò, a questi hanno preso impegno di fare ciò, sappiano che “l’architettura storica” non è come un villaggio turistico, un centro commerciale, un parco di divertimento, solo perché scimmiotta geometrie, diffusamente piane inclinate o arcuate in forma di carene rovesciate.

La storia non deve ridursi in sintesi volumetrica, privando i mal capitati abitanti del fattore tempo, quest’ultimo il regista naturale che dirige, i flussi dell’energia naturale per modellare gli elementi costruiti, di luogo e di uomini, secondo caratteristiche intrinseche ed estrinseche irripetibili.

Non si possono abbagliare le persone umiliando gruppi familiari di gruppi minori, a inchinarsi e disconoscere se stessi oltre la propria radice identitaria.

Alla luce di questi brevi accenni è indiscutibile che un Katundë o un Kastrjonì rimane sempre arbëreshë, assieme agli ambiti orografici, pur se questi sono considerati pericolosi e pronti a scivolare a valle; specie se dopo poco tempo, nonostante si continui ad ostinarsi a vietarne l’accesso negli ambiti dell’antico centro antico, a monte si allestiscono parchi eolici, che non certo confermano le teorie delocative imposte, per eventi non naturali certamente prossimi!

Per usare un eufemismo è bene sapere che pur se titolati, quanti ambiscono a inerpicarsi nei trascorsi storici di minoranza, deve avere il quadro completo di cosa voglia vedere, assaporare, toccare ascoltare e sentire; non può immaginare che uomini paesaggio tempo e natura, nel corso dei secoli si possano sintetizzare in una favola in una canzone o nei tratti desertici dell’Algeria.

Valga di esempio il Katundë di Ginestra degli Schiavoni in provincia di Benevento, i cui trascorsi ricordano che dopo essere stati fortemente caratterizzati dalle consuetudini arbëreshë, di matrice Greco Bizantina, innalzando l’agglomerato per secoli, anche a scuola religiosa e formare clerici sino alla fine del concilio di Trento.

Il Katundë di G.d.S. dopo essere stata spogliata della sua istituzione religiosa, ha smarrito sin anche l’espressione idiomatica, ciò nonostante dopo circa un secolo, il prete latino, cui era chiesto, da uno storico locale, se il paese avesse conservato elementi caratterizzanti la minoranza, faceva notare che non vi fosse rimasto nulla.

Tuttavia aggiungeva, che nonostante la popolazione usasse la lingua di macro area locale Beneventana e seguisse le ritualità latine, trovava strano, l’onorare i morti e altre ritualità, secondo consuetudini non contemplate dal calendario Latino.

Ginestra d.S. è stato luogo di studio nel 2017, per questo, attraverso le sue pietre angolari, rioni tipici, collocati come era consuetudine arbëreshë.

Infatti sono stati intercettati media collina dove è allocato il paese, la chiesa e il suo rione clericale, cui era accostato il rione detto promontorio, il labirinto e gli spazi di espansione facilmente identificabili come sheshi o luogo di confronto o movimento.

Ciò non lasci alcun dubbio sul dato che, pur se da oltre due secoli non si conservano valori identitari riferibili all’idioma, la radice urbana e il valore territoriale, secondo le fondamenta arbëreshë, continuano riverberarsi senza mai perdere la via maestra.

Gli esempi in tale orientamento sono molteplici e comunque servono a rilevare che un centro antico di radice arbëreshë, rimane sempre tale anche quanto l’identità idiomatica si smarrisce, per eventi sociali o religiosi imposti a seguito delle conclusioni di Trento.

Vero è che nonostante una moltitudine di Katundë, sia stata impoverita della matrice religiosa, lo parla ancore in un numero di Agglomerati pari al settantacinque per cento di un totale di circa 110 Katundë, il rimanente venti cinque percento segue le direttive religiose importate anche se trasformate in bizantine di lingua arbëreshë.

Tuttavia tutti i paesi, altri si potrebbero individuare con studi mirati, conservano l’impianto urbano e architettonico identicamente intatto, riconoscibile all’impianto e dall’orografia tipica a soddisfare le consuetudini di questa straordinaria minoranza.

Oggi è giunto il tempo di confrontarsi sulla legge 482 del 99, correggere gli errori, integrando nuove esigenze pervenute, ma più di ogni altra cosa, rilevare che la minoranza italiana, non è “Albanese” ma Arbëreshë.

Occorre produrre protocolli identitari senza protagonismi e ben comprendere che: ogni manifestazione, deve essere allestita coerentemente con quanto di storico ancora possediamo, compreso l’unico elemento artistico ereditato dalle generazioni passate; il costume arbëreshë, e terminare lo stillicidio di vestizione, che sarà a breve argomento di una pubblicazione, giacché solo nel vedere come è allestito, esposto o indossato, dire che lascia perplessi è un eufemismo.

Per questo occorre migliorare le disposizioni delle leggi regionali che non sono solide al punto di caratterizzare i centri arbëreshë, al fine che al viaggiatore errante possano apparire, credibili, unici e senza porte ventose medioevali che spazzano e rendo irriconoscibili gli ambiti della storia.

Disporre che l’appellativo dei centri minori qui trattati sono i “Kastrjonì o Katundë” non Borghi! quest’ultimo, in specie appartiene ad altri popoli, disposti più a nord e comunque non nei tempi e nei luoghi, secondo le esigenze culturali delle genti di radice, Arbanon, Arbëri e Arbëreshë.

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