Categorized | In Evidenza, Storia

GJITONIA – VALLJE – SHEŞI – BORGHI E ILLISTRI NON HANNO PREGHIRE DI PERDONO DAGLI ARBËREŞË (gjitonia, valletë sheşi e llëtiretë arbëreşë me mbëcatë i sotë pàkùnghìmë)

Posted on 28 aprile 2024 by admin

005b-NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se oggi si dovessero tirare le somme di come siano state condotte valorizzate o indirizzate, le diplomatiche di tutela delle cose che rendono gli arbëreşë il modello di integrazione più solido e duraturo del mediterraneo, si dovrebbero allestire capienti confessionali dove impartire preghiere di penitenza per i peccatori.

Una deriva culturale senza precedenti, a giudicare dagli editi e i divulgati, non di comuni viandanti, ma per gli statici dogati senza formazione culturale in tema.

Si potrebbe qui allestire una enciclopedia consistente o di almeno pari volumi di quante si dice siano le migrazioni senza alcun senso storico sempre vantato.

Ma qui è il caso di sottolineare quali sono le cose storiche e veritiere, onde evitare l’allargarsi della deriva culturale, lasciate pericolosamente a invadere cose intime e identificative della Regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë.

A tal fine la memoria va al tempo in cui era difesa d’ufficio, nel corso della delocalizzazione di Cavallerizzo, frazione di Cerzeto per il rilascio della Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.), nel mentre si cercava confronto condiviso, con quanti dovevano essere gli anziani e formati al pari dell’Architetto Federiciano e Olivetaro i parà Krunde.

Due docenti, invece di tendere la mano, non avendo consapevolezza, a quei tempi, di me si condividesse una Mail, inviavano anche a all’Architetto Federiciano e Olivetaro di prima linea, le critiche senza senso e di incosciente radice.

La di cui corrispondenza critica era compilata con frasi del tipo; E chist’atru chi va cercannu ……………, e tutto questo solo perché erano stati invitati a confrontarsi, per i concetti qui di seguito a titolo come; Gjitonia, Sheshi, Rioni e crescita del centro antico di primo insediamento.

Tuttavia e senza soffermarsi anche su questi due Don Chisciotte e Sancio Panza, le cose più infantili che si ripetono e che si fa gran uso improprio è nell’identificare i centri antichi di radice arbëreşë, meramente Borghi, organizzati in quartieri sotto prodotte da Gjitonia, con piazzette dove affacciano porte e si canta e si balla a primavera la memoria di battaglie vinte dall’eroe albanese, deposto a memoria che giarda in tutte le direzioni men che meno verso la sua casa di kroje.

Va in oltre precisato che nonostante la minoranza abbia un proprio appellativo identificativo dei centri abitati, ovvero “Katundë”, che identifica un luogo di confronto, movimento o insieme di Iunctura sociale e familiare, in forma di città aperta rinascimentale, priva di classi onorifiche o economiche e, non certo medioevale chiusa, murata e di forma economica piramidale.

Quando nel 1999 ascoltai per la prima volta il teorema di “Gjitonia come il Vicinato indigeno” rimasi a dir poco basito e confrontai quel principio con ogni figura di spicco, i quali rimanevano tutti a dir poco perplessi anche se con sorrisi ironici de condividevano radice e contenuti sociali.

Iniziò così un ‘indagine molto articolata, fatta attraverso figure di eccellenza che a quei tempi erano riferimento storico, antropologico e psichiatrico in diversi dipartimenti universitari del meridione e, nel breve di pochi anni trovai la tessitura anomala di quelle esternazioni a dir poco infantili, anzi direi copiatura storica di un loco di pena e di vergogna.

In tutto, la Gjitonia è il luogo dei cinque sensi, non ha confini materiali e, rappresenta il luogo di formazione diretto dal governo delle donne, confuso genericamente, come traduzione semplice ed elementare come il loco “dove vedo e dove sento” che non è solo sentire a vedere, ma concerto armonico dei cinque sensi, gli stessi che fanno sentire il genere umano sempre a casa con i propri cari.

L’antico governo delle donne, ovvero madri sorelle, zie e nonne instancabili che preparavano le nuove generazioni, ripetendo quelle attività che ancora oggi non smettono di esistere e dare vita a ogni nuovo fiore di genere, che qui ha la fortuna di nasce e crescere, pensando prima e parlando dopo in Arbëreşë.

È stato lasciato al bando pubblico il teorema secondo cui uno Shëşë è uno spiazzo attorno al quale affacciano porte e finestre gemellate, nonostante la storiografia seria li riconosca come modello di Iunctura urbana, in tutto, un componimento urbano articolato, disposto in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpij), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redhë).

O cosa siano Costumi, Strade, Pietanze o quali sianole bevande tipiche ottenute con i distillati di prodotti mediterranei; non chiedere mai cosa e come erano innalzate Case, Chiese e Palazzi, o quali vestizioni tipiche usavano le donne e cosa rappresentassero in senso identitario, dove siano avvenute, nascite, soprusi o malefatte, perché avrete risposte a dir poco inesatte.

Non addimandate di essere accompagnati, per essere raccontata la storia delle case che parlano e raccontano storia di abusi, tanto nessuna di loro è così leale per farlo, ne tantomeno voi distratti viandanti, potrete cogliere la casa del diavolo che racconta una storia con protagonista esasperato il dio malefico, che li resta arrabbiato.

Altro argomento diffuso e promosso comunemente per i distratti e divertiti visitatori distratti dai midia, sono le incomprese e vituperate “Vallja”, presentate come ironia canora e di ballo, di stragi appena terminate e quindi memoria trionfale, di stragi contro Uomini, Donne, Bambini, Bambine, Asini c Cavalli.

A tal proposito è opportuno precisa re che le Vallje sono le antichissime Carmina Conviviali, feste di gruppi familiari ai tempi in cui non esisteva la scrittura, l’uomo che non conosce la scrittura vive nel mondo magico dell’orecchio e non in quello neutro della vista, in altre parole, per lui il senso più importante è l’udito, è questo infatti il senso privilegiato con cui viene in contatto con l’intero sapere della sua cultura.

In tutte le società a cultura orale le produzioni verbali sono centra­te, in genere, su dinamiche agonistiche, tali culture si ama scon­trarsi verbalmente attraverso lo sbeffeggia­mento, il vituperio verbale, ma anche talora ci si può esibire in lodi tremendamente esagerate ai nostri orecchi.

La stessa conoscenza non è mai astratta, ma è sempre vicina all’esperienza umana ed è, quindi, situata perennemente in un contesto di lotta, in queste culture, «i proverbi e gli indovinelli non vengono usati semplicemente per immagazzinare conoscenza, ma anche per impegnare gli altri in una battaglia intellettuale e verbale: pronunciare un proverbio o un indovinello significa sfidare gli ascoltatori a rispondere con un altro più appropriato, o con uno che lo contraddica.

Il vantarsi del pro­prio coraggio e/o il sarcasmo sul nemico sono atti che regolar­mente ricorrono nella narrativa orale, basti pensare a quanto accade ad esempio al piccolo esercito del Castriota che diede filo da torcere alle armate turche.

La cultura orale è conservatrice, tradizionale, in tutto, sono società magiche e tribali, in breve società chiuse, società fortemente conservatrici e tradizionali in cui la critica, il miglioramento o l’innovazione non vengono favorite, ma guarda­te con diffidenza e spesso osteggiate.

Infatti, «poiché in una cultura a oralità primaria la conoscen­za concettualizzata viene ripetuta ad alta voce altrimenti svanisce presto, le società, che su di essa si basano, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente impa­rato nel corso dei secoli.

sono soliti ascoltare con la fioritura dei sensi e sono disposti a lasciarsi coinvolgere totalmente da colui che parla o che canta, in altre parole, l’uomo della cul­tura orale vive sotto la tirannia del presente.

Egli non ha nei confronti della «verità» storica la nostra stessa sensibilità, in quanto l’inte­grità del passato è sempre subordinata alle esigenze nel presen­te, anche se parte «scomode» o non più «attuali» e, immolate sull’altare della quo­tidianità. 

Le società a cultura orale, infatti, sono riuscite a risol­vere il problema connesso alla trasmissione del loro sapere grazie a una scoperta fondamentale: esse avevano imparato a co­struire contenitori verbali ritmici e formulaici, avevano scoperto la poesia e di essa avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione delle conoscenze e alla trasmissione, da una generazione all’altra, dell’intero loro sapere.

In particolare, le società a cultura orale riuscirono a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica alle movenze di danza.

Nella civiltà moderna si verifica una situazione simile a quella presente nella cultura orale, nei meriti di testi invece che canzoni di successo, che finiscono con l’imprimersi nella mente del grande pubblico popolare grazie alla loro ossessiva e piacevole ri­petizione.

Di fatto, anche nella cultura orale la tecnica più comune per tra­smettere la tradizione era quella della ripetizione o delle rime di ironica partecipazione popolare.

Mentre la poesia epi­ca viene recitata da cantori professionisti, ma anche da adulti e anziani, da bambini e da adolescenti e ciò avveniva durante i ban­chetti, all’interno della famiglia, a teatro e sulla piazza del mer­cato.

Ovvero fare dimostranza attiva della propria storia, ricordando con canti e danze, le tappe della propria identità in diverse attività pubbliche nella stagione lunga; e poi nella stagione corta allevare le nuove generazioni davanti al camino, in forma riservata, e seguiti dal governo delle donne.

A questo punto è il caso di dire: chi è senza peccato di ironiche dicerie culturali scagli la prima pietra, anzi in primo blocco di Adobe per costruire le prime case degli arbëreşë, quelle denominate vernacolari o per necessità, ma qui entriamo in un campo dove solo i formati Federiciano e Olivetaro, hanno titolo per parlare e gli altri devono restare con la bocca chiusa e le orecchie aperte ad ascoltare, altrimenti si finirà per dire ancora per molto “la Gjitonia come il Vicinato indigeno” “le Vallje la battaglia vinta” “lo sheshi la piazzetta dove affacciano le porte e si balla per ricordare il Castriota” “la giornata del Temine si mangiano carne insaccata nelle tombe dei defunti”.

Comments are closed.

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!