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LA FINE DEGLI ARBËREŞË È ALLE PORTE: IN POCHI CONOSCONO LE CAUSA DEL TRAMONTO (Vanë më përpoştë sì janë e vènë)

Posted on 06 febbraio 2024 by admin

GranadillaNAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si accosta alla storia, lo si fa in primo luogo perché si desidera capire, con tutta l’onesta intellettuale di cui si e capaci, definendo come siano andate effettivamente le case.

In questo senso la ricerca storica non si esaurisce nella paziente e minuziosa ricostruzione del passato; lo sforzo erudito, la raccolta del materiale documentario forniscono semplicemente lo strumento che ci permette di cogliere i nessi tra i vari frammenti di realtà, consentendoci di formulare giudizi di valore e tentare un’opera di sintesi.

Per questo intendere l’origine e la mecca­nica di quegli eventi della storia che ci porta alla condizione nella quale si versa attual­mente.

La premessa conferma il principio che la storia in senso generale sono episodi di una formula, che no trova loco in archivio compilata in ogni sua parte degli scribi del passato e, in attesa di essere trovata, letta per essere interpretata dal primo avventuriero.

Qui, per questo, si vogliono tessere, linee fondamentali, in tutto, una diplomatica onesta, semplice, veritiera, oltre che comprensibile anche al più comune addetto, anche se notoriamente svogliato Arbëreşë.

Non è concepibile che ad oggi tutto l’echeggiare sia riservata solo alla pubblica assemblea, co le effigi del diffuso sancito; “da noi diciamo così”, senza avere memoria di promuovere l’antico progetto mussulmano, in tutto, una forma di negazione delle proprie radici e “tacere sarebbe un modo semplice per apprendere la consuetudine Arbëreşë”.

Esiste una strada che delinea la storia senza irregolarità alcuna e, l’essere caparbi a non smettere di cercarla per seguirla, ti distingue dai comuni locali che, generalmente si fanno incantare solo dai nodi di tessitura irregolari.

Per questo tessere, e riconoscere tempo, persone e morale dei fatti avvenuti nel componimento, consente alle figure, di apparire trionfanti genuine e, certamente non neri di sventura.

E quanti si cimentano a fare ciò, devono saper tessere e setacciare nel contempo le anomalie dei fili compilati, senza predisporre affiliazioni malevole, per diventare fratello vicino ad altri che mirano a fare società buona.

Evitando di sedere nelle fila, dei fannulloni più abietti, che danno vita ad attività poste in essere dalle istituzioni tutte, le stesse che non hanno soluzioni di rimedio a questa vasta deriva, che non vede termine definitivo.

Conferma di questo stato di fatti, cose e attività, sono le numerose figure di eccellenza lasciate in compagnia dei loro esclusivi editi, perché ricercatori di levatura alta” i quale invece di essere ben accolti li preferiscono a quanti si sollazzano con gli inutili editi di riverso culturale basso.

Queste figure illustri, in oltre vengono screditate e lasciate in amara solitudine e, sin anche relegati al confino culturale, dalle istituzioni preposte alla valorizzazione di cose uomini ed eventi.

Nello specifico sono proprio questi a preferite ambigue e spinose figure attratte dall’orbita culturale, espongono oltremodo, fatti mai avvenuti, per la natura e il genio dell’uomo Arbëreşë.

Per questo le cose, le figure e i fatti qui trattati, vogliono essere una rivalsa epocale dei ricercatori “solo di levatura alta”, a impronta dell’aquila ciclopica, che nel volare alto, coglie le cose mai intercettate da quanti si cimentano al chiuso degli archivi, ancora non allestiti, in loro favore. 

Tutte queste cose o eventi rovesci, devono ricevere una energica risposta, dal mondo della Cultura “scacciandoli a pedate nel fondo schiena” dalla capitale della cultura Arbëreşë, scambiata, per spiaggia per attivisti dell’ozio di mente e cuore, ignari del dato che qui dimora l’aquila della cultura e il fido ciclope.

Nel mentre in tutta la Regione storica, si continua a valorizzare l’ironia mussulmana, la stessa che depone il capretto sulla cupola di credenza imperiale.

Un componimento blasfemo irreverente per noi Cristiano Bizantini, che per onorare e ricordare i nostri defunti, non usiamo banchettare con carne, in tutto un emblema, preparato e posto in essere con cattiveria e senza rispetto dall’avversario imperiale.

Vero è che quel componimento è riposto, in capo dell’eroe Arbëreşë, in tutto, un messaggio ironico e blasfemo che vuole sminuire, il valore della tela forte e duratura di opposizione, tessuta dallo stratega Giorgio, trappola di credenza che è diventata ormai vanto incosciente.

È stata una vera e propria imprudenza impedire, rifiutare e, per due volte, interrompere il dialogo che la cultura alta voleva intraprendere con voi preposti politicizzati bassi, a casa mia pure ospitati.

Tuttavia inconsapevoli di vivere e aver respirato o essere stati ventilati da troppa farina nei mulini del fiume Sordo e del torrente Settimo, dove si usa disperdere la poca crusca in favole ad opera degli ignari, presentati come vanto di macina buona, che comunemente negli appuntamenti istituzionali svelano fatiscenti, incoerenti, comunque penosi a voglia per dirsi, argomenti di farina al vento.

Come se tutto ciò non bastasse, nel contempo e caparbiamente si impedisce il dialogo con le eccellenze alte, preferendo belare editi di confusione o commettere soprusi in campi ancora incolti, gli stessi preparati dall’infaticabile contadino colto, che segue semina, crescita e raccolto finale per esporlo come eccellenza.

Chi si occupa di “Regione storica diffusa degli Arbëreşë”, e mi riferisco a quella che il presidente Mattarella, nel 2019 definì la minoranza storica; “modello di integrazione sostenibile del mediterraneo in età moderna”, non sono certo gli stessi che vanno spargendo incoerenze storiche e territoriali della monocentrica “Arberia”.

E i pochi illustri che sanno, conoscono e, più che conta, hanno consapevolezza della infinita storia degli Arbëreşë, quella vera e realmente accaduta, la parte genuina, meritando per questo più di una medaglia, più di una carta pergamena a titolo ignoto e, molto più di una “laurea ad honorem”, come hanno fatto per il comune o perverso “Antiquario Clerico” a fine carriera.

A ragion veduta o sostenuta da queste irresponsabili fatti, “I CULTORI ALTI”, bisognerebbe riservare almeno una menzione condivisa della Presidenza della Repubblica Italiana e di tutti gli stati che si ritengono figli di questa lingua nata ad est del fiume Adriatico e tutelata identicamente negli ambiti della “Regione storica diffusa degli Arbëreşë”.

Questa proposta potrebbe lenire le pene profuse, per evitare piaghe culturali in atto, diffusesi nelle cattedre in festa o vento di farina pandemica dirsi voglia.

Studiare e comprendere i sistemi articolati dei centri antichi di radice Arbëreşë, non è semplice, ne può risolversi pubblicando senza ragione, come e perché furono compilati, capitoli, onciari in atti di sottomissione.

Spetta a chi conosce queste cose, spargere semi di sensi; e la conseguente logica per i quali furono allestiti.

Palesemente questo non è semplice, ma cosa più fondamentale, non può essere ritenuta materia di lettura alla portata di un singolo comunemente scriba.

In quanto questi ultimi non hanno visuale ampia per interpretare, come fanno quanti muniti di caparbietà non smettono di indagare per trovare riscontri della storia medioevale, antica e moderna.

Gli stessi con cui bisognerebbe confrontarsi ricevere risposte coerenti o venire in soccorso e, rendere chiari gli argomenti trattati con solidità di senso storico.

Non è concepibile che per rendere sostenibile la storia e i trascorsi degli edificati dai tempi vernacolari, si possa ancora oggi affidare le cose a istituti universitari, i quali si presentano in loco ben consapevoli del misero sapere, ma speranzosi che gli allievi, possano indagare la storia locale, per i voti di lode messi in palio, come si fa nelle fiere e nelle feste padronali.

O allievi che non avendo consapevolezza dell’idioma, Tosco e Ghego usano il traduttore automatico di Google, per fare componimenti in lingua altra e se ciò può andare bene per le parlate indo europee, non lo può essere per l’Arbëreşë che essendo un parlato senza in supporto di scribi alcuni, non sarà mai contemplata in quel sistema di intelligenza artificiale ancora acerbo.

Si ode un lamento diffuso d’aquila bicipite dalle due bocche dello stesso corpo, ma nessuno le ode o non ha consapevolezza del fatto che è componimento del dolore che viene dal cuore,

Benché tutti la vedono stampata, raffigurata o riposta su vessilli multicolore, ma niuno ha mai notato che essa è vestita di “Stollja nera”, espressione di madre devota che vede giorno dopo giorno perire le sue cose materiali ed immateriali e in lutto perenne, fa ricognizione alta nello scorgere sempre meno cose.

E questa è la conferma che tutto volge al termine, nel fare cose che hanno temi o citazioni copiate per riportare a proprio nome senza vergogna, una gloria che non è più possibile.

Purtroppo oggi sono numerosi gli scribi, che fanno queste azioni senza titoli e conoscenza dei temi specifici, apparandosi dietro atti di cose che li possano lavare dall’onta di vergogna inedita spargendo cenere su: Tarantelle con credenza di Taranta; Gjitonia riassunta come libero Vicinato; il Katundë tipico impianto di città aperta, accennata come un Borgo.

Se volessimo aprire su tutto lo scenario storico culturale, come non menzionare il giorno dedicato all’estate Arbëreşë, nello specifico pur se trattata diffusamente nel “discorso” di Pasquale Baffi, viene liberamente esposta come allegoria, per una strage terminata in vittoria di “Giorgio il condottiero onesto”.

Ormai non è più tempo di accogliere con sorrisi di sufficienza sin anche dalle istituzioni, tutte queste inappropriate dicerie senza senso, perché colme di vergogna culturale e sin anche svuotate delle storiche consuetudini.

E visto lo stato delle cose e di fatti avvenuti sino a ieri, urge esporre alla berlina pubblica come si faceva un tempo, lungo la Via Furcillense della Capitale Arbëreşë e, senza alcun favoritismo o distinzione di sorta, la terza volta che verranno a “Ştutare cose base”, saranno accolti come fan carnevale i giullari di corte.

È tempo che le figure quiete, senza alcun titolo culturale, guadagnato da soli sul campo, hanno compiuto, il loro ennesimo danno e, nella definizione della nuova legge 482/99 è arrivata l’ora di invitare le menti alte a riscrivere quell’equilibrio che manca per tutela le cose tangibili e intangibile, associate all’ambiente naturale, scambiato per semplice valle per mugnai matti, questi ultimi, e sono molti, per far elevare una storia mai posta in essere da nessun Arbëreşë, vantano di titoli di bottega altra, che nessuno conosce.

A tal fine, serve nell’immediato, correggere la dicitura “Lingua Albanese” che è altra cosa di “Lingua Arbëreşë” nella definizione della legge 482/99; il tema fondamentale che potrebbe rendere protagonista la minoranza dell’Italia meridionale e non i moderni assemblati idiomatici, prodotti dal mulino oltre adriatico, ben distante dall’originaria crusca Arbëreşë mai prodotta in questi paralleli.

Se ancora nessuno lo avesse notato, esiste anche l’articolo nove della Costituzione Italiana oltre al Decreto del Presidente della Repubblica, del 2 maggio 2001 n 341, Art 1, Comma 3, che sarebbe il caso di annotare, terminando una volta per tutte la malevola, inquietante deriva colturale che si protrae senza rimedio.

Certamente la legge482/99 non darà mai i frutti sperati se non si ha consapevolezza nel distinguere tra conservazione e uso del bene, contravvenendo sin anche alla Carta del Restauro di Venezia del1964, consigli condiviso da tutte le nazioni del vecchio continente e proprio quest’anno compie i sei decenni dalla sua indispensabile attuazione condivisa.

Questa ricorrenza del 2024 potrebbe essere anche occasione di convegni, incontri o dibattiti per dare spazio nei Katundë Arbëreşë alle direttive applicandole in toto, le stesse che tutelano tutti i luoghi che hanno fatto la storia dell’umo, e da ciò nasce spontanea la domanda: perché non applicarla anche per gli Arbëreşë.

Poi con figure eccelse di esperienza confermata sul campo, non per gli scritti vocabolari e temi di simili radici o pubblicazioni ignote, si potrebbe informare gli abitanti di oltre adriatico, quanta eccellenza in Regione storica diffusa degli Arbëreşë è stata posta compromessa del suo genio antico e, non carta penna e calamaio, per fare vocabolari ignoti.

Quante volte gruppi prediletti si riuniscono per inviare messaggi fumosi e, sempre i soliti quattro noti, nati infanti e senza titoli dal 1975, nel promontorio piatto descritto del Sordo.

Tuttavia molto è andato disperso, ma noi cultori liberi e non militarizzati a mo’ di piramide, come usano fare, chi non vive di ricerca, diagnosi e progetti.

Da ciò restiamo l’unica ancora di salvezza sul campo, pronta a dare sicurezza e, portare quella luce che manca al mondo degli Arbëreşë dai tempi di Baffi, i Vescovi Francesco, Demetrio e Giuseppe e poi dopo di loro Torelli, Giura e Scura.

Il primo a immaginare e i tre seguenti fratelli, aprire il collegio in Sant’Adriano, la stessa fratellanza in grado di svilupparlo e dare consistenza di cultura alla struttura:

Tutto questo sino a quando la mira culturale fu portata a buon fine, e sempre un buon fratello depositò le tre parti in lughi di fratellanza, la stessa che accompagna gli eventi di questo storico presidio di cultura fraterna da 1792 senza soluzione di continuità.

Se ancora al fiorire del 2024 si ripetono, riversamenti di aceto, come citava il prelato Eleuterio Fortino negli anni sessanta del secolo scorso, cosa c’è da aspettarsi dada quanti riferiscono promuove e palesano l’idioma delle Alpi oltre adriatico, attestandone però, la radice nel sud di clima mite ai confini con la Grecia.

Questo stato di confusione diffusa, ha generato incoerenze inarrivabili, anche se sarebbe bastato studiare, con più attenzione le vicende o l’operato di Pasquale Baffi.

 Il Sofiota di provincia Citeriore Calabrese, legato alla Principessa Carolina per Fraterno indirizzo di pensiero, cosi come alla pari regnante delle Russia, con le quali divideva le idee dei liberi pensatori per il rinnovamento Europeo.

Fu questo infatti nel 1774-5-6, non essendoci a Napoli stamperie con caratteri alfabetari greci, ad inviare i suoi editi nel nord Europa, dove furono dati alle stampe in forma come da lui voluto, rappresentando “la prima analisi comparata della lingua Arbëreşë” e, comunemente si menzionano solo gli editi e i “discorsi successori” sugli Albanesi, che non sono gli Arbëreşë, oltremodo e in più versioni parentali, dati alle stampe con la, clausola che riteneva errata quella prima edizione con errori tipografici, volutamente distrutta?

E ancora, se è attribuita la trattazione della legge agraria, ai gradi intermedi e proprietari dell’ideale repubblicano, come può uno scendere tra i manifestanti e dire di essere con loro e spartire le cose sue e dei fratelli, usurai?

Non viene da chiedersi come mai una cellula legate all’illuminismo del libero pensiero, era al comando di un forte e consolidato patrimonio e, mel contempo insegna della ribellione, in tutto, un ramo del confuso associazionismo risorgimentale.

A questo punto come non parlare della genuinità di Vincenzo Torelli da Barile di provincia lucana, il germoglio indiscusso della critica teatrale e della editoria, in specie l’Albanese d’Italia.

È stato lui a consentire per la prima volta la diffusione delle cose e ogni elemento caratteristico che distingueva noi Arbëreşë, fu lui che invento un giornalino dove i protagonisti dei racconti erano la musica e la voce del canto, un messaggio antico, che ancora nessuno studioso titolato, conosce è ha mai preso in considerazione.

Furono tatti i dibattiti, ogni volta che usciva un numero, nei locali della cultura vicino al porto di Napoli, dove si riunivano musicisti, compositori e storici della cultura, per comprendere perché il Torelli facesse trionfare in ogni episodio il canto e, nessuno allora come oggi comunemente avviene, coglieva il senso del suo messaggio, quale compilazione eccellente raffigurata dell’arte Arbëreşë.

Cosa dire della luce che in campo architettonico, dell’ingegneria della geologia e della scienza esatta, profuse o meglio inviò da Napoli l’Arbëreşë Luigi Giura di Maschito nato nel vulture Lucano e, vedere nel 2011, da chi dice essere eccellenza, restare basito e interrogarmi su chi fosse questo uomo.

Certo che l’argomento e da approfondire, ma comunque palesa lo stato culturale dove si è arrenata l’eccellenza, ma più di ogni altra cosa dà la misura, della informe culturale, costruita secondo credenze con numerose labilità.

Non sapere o avere consapevolezza di chi fosse Luigi Giura di Maschito, il luminare del fare, che non ha eguali e, ancora oggi nessuno riesce a superare, l’ingegnere e architetto esempio dell’era moderna, capace di superare i romani con le stesse tecnologie e senza nulla aggiungere o bisogno delle conquiste in campo tecnologico del tempo in cui visse.

Gli albanesi che inneggiano liberamente a paradossi culturali senza senso o emblemi mussulmani attribuiti come radice, dovrebbero affidarsi più alle eccellenze allevate e vissute negli Şëşi, per poi recarsi sui campi di tutto il territorio della Ragione storica diffusa degli Arbëreşë, a seminare meriti.

Come questo esempio della nostra stirpe ha saputo elevarsi lo deva alla genialità che avvolge gli Arbëreşë, diversamente dai quanti supini e incatenati alle dicerie del promontorio risparmiato dalle ire del Surdo e del Settimo, attendono di essere battezzati.

Le figure come il Giura sono i pochi che hanno reso possibile il modello di integrazione più solido e genuini dell’Europa meridionale, quella che poggia il piede il tacco e la caviglia nel mare mediterraneo per germogliare colori senza eguali.

Tornando alle cose fatte e rese alle disponibilità sociali dell’allora Regno di Napoli, dopo aver citato lo storico traguardo migliore del genio romano, non si può non citare il principio di collegare le terre con ponti sospesi.

L’opera di genio alto serve ad unire popoli, pensiero e cultura e quanti ancora non lo hanno compreso, dovrebbe alzarsi in piedi, quando citiamo, il ponte sospeso su catenarie a pilastri singolo realizzato dal Giura nel fiume Garigliano, primi esempio al mondo di questo genere e che ha dato avvio alla scuola per unire popoli.

Per questo l’operato degli scribi, non può approdare e confondere pietre che ricordano, con bastono che  reprimono genti, altrimenti bisogna ancora attendere il tempo; punto e a capo

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