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DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

Posted on 06 luglio 2020 by admin

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel 1975 un gruppo di studiosi dell’Associazione Internazionale per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate, si è recato in ricognizione nelle macro aree della regione storica arbëreshë alla ricerca dei centri di minoranza linguistica rilevandone i vari aspetti identitari.

L’occasione fu fondamentale per individuare previa analisi dei luoghi, un numero considerevole di nuclei urbani, i cui elementi caratteristici in forma di cultura tipica erano riconducibili alla minoranza storica arbëreshë.

A quel dato di valutazione i centri urbani, furono individuati, visto anche il poco tempo a disposizione, in numero di novanta cinque, così suddivisi: Nove in Sicilia, Cinquanta in Calabria, Sei in Basilicata, Diciannove in Puglia, Due in Campania, Uno in Abruzzo, Otto nel Molise.

Il rilevato in numero di comuni arbëreshë, del 1975, non ebbe a crescere, nonostante nuovi dipartimenti iniziarono a produrre storia, letteratura e ogni tipo di adempimento, sorvolarono sul fondamentale principio del genius loci,  favoriti oltremodo dalle leggi che dagli anni ottanta miravano alla difesa delle minoranze storiche .

Il sovrapporsi delle leggi e degli eventi produsse una sorta di anomalia numerica che invece di integrare e far crescere la consistenza numerica dei paesi, creò una sorte di “unione riservata, una sorta di borgo chiuso”, che non superava le cinque decine, il tutto stranamente proprio alla vigilia che rendeva attuativa la legge 482/99.

Il dato appare sconcertante perché, invece di aumentare di numero, per il crescente studio predisposto e proposto da molte università, il numero è stato dimezzato alla luce del solo fattore di estrazione idiomatica.  

Nonostante la presenza arbëreshë è confermata, anche in nome di Greci di Schiavoni o Slavoni, per la credenza religiosa radicata nel loro modello consuetudinario, la storia li nomina come gli addomesticatori di terre, le stesse a essere oggi il vanto della viticultura storica delle colline meridionali e dell’Italia centrale.

Più in particolare, per la loro capacità di muoversi in gruppi familiari allargati, riconosciuti come sistema autosufficiente capace di essere radicato in un qualsiasi ambito collinare e porre a regime perpetuo il trittico mediterraneo in senso generale, si continua a menzionarli e tutelarli secondo le disposizione della legge 482/99 che fa confusione perfino tra Albanesi e Arbëreshë, non citando nei suoi articoli  mai appellativo della minoranza storica italiana.

Ricerche approfondite del meridione italiano, peninsulare e insulare, alla data del maggio 2019 individuano con certezza circa il triplo dei paesi certificati, come paesi di origine arbëreshë o casali ripopolati per essere poi continuamente vissute da dinastiche che se pur hanno perso la valenza linguistica, conservano i modelli edilizi in forma urbanistica, architettonica e le consuetudini tipiche riconducibili al sociale e al regime produttivo dell’area agreste di pertinenza.

Che un centro abitato sia stato innalzato e realizzato dagli arbëreshë, non è solo legato all’espressione linguistica, la stessa che per forme di rotacismo può mutare nei secoli.

Tuttavia la minoranza storica anche in senso di regione possiede come identificativo, la metrica non intesa solamente come espressione idiomatica, ma anche in senso di consuetudini, religione e tutta la filiera di adempimenti tipici nell’insediarsi, dare spazio alla crescita edilizia, la stessa che notoriamente li rende differente dai sistemi urbani indigeni, limitrofi.

Un confronto che può essere fatto con dati storici e sociali inconfutabili, perché se le genti arbëreshë portavano con loro un tesoro identitario non scritto, è anche vero che il luogo per tutelarlo doveva rispondere a caratteristiche in grado di non compromettere quella radice solo fatta di forma idiomatica.

Non è concepibile che comunemente i paesi arbëreshë sono associati a “borghi”, quando il tempo del loro innalzamento o ripopolamento, appartiene al periodo del rinascimento e ben lontano dal buio medioevale.

I piccoli centri collinari di radice arbëreshë, oggi, li troviamo in forma di casali, castrum, civitas e un’ampia definizione di agglomerati urbani di quel meridione notoriamente caratterizzato dai bizantini, dai greci e non certo dai longobardi invasori, gli stessi abituati a rintanavano nel buio delle loro murazioni, per vivere, vita da carcerati per consuetudine.

Gli arbëreshe appartengono al periodo dei nuclei urbani aperti, sono il prototipo delle odierne luoghi senza vincoli distinzioni e classi sociali, gli stessi che la società moderna mirano a raggiungere; la stessa meta che gli arbëreshë vivono da sei secoli, in quella che si identifica regione storica diffusa arbëreshë.

Ragion per la quale ritenere che un pese arbëreshë sia legato solo a metriche di carattere linguistico vuol dire essere irriverenti verso un modello che non deve, è non può essere considerato monotematico.

Valga di esempio cosa succedeva nel 1835 a Ginestra degli Schiavi un paese notoriamente arbëreshë, oggi provincia di Benevento, già a quei tempi piegata la popolazione, da decenni alla lingua degli indigeni locali, in una nota storica del prete di estrazione latina, riferisce come gli abitanti del piccolo centro, ricordassero e santificassero alcuni appuntamenti religiosi senza attinenza con il calendario latino, ma ogni anno in date specifiche si fermavano a onorare i defunti, accendere falò o produrre manicaretti e riunirsi in conviviali manifestazioni.

Se a questo aggiungiamo il dato inconfutabile di riconoscimento rilevato in un convegno del 2017, grazie al quale sono state attestate la posizione geografica, lo sviluppo storico dal punto di vista urbanistico e architettonico l’articolazione di spazi strade e vicoli propria della casistica dei paesi arbëreshë, Ginestra degli Schiavoni ha avuto ampia certificazione che non basta perdere la consuetudine linguistica per essere riconosciuti illegittimi.

La stessa cosa si può dire di Casal di Puglia, dove notoriamente a oggi parlano la lingua arbëreshë un numero considerevole di abitanti, tuttavia non riconoscendosi negli spazi e nella distribuzione del centro antico.

Durante un convegno è stato ampiamente confermata da una ricognizione in loco e attraverso carte storiche e la toponomastica storica corrente anche in forma dei rioni kishia, Bregu, l’enigmatico Sheshi e l’insieme Katundë, con le rispettive fontane che il sito ha un’impronta tipica delle genti arbëreshë.

Se la comunità scientifica odierna si ferma all’identificativo di una popolazione storica come gli arbëreshë, solo ed esclusivamente al’intensità con cui è pronunziata una favella antica, è il caso di rivedere i progetti e magari consigliare di ritornare a sedere dietro i banchi di scuola.

Questo perché è una forma di non rispetto, verso quanti sanno fare e propongono componimenti completi, senza mai mettere da parte, il violentato e vituperato, anzi direi volutamente escluso, GENIUS LOCI ARBËRESHË.

Una minoranza storica detiene un patrimonio, colmo d’infiniti elementi caratteristici, sia in forma tangibile e sia in forma intangibile, ridurre tutto nella parlata locale come il solo emblema identificativo, offende tutte le genti che nel corso dei sei secoli di storia ha dato se stesso per tramandare l’antico modello.

Per terminare, si ritiene poco rispettoso verso i “TANTI” che hanno dato, rispetto ai “pochi” che non avendo nulla da perdere si sono nutriti di bighellone rie culturali e minare irreparabilmente uno dei quattro elementi fondativi della minoranza arbëreshë.

Si potrebbe presupporre che non sapessero, ed erano ignari del tema che calpestavano; ma se fosse vero, perché si sono prodigate a pregare che l’orticello spontaneo continuasse a dare i propri frutti, gli stessi, che  non  sanno neanche contare.

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