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ARBËRESHË!!! CË JAME PËSOMI

Posted on 23 maggio 2019 by admin

ARBËRESHË!!! CË JAME PËSOMINapoli (di Atanasio Pizzi) – A un buon osservatore non sfugge, all’arrivo della stagione estiva, cosa patiscono per colpa del barbaro quanti hanno avuto la fortuna di crescere all’interno dei “luoghi formativi dette gjitonie”.

A tal proposito è opportuno fare una premessa sul concetto di «barbaro» come altro, come «alterità» radicale; esso ha origine dai tempi delle guerre che i greci attuarono contro le popolazioni antagoniste.

Tuttavia, il concetto di «alterità» (otherness) non deve essere confuso con «razzismo» e di «razzista», in quanto, la cautela è d’obbligo, allo scopo è opportuno utilizzare termini come «etnocentrismo» per designare il mondo arbëreshë e quello non arbëreshë, a partire dal XV secolo.

Il senso non vuole innalzare muri o barriere per dividere gli individui, giacche il tema, intende sviluppare i modello secondo il quale si producono, gruppi minoritari capaci ad essere solidali per vivere rispettando il tangibile e l’intangibile di cui sono attorniati.

Esso ha una forte connotazione storica, di natura ideologica nella parallela polarizzazione che ebbe inizio tra l’ideale democratico dell’ateniese e il regime tirannico degli stati barbari.

I Greci giunsero a conoscere e valutare i gruppi etnici estranei alla propria civiltà, facendo ricadere la responsabilità della barriera a Persiani, Indiani e, a fortiori (geograficamente), i Cinesi, escludendo in questa disanima l’Egitto.

Ricostruire, da un lato, l’atteggiamento dei Greci nel loro incontro con quattro particolari civiltà (i Celti, gli Ebrei, i Romani, gli Iranici) proprio nel periodo della loro decadenza politica, e, dall’altro, le conseguenti acquisizioni culturali che si generarono sotto l’influenza della potenza romana, erede della «sapienza greca» dopo averla inizialmente combattuta.

Roma fece propri questi presupposti con delle peculiarità e secondo un processo evolutivo di adattamento di cui si deve tener conto; i Greci distinguevano se stessi dai barbari in termini di una barriera delineata in modo netto e difficile da superare; i Romani concepivano una sorta di spazio continuo lungo il quale era relativamente più semplice avanzare.

Tornando alle manifestazioni d’inizio estate che vedono sopprimere l’intangibile e il tangibile arbëreshë, sono paragonabili al concetto di «barbaro»; esse si potrebbero paragonare alla regola di Plinio, il quale le connotava tutte le cose negative al brusio sgradevole delle vespe, detto «disuguale» come tra i barbari o (fetus ipse inaequalis ut barbaris); oppure di un tipo di albero della mirra, detto quod aspectu aridior est, sordidaque ac barbara.

Gli individui non etnocentrici, nati e allevati fuori dai “recinti formativi ideali delle gjitonie” acquisiscono delle caratterizzazioni specifiche in relazione al loro apparire nell’orbita Arbëri.

Essi nascono e vivono secondo i disciplinari dei villaggi sprovvisti di fortificazioni culturali, privi di qualsiasi ideale di tutela stabile e affidabile.

Dormono sulle lodi di foglie e paglia estranea, divorando ogni tipo di carne durante le sagre, interessati soltanto alla guerra per primeggiare, senza interesse a produrre secondo l’agricoltura consuetudinaria ereditata dai propri avi, in definitiva, una vita buia, trasversale e senza aver alcuna nozione di scienza, di cultura e di arte arbëreshë.

Questo esercito di percussori, cresciuta e allevata barbara una volta formata non ha alcuna capacita per distinguere quali siano le eccellenze o disturbatori, del passato e del presente, in definitiva va formandosi un esercizio di spontaneità pura, che non trova alcuna collocazione nelle fila del disciplinare storico/consuetudinario da tutelare.

Scambiare i propri limiti artistici o i lievi solchi formativi per il seminato della regione storica è un danno che viene prodotto verso se stessi e alle generazioni che verranno, questi ultimi saranno per questo spogliati di ogni baluardo identitario a cui credere e vivranno per colpa dei barbari una vita piatta e senza orizzonti.

È lo stesso figli di Pasquale Baffi, Michele, il quale, in un suo trattato sulle diplomatiche, ammonisce a non seguire gli esempi dei romani, i quali pur di primeggiare piegavano a loro piacimento i naturali trascorsi storici, lasciando così in eredita fatti mai accaduti che comunque rimangono fissati nei corsi storici e divennero realtà.          

Questo atteggiamento, nonostante le radici storiche, ha attecchito in molti narratori arbëreshë, minando le vicende storiche della minoranza, quest’ultima per la sua solidità consuetudinaria per certi versi ha attutito gli effetti, ritenuti sopportabile sino alla fine degli anni sessanta.

Da allora in avanti, l’acculturarsi diffuso della comunità per i processi di alfabetizzazione preposti dal legislatore, ha innescato una deriva di valori riferibili alla minoranza a dir poco dannosa, se non deleteria.

Infatti, l’acquisizione di titoli accademici ha reso la regione storica, il campo in cui seminare la propria capacità di lettura e interpretazione (sotto la vigile supervisione delle nonne analfabete) tralasciando il dato di verifica e confronti, tra lettura,territorio, tempi e le emergenze ancora presenti sul territorio, ma badando solo all’ego scrittografico e i suoi futuri profitti.

Oggi è giunto il tempo di terminare, anche alla luce delle nuove risorse elargite dalla comunità europea e dallo stato italiano, queste ultime risorse, diversamente da quelle della 482/99 che minarono l’intangibile delle minoranze storiche, puntano direttamente sugli elementi tangibili, che sino ad oggi pur subendo una serie di manomissioni conservavano l’antico senso.

Per senso si vuole intendere custodire il senso dei lioghi e far identicamente riecheggiare una favela antica, oltre il fruscio di quelle meravigliose stolje, incautamente imprigionate, violentando così le aspettative delle nostre madri.

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