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GJITONIA, IERI, OGGI E DOMANI – Gjiriu te triesa……. gjitoni te zëmëra

Posted on 21 ottobre 2010 by admin

NAPOLI – (di Atanasio Pizzi)

L’origine delle genti d’Albania rimane ancora avvolta in un alone di mistero, gli stessi storici, a tutt’oggi non hanno ancora chiarito definitivamente la discendenza e l’origine di questo popolo.

Di cui si scriveva: Non che ponessero in libri alcuna legge, ma ad imitazione di Licurgo piantavano gli statuti ne’ costumi e nella disciplina per l’eternità.

La loro vita era regolata dalle leggi tramandate oralmente, di generazione in generazione per secoli e di seguito unificate dal principe Lekë Dukagjini.

Il Kanun, riportato in forma scritta dal padre francescano Shtjefën Kostantin Gjeçovsotto nel XX secolo,poi passate alle stampe nel 1933; diviso in dodici volumi in cui la cellula su cui si fonda l’organizzazione sociale della comunità è rappresentata dalla famiglia.

Essa è concepita come una piccola repubblica che esercita la sua autonomia all’interno del proprio cotile dove si affaccia il tugurio.

La famiglia, composta di due o più fratelli in coabitazione, negli spazi appena descritti, con le proprie mogli, figli e genitori: il clan, a capo del quale non sempre era insediata la persona più anziana ma il più delle volte la più carismatica, da cui dipendeva ogni cosa che potesse interessare il clan.

Gli albanesi all’interno del loro spazio, condividendo le ric­chezze agricole, pastorali, gli animali da soma e domestici, otre ad imprimere nella mente dei più giovani, sani principi morali a beneficio del gruppo familiare.

Le prime notizie sulle migrazioni albanesi in Italia, non riguardano nè profughi nè esuli ma soldati. A partire dal XV secolo quando il re di Napoli, Alfonso I d’Aragona, fece venire drappelli di mercenari dall’Albania per contrastare le rivolte dei baroni locali e per sconfiggere lo stesso Renato d’Angiò.

Agli albori del 1400 la Calabria, come la Sicilia, faceva parte del Regno di Napoli; scenari di rivolte dei feudatari contro il governo angioino; gli albanesi si interposero per fornire i loro servizi militari ora all’una ora all’altra fazione in lotta.

Alfonso d’Aragona ricorse spesso ai servizi di Demetrio Reres tra gli anni 1416 e 1442; il nobile condottiero albanese, portò con se tre gruppi di soldati, comandati oltre che da lui dai suoi due figli.

L’intervento dell’esercito albanese fu determinante ai fini dall’equilibrio politico di allora, tanto che lo stesso Reres fu nominato governatore della provincia di Reggio e molti suoi uomini, si stabilirono a nord della Calabria Ultra ed in Sicilia, ricevendo come ricompensa alcuni territori in donazione.

Nel 1461, fu Giorgio Castriota Skanderbeg, il riconosciuto eroe nazionale albanese ad impegnarsi nell’organizzare una spedizione militare per sostenere Ferrante I d’Aragona, re di Napoli.

Il Ferrante per accrescere le proprie difese contro l’esercito angioino, chiese ed ottenne l’aiuto delle eccellenti truppe del principe albanese Skanderbeg.

Nella località compresa tra Greci, Orsara di Puglia e Troia, furono teatro del più duro scontro fra i due eserciti, la dove, gli Aragonesi vinsero grazie alla caparbietà dell’esercito Albanese facendo sì che la loro azione segnasse profondamente gli assetti politico-istituzionali del regno Aragonese.

Fu comunque la morte di Scanderbeg, avvenuta a Lezha alla età di 63 anni, ad opera dei turchi, questo determinò un forte esodo dalle loro terre dei profughi albanesi, poiché fortemente perseguitato dai vincitori; e il regno di Napoli divenne il rifugio ideale per quegli esuli.

Gli albanesi che da questo momento vengono individuati come Arbëreshë, accolti a popolare zone aspre, insi­cure, insalubri e senza idonee vie di comunicazione, ma grazie alla loro esperienza agricola e pastorale seppero migliorare quei territori.

In oltre insedian­dosi in quelle terre vi trapiantarono usi e costumi del loro Paese d’origine, il che per la diversità con quelli locali, li portò a vivere isolati e ad avere solo gli essenziali contatti con le popolazioni autoctone.

Tra il 1470 e il 1530, gli arbëreshë per sfuggire alle esose gabelle imposte dai principi e dai vescovi che avevano i diritti di quelle terre, erano soliti distruggere o bruciare i loro pagliai scegliendo la vita nomade, per evitare gli esattori che periodicamente si recavano a riscuotere il dovuto.

Acquisito il diritto, di edificare e di eredità dei loro beni immobili; intorno alla seconda metà del XVI secolo, si stabilirono definitivamente abbandonando quel modo di vivere da precari.

Intorno al 1564 i rappresentanti istituzionali dei vari agglomerati urbani di etnia arbëreshë, furono ufficialmente informati dal viceré, pena cinque anni di galera, di realizzare cinte murarie a coronamento degli agglomerati urbani; solo al loro interno era concesso di circolare a cavallo o portare con se qualsiasi tipi di arma.

Però il terremoto che di li a poco interessò la valle del Crati e la carestia conseguente, fece disattendere tali disposizioni, solo in parte messe in atto dagli albanofoni.

L’abitazione era in primo luogo un rifugio, spazio addomesticato e difeso, sottratto alle in­temperie; che in seguito acquisterà la necessaria qualità edilizia.

Esse, si realizzava in base a principi consuetudinari, con tecniche e materiali naturali, stabilendosi spontaneamente un rapporto di conformità tra la fabbrica e l’ambiente.

I primi insediamenti, erano realizzati nei pressi di anfratti naturali, grotte o realizzando i cosi detti pagliai, in Arbëreshë caglive, attorno a cui si recintava uno spazio condiviso da tutta la famiglia.

Carlo Maria Occaso li descriveva così: gli Albanesi della Calabria del Nord, ovvero quelli di Calabria Citra, non conoscevano differenze di ceti e tutti raccolti in tuguri di paglia esercitavano la pastorizia.

La recinzione del cortile (Scesci), realizzata con tronchi infissi nel terreno a cadenze irregolare, questi reggevano la recinzione vera e propria realizzata con rami di robinia, che rendevano di difficile accesso l’area.

Il tugurio o il pagliaio assolveva alla funzione di deposito delle derrate alimentari, di ricovero per gli animali e da dormitorio per i componenti della famiglia.

Nella zona posteriore del tugurio o nei pressi del cortile gli arbëreshë realizzavano un area idonea a recapitare quello che oggi si identifica in una discarica (copëshëti).

I nuclei familiari così organizzati si posizionavano uno nei pressi dell’altro, a ridosso dei tracciati viari collinari.

I tracciati seguivano quella linea ideale mai posta al di sotto di 350m., sul livello del mare, preservandosi dalle punture delle anofele particolarmente efficaci nelle zone poste a valle, lungo le pianure e le coste.

Dalla strada grande, arteria di comunicazione secondaria, viottoli ad uso esclusivo dei vari gruppi familiari, collegavano i scesci dove si svolgeva la loro vita sociale.

Secondo la posizione che le famiglie occupavano rispetto a questi tracciati, si identificavano in: la superiore “dregliarti“, quella inferiore “dreshjimi“, tale che avessero il controllo totale sulla via di comunicazione.

Quando le disponibilità economiche dei gruppi familiari e le capitolazioni nei confronti dei rappresentanti istituzionali, diedero più certezze agli arbëreshë, riconoscendo ad essi gli stessi diritti delle popolazioni autoctone, il tugurio venne sostituito dal catoio, (Katoki), modulo edilizio realizzato in muratura, mentre il cortile e l’area di recapito rimasero concettualmente le stesse.

I rapporti di scambio pur se limitati, hanno sempre creato motivo di socializzazione tra le popolazioni arbëreshë e quelle autoctone; è in questa fase che gli albanofoni cominciarono a cambiare i loro modello di vita; incentrato sullo spazio del cortile (scesci), sul cui affaccio si apprestavano ad aggregare il modulo edilizio: il Katoio.

Le difficoltà logistiche, consentivano agli arbëreshë di realizzare i modelli edilizi, incidendo il meno possibile sull’orografia del terreno, oltre che da antichi legami familiari, producendo così un’apparente irrazionale schema.

Esso è facilmente riconoscibile in due tipologie urbanistiche, ad andamento lineare o complesso.

Questo rappresenta un momento importante della comunità albanofona, infatti, è in questa fase che si tracciano le basi per quei modelli urbanistico sociale che vene identificato nella Gjitonia.

Essa non è altro che l’antico cortile, su cui non affaccia più l’unico tugurio ma una serie di Katoi, residenze delle famiglie, non più intese come descritte nel Kanun; ma formata dal marito, la moglie, i figli e i genitori, materni o paterni; pur sempre mantenendo i fraterni legami di sangue con i componenti la famiglia del antico gruppo.

Alla cui guida rimaneva sempre la persona più carismatica, che attribuiva alla gjitonia il proprio nome, facilitando ancor oggi, a noi arbëreshë a individuare quei storici e ameni siti.

1/6 Continua….

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