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INSIEME SIAMO DI PIÙ

INSIEME SIAMO DI PIÙ

Posted on 02 agosto 2017 by admin

insieme siamo di piuNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Quando E. Fabbricatore agli albori degli anni settanta del secolo scorso, rileggendo le frasi storiche di cui ne faceva un vanto, suscito un certo interesse quando nel corso di una riunione con zoti G. Capparelli, brandi pubblicamente questa frase, con voce cupa tremolate; il suo modo tipico di esporsi.

Da allora il raffinato prelato, ne fece buon uso sino a renderla partecipata e condivisa da tutte le persone che hanno avuto modo di apprezzare e condividere molte delle sue scelte immateriali, (per quelle materiali avremo modo di discutere in altri termini).

Certamente essere di più facilità nel perseguire un traguardi, tuttavia, la solidità morale e fisica degli elementi che compongono l’insieme, legati da simili ideali, non garantisce l’omogeneità richiesta all’insieme, motivo per il quale lungo l’itinerario tutto deteriora e si disgrega.

Motivo per il quale non basta essere di più e avere un solido progetto da perseguire, perché se uno o più elementi dell’insieme risultano essere deteriorati, è la macchina che cambia direzione e produce danno.

Dal canto mio sono anni che analizzo studio e sottopongo a verifica l’insieme della Regione storica Arbëreshë, nonostante abbia cercato di individuare i sotto sistemi omogenei, manca sempre un elemento nella valorizzazione dei quattro pilastri portanti dell’arberia.

Esistono: regole ben chiare da seguire; uomini e donne di cultura con grandi capacità interpretative eccellenti; prelati integerrimi per la migliore lettura religiosa; sono questi che da secoli guidano e conducono l’arberia attraverso i secoli e con grande stupore va rilevato, che l’elemento mancante è quello istituzionale; “la politica!”.

Rileggendo gli eventi storici dagli anni sessanta a oggi, la caratterizzazione linguistica, canora, consuetudinaria e religiosa della R.s.A. è stata mantenuta viva dall’opera di cultori; uomini e donne, sia civili che religiose, nell’assenza totale delle istituzioni.

Queste ultime quando sono intervenute, l’hanno fatto in ritardo o quando i problemi erano già stati risolti da cultori o appassionati della propria identità.

Tutte le volte che sono state chiamate in causa, le istituzioni si sono presentate addobbate per prendersi i meriti di vicende e sacrifici che ancora oggi continuano a non comprendere.

Come non apprezzare gli studi e le partecipazioni per la caratterizzazione dei tanti E. Fabbricatore o le vicende che hanno dovuto affrontare gli instancabili Zoti Capparelli; al fine di lasciare segni tra i più raffinati della R.s.A.

Si potrebbe continuare a raccontare vicende e aneddoti all’infinito tuttavia sfido chiunque a riportare un episodio dove un politico abbia aggiunto un granello di sabbia che avesse coerenza con la storica consuetudine arbëreshë.

È vero che “ INSIEME SIAMO DI PIÙ” ma se sappiamo, dove andare, è meglio!

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SËN SOFIA DIJE E SOTH (30 Luglio 1899 –  soth)

SËN SOFIA DIJE E SOTH (30 Luglio 1899 – soth)

Posted on 25 giugno 2017 by admin

SËN SOFIA DIJE E SOTH2NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Sino agli anni sessanta del secolo scorso tutto ha avuto un senso crescente per il piccolo borgo albanese della Sila greca, tuttavia, per ovvie ragioni, la parabola ascensionale da più di cinque decenni procede imperterrita alla spogliazione culturale del paese più rappresentativo di tutta la Regione storica Arbëreshë.

Il 30 Luglio 1899 la sala dove si era riunita la comunità sofiota per onorare il compianto letterato Pasquale Baffi risultava essere affollatissima; parteciparono il Sindaco sig. Vincenzo Bugliari con la Giunta ed il Consiglio, il Capitano Bugliari, il Deputalo provinciale sig. Vin­cenzo Fasanella, i professori G.C. Bugliari, Becci e Pizzi e le scuole elementari maschili e femminili con il rispettivo corpo docente.

Occasione in cui nessuna delle persone illustri e di cultura che facevano parte della comunità si astenne dal partecipare.

Aprì il discorso, un illustre oratore che con frase elegante e co­lorala, inizio a discorrere della vita del Baffi: descrive commosso i supremi momenti e finì con il raccomandare ai cittadini di avere sempre un culto verso la memoria del compianto Pasquale Baffi e della cultura arbëreshë in generale, applausi prolungati accol­sero le ultime parole dell’oratore.

Sor­se poi a parlare il sig. Vincenzo Fasanella, i professori Giusep­pe Becci e G. C. Bugliari, seguirono l’esattore sig. Giuseppe Becci e il giovane Domenico Bellizzi, chiuse con tre sonetti di squisita fattura, il prof. Vincenzo Pizzi.

La cerimonia si chiuse con calorosi applausi, dopo di che il Sindaco ringra­ziò gli interventi promettendo che l’un­dici novembre prossimo, ricorrendo il centenario della decapitazione del Baffi, il Municipio darà maggiore solennità alla festa patriottica con dedicare all’illustre estinto una lapide che verrà collocata sulla facciata del Municipio.

Questo è quanto organizzava l’Amministrazione Comunale, un secolo addietro per ricordare l’unico intellettuale di tutta l’arberia, grazie al quale, la comunità sofiota assunse il ruolo di capitale della R.s.A.

L’intellettuale P. B., l’unico arbëreshë ad aver compreso il valore dell’idioma non scritto, per queste non si adoperò mai per scriverlo; lo stesso rituale che sino agli inizi degli anni sessanta con Bugliari, Capparelli e Miracco, ancora risultava essere intatto.

Negli ultimi cinque decenni tuttavia è stato deturpato a dismisura, in quanto, posto nelle disposizioni di letirë privi di ogni forma di cultura e garbo idoneo a tutelare “il rarissimo cerimoniale arbëreshë”.

La manchevolezza ha trasformato le ricorrenze, gli appuntamenti e qualsiasi sorta di occasione istituzionale, che con orgoglio si sarebbero potuti depositare negli annali della storia sofiota, in allegorie senza alcun valore.

I vigili urbani nelle manifestazioni istituzionali sono stati sempre presento e le immagini storiche confermano quanto detto; Gennaro Pizzi, poi in seguito rispettivamente, Giuseppe Marchiano, Cesare Cardamone e il figlio di quest’ultimo Francesca, non disertarono mai assieme a sindaco e assessori una manifestazione in cui il buon nome del paese doveva apparire; mai le istituzioni civili religiosi e militari, del paese si sono presentate in momenti istituzionali privi del gonfalone, la bandiera.

Le istituzioni tutte erano sempre in prima linea e seguivano gli emblemi, poi venivano appresso, le persone che credevano in quel momento di rappresentanza cittadina.

I partecipanti poteva essere tutta la popolazione, pochi o nessuno, tuttavia a mancare non erano mai e poi mai le vesti e le figure istituzionali del “ rarissimo cerimoniale arbëreshë”., co vigili urbani, bandiera italiana è gonfalone, senza di esse diventava una mera festa di carnevale, senza senso.

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ANTONIO CAPUTO,ORIGINARIO DEL CENTRO ARBERESHE, DI GINESTRA

ANTONIO CAPUTO,ORIGINARIO DEL CENTRO ARBERESHE, DI GINESTRA

Posted on 27 gennaio 2017 by admin

Antonio Caputo a dxGINESTRA (di Lorenzo Zolfo) – La notizia di una nomina importante, quale presidente del comitato “Salviamo la Costituzione del Piemonte e della Valle D’Aosta” del dott. Antonio Caputo, originario di Ginestra, paese posto alle falde del Vulture, di poco più di 700 abitanti, è subito rimbalzato come un tam-tam nel piccolo centro arbëreshë. Nato a Ginestra il 12.10.1949,Antonio Caputo, partito da piccolo,è diventato torinese di adozione.

Maturità classica presso il liceo D’Azeglio e laurea con lode in Giurisprudenza, all’Università di Torino, avendo come relatore Norberto Bobbio.

Avvocato di cassazione, abilitato all’esercizio professionale presso le Supreme Magistrature. Presidente coordinatore della Federazione italiana dei Circoli di “Giustizia e Libertà”.  Componente del Consiglio direttivo e cofondatore del Comitato nazionale per il no nel referendum costituzionale presieduto da Alessandro Pace è stato pretore onorario a Torino, giudice presso la Commissione tributaria regionale del Piemonte e Direttore dell’Ufficio del Massimario della Commissione. Ha ricoperto la carica di difensore civico del Piemonte fino allo scorso 2015. Ha proposto il ricorso contro l’Italicum avanti il Tribunale di Torino sul quale si è pronunciato la Corte costituzionale proprio oggi 25 gennaio. Avvicinato ha riferito: “ grazie a questa azione giudiziaria promossa in 22 tribunali, tra questi anche Torino e Potenza,la corte costituzionale è intervenuta, dichiarando illegittima la legge elettorale, la cosiddetta “Italicum”. E’ stata una grande vittoria che consente agli italiani di andare a votare con le regole democratiche”.

A Ginestra, vive Antonio Caputo, classe ’35, un nipote del padre Nicola, ultraottantenne, alla saputa di questa importante nomina del parente omonimo Antonio, ha detto: “ Antonio, nato da Pina e Nicola, fratello di mio padre, Mauro, ha vissuto a Ginestra solo una decina di anni, perché il padre, Nicola, lavorava alla Prefettura di Potenza, prima che lui nascesse. Nel ’60 ebbe il trasferimento in Piemonte, quale capo-gabinetto delle Prefetture italiane e se ne andò con tutta la famiglia. Nicola prima di lasciare Ginestra, fu inviato in guerra e fatto prigioniero in Germania, grazie agli americani, che hanno liberato l’Italia dal regime fascista,riacquistò la libertà! Antonio nei pochi anni che è stato a Ginestra, amava andare in campagna, nei terreni di proprietà della famiglia, la masseria “Caggiano”e con mio padre, Mauro, faceva lunghe passeggiate a cavallo. Già allora dimostrava di possedere scaltrezza e destrezza, due qualità che gli hanno fatto compagnia in seguito. Antonio, ritornava a Ginestra, quando sposò mio fratello Michele, gli ha fatto da testimone, era appena diventato maggiorenne. Fino a 20 anni fa aveva un’abitazione a Potenza, al rione Santa Maria, alla morte del padre, Nicola, l’ha venduta. Sono contento che abbia fatto tanto strada, frutto di sacrifici”. Antonio Caputo, che parla bene l’arbëreshë, nel 2015, insieme al Prefetto di Torino, è stato ospite a Chieri ( To) dell’associazione culturale “Vatrarbereshe”, che ogni anno promuove un concorso di poesie in lingua arbëreshë,presieduto da Vincenzo Cucci, originario di Maschito, che ha avuto modo di conoscerlo ed apprezzare le sue doti di cultore della lingua arbëreshë. Anche dal Vulture la   Rivista Webzine ” Basilicata Arbereshe”, con sede unica regionale in Barile (Piazzetta Skanderbeg .5) , tramite il Direttore-Fondatore Prof. Donato M. Mazzeo , referente LEM Italia, ha espresso alcune considerazioni in merito : “Sulla scia del grande Giurista Costantino MORTATI (di Civita-Cs) uno dei Padri della Costituzione Repubblicana, l’Arberia tutta è orgogliosa del ruolo di notevole prestigio, esercitato, dall’Avv. Antonio CAPUTO (originario di Ginestra) nell’ambito di funzioni importanti legislative. Nella nuova funzione legislativa , dopo essere stato eccellente “Difensore Civico” in Regione Piemonte. Ad maiora dunque!”.

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ORIGINE E SVILUPPO DELLE COMUNITÀ ARBËRESHË

ORIGINE E SVILUPPO DELLE COMUNITÀ ARBËRESHË

Posted on 11 dicembre 2016 by admin

irigine-e-sviluppo-dei-paesi-arberesheNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Approfondire lo studio degli insediamenti Arbëreshë nell’Italia meridionale aiuta a seguire un itinerario  più coerente per comprendere la comuni­tà e la sua storia.

Particolarmente interessante appare, l’origine del nome “Arbëreshë”, che giustifica il legame e l’ap­partenenza  all’etnia albanese.

L’origine del termine, corrisponde all’antico modo di appellare una delle province  allocata nel territorio dell’odierna Albania, e lo “Schipetare” vuole indicare un  popolo o comunità linguistica d’Albania inglobata  all’impero ottomano .

Per questo motivo l’appellativo “Arbëreshë” ha lasciato il posto a «Shqiperia», nel mentre i conservatori albanesi emigrati in Italia, legati alla vecchia tradizione hanno  portato con loro il nome  di origine: Arbëreshë (Arbresh)  con il quale hanno continuato a designarsi .

Nel loro nuovo paese  ricevettero un certo numero di apellativi: Greci, Albanesi, Schiavoni, Gjegj, Epiroti.

Essi  tutelarono nei parallelismi territoriali ritrovati, lingua, metrica del canto, consuetudine e il rito religioso, questi sono stati i due grandi ele­menti di distinzione che li resero stranieri agli occhi degli italiani.

Erroneamente è stato loro conferito il titolo di Greci e Italo-Greci a causa della liturgica  e  del fatto che non sempre la popolazione del circondario sapeva a quale gruppo appartenessero.

Alcune circostanze storiche hanno contribuito alla nascita di un «Albania» Italica. Nell’antichità all’età del ferro le stirpi illire navigavano lungo le coste dell’Adriatico avendo modo di scambiare  e misurarsi con le popolazioni delle terre vicine tra i quali  Mesapi e gl’Iapigi.

Dopo la conquista romana e la successiva definizione della provincia Illirica, così anche dopo la divisione dell’impero romano in impero d’occidente ed impero d’oriente, l’Albania del nord ebbe modo di attecchire maggiormente con Venezia, diversamente dagli Stati Pontifici e dell’Italia meridionale, che allargarono i rapporti con l’Albania del sud, passata sotto il dominio bizantino,  d’Oriente.

Il fenomeno da nord a sud e viceversa ha creato delle onde migratorie prima all’interno dell’Albania e poi verso le altre nazioni riconosciute come ambiti ambientali paralleli.

Di questi fenomeni migratori interni, poi verso i territori veneti, dello stato pontificio e del regno di Napoli purtroppo esiste poca documentazione, ma nonostante ciò le dinamiche prodotte  fanno presuppore quanto realmente è accaduto.

A partire dal XV fino al XVIIl secolo a seguito delle inquietudini interne si verificano sistematici spostamenti di po­polazioni, dall’Albania verso l’Italia meridionale. Popola­zioni arbéreshe che lungi dal fondersi con la popolazione locale, hanno conservato, quasi esaltato, l’entità etilica originale; fieri della propria origine che ci e pervenuta al di la dei secoli sotto forme diver­se e significative espressioni: vita quotidiana, espressioni religiose ed artistiche, tradi­zioni orali e letterali, idee e concetti dell’appartenenza ad una nazione, sentimenti dell’ unità de’ «’gjaku : shërpri- shur»

La scelta dell’Italia del sud si è imposta per diverse ragio­ni; in primo luogo per la sua situazione geografica e la prossimità al clima mediterra­neo delle terre montagnose;  per i legami economici e commerciali che favoriva l’Adriatico,  asse primordiale di cominivazione negli scambi occidente-orriente, infine e soprattutto per le circostanze imposte dalle esigenze politiche, religiose, militari, quanto alla personalità di Skanderbeg.

È attraverso queste circostanze storiche che si distacca la personalità di questo capo albanese, Giorgio Castriota Skanderbeg, il quale, ancor prima della caduta dì Costan­tinopoli e di fronte alla pene­trazione musulmana e all’im­minente invasione dei Turchi, cerca di entrare in contatto col papato e con i sovrani na­poletani.

Nel 1461 intrapren­de una spedizione per aiutare Alfonso V d’Aragona, minac­ciato dagli Angioini, libera i posti di Trani e di Barletta e in seguito rafforza la dinastia Aragonese, ricevebdo per questo come ricompensa le terre nelle Puglie.

L’invasione dell’Arbëria da parte dei Turchi nel XV sec. è la ragione per la quale costrinse la popolazione albanese che gia aveva subito un rimescolamento interno a migrare e trovare modelli territoriali paralleli a quelli della terra di origine in Italia meridionale, e in Sicilia.

Si possono conoscere in modo sufficientemente esauriente le fondazioni di un gran numero di comunità e la via che seguirono per giungere nei siti di destinazione.

Risalire alle date di imbarco in Albania e di sbarco nelle terre del Regno di Napoli è difficile in quanto era facile rimbarcarsi per brindisi e dopo raggiunte le coste dello jonio discendere la costa per poi risalire le colline e ritrovare simili parallelismi territoriali. I documenti che riferi­scono i fatti sull’esodo alba­nese non danno molte infor­mazioni; riguardo al modo di transito di queste popolazioni si sa che Venezia la cui politi­ca oscillava in funzione dei propri interessi, come pure gli Stati a nord dell’Albania, non permettevano il diritto di pas­saggio e ancor meno l’instal­lazione di Colonie nel loro territorio, motivo per il quale non rimaneva che transito attraverso il mare.

Le migrazioni del 1470 a seguito della morte di Scanderbeg assieme a quella del 1532 da Corone e Morea, popolate prevalentemente da albanesi, oggi inclusa nella Grecia, sono state le due più caratterizzanti le popolazioni arbëreshë che oggi preoccupano i territori meridionali conservando usi e costumi.

D’al­tronde non è da escludersi che una parte di questi albanesi siano originari del Nord e centro Albania, scesi in Epiro in seguito a difficoltà incon­trate con gli slavi e a causa dell’arruolamento nell’arma­te estradiate, infatti dopo la caduta di Scutari sono segnalati alcu­ni gruppi di emigrati che pro­venivano probabilmente da questa città o dai suoi dintorni.

La maggior parte delle emigrazioni riguardano le regioni dell’Alba­nia del Sud, regioni mon­tagnose rifugio e asili favore­voli nella resistenza e hanno permesso a que­ste valorosi di rimanere più a lungo ed emigrare più tardi rispetto a quelli delle pianu­re.

L’onomastica, le differenze somatiche, la fonetica grammaticale delle diverse parlate, testimoniano la diversa provenienza migratoria e la loro eterogeneità.

L’antroponimia evidenzia l’orientamento delle stirpi provenienti dal Nord e dal Sud dall’Albania , la discendenza delle quali si può trovare in Italia meridionale; avere una certa sensibilità relativamente alle trasformazione avvenuta nelle macroaree di accoglienza, come ad esempio alcuni cognomi hanno acquisito un lessico tale che la propria origine risulta defigurata.

D’altra parte i ca­pitoli, quando esistono, con­tengono documenti preziosi che ci danno la possibilità di conoscere la data di fondazio­ne della comunità arbëreshë, anche se si ritiene che i capitoli siano stati contratti solo dopo l’arrivo degli albanesi con prassi replicate in cui si sostituivano ogni volta solo i luoghi di destinazione.

Gli atti trascritti con il feudatario e alcuni capi rappresentanti i gruppi degli esuli rendono ancora molto più difficile la determinazione della provenienza dall’Albania.

Gli atti capitola­ri riferiscono quindi delle condi­zioni di vita degli esuli escludendo un ritorno in tempi brevi, lasciando poche speranze speranza di un pronto ritorno nella Madre Patria.

Le loro clausole divulgano informazioni sul modo di vivere: habitat, oneri feudali, tasse, diritti e soprattutto doveri dei nuovi arrivati.

Nonostante i sovrani accor­dassero privilegi, i viceré domi­nati da orgogliose ambizioni, non si preoccuparono sempre di ricordare e mantenere gli antichi diritti verso i sudditi arbëreshë.

I baroni, i vescovi, facevano pesare la loro oppressione tanto più che gli albanesi si di­mostravano a volte ribelli nel­la fierezza della loro cultura.

Nella cartina sono messe in evidenza: le comunità iniziali, le comunità albanofone, “le comunità di tradizione alba­nese (riti religiosi, usi, consuetudini e lingua comune), tra queste per la non compatibilità caratteriale diedero avvio ad ulteriori frammentazioni e in alcuni accomunamenti.

La scelta dei luoghi in cui si insediarono le popolazioni arbëreshë è stata un connubio tra necessità degli ospitanti e quelle dei profughi, scelte po­litiche dei sovrani spagnoli spinti dalla loro ricono­scenza ma anche dalle necessi­tà che viveva il meridione.

La presenza di abba­zie bizantine o di presidi comunque religiosi garantiva salubrità e la garaznia di ritrovare gli stessi parallelismi territoriali abbandonati.

La di­scendenza di Skanderbeg e le alleanze matrimoniali stabi­lite con principi del luogo proprietari di numerosi feudi, si possono considerare invece solo una leggenda storica, infatti se si esclude la principessa irene andata in sposa a Pietro Antonio Sanseverino, gia marito di sua zia, le altre discendenze vivevano una intensa vita di corte che impegnava a tempo pieno facendo dimenticare i problemi dei poveri esuli sparsi nei territorio meridionali.

Rari sono gli Arbëreshë che si impadroni­rono dei terreni incolti lasciati a loro disposizione, in quanto furono loro concessi luoghi incolti e da rassodare il che li rese praticamente autonomi, isolandoli in modo che non potes­sero riunirsi e costituire così una forza pericolosa, proi­bendo loro sino al 1535 persino di costruire case in muratura.

Le terre e i casali affidati agli arbëreshë, per questo, si presentavano incolte impervie o abbandonate o de­vastate dalle guerre, carestie o distrutte da calamità naturali.

I signori locali ap­profitteranno di questi esuli per affidarono terre incolte con obbligo di una quota sulla produzione procedendo in questo modo alla valorizza­zione del loro feudo.

Gli storici suddividono in sette il numero delle principali emigrazioni situandole tra il 1448-1825 ma flusso latente non si è mai interrotto e continua ancora anche in età moderna.

Agli inizi del XV erano essenzialmente formate da truppe di soldati a disposizione dei principi locali, l’ ar­mata doveva difendere la Sicilia contro le incursioni angioine e dopo i successi militari, ebbero il permesso di installarsi a Contessa Entellina, Mezzojuso Palazzo Adriano.

Lo stesso contingente rimasto in Calabria fondò i paesi della provincia di Catanzaro, tra i quali Caraffa, S. Nicola dell’Alto e Carfizzi Pallagorio.

Le migrazioni successive ebbero come protagonista Skanderbeg nel 1461. Alcuni di questi soldati fecero venire la loro famiglia e rima­sero nei feudi dati al capo al­banese tra il 1461-1467, nelle Provincie di Foggia, Campo­basso e Lecce.

Ma le migrazioni più consistenti si ebbero solo in conseguenza della morte del Castriota, avendo i picchi più elevati tra il 14681 e il1532 suddividersi in due ondate: nel dopo la mor­te di Skanderbeg la grande corrente migratoria fece nascere le co­munità di Lucania, Barile nel 1477, in Calabria citeriore, Santa Sofia, Sant’Adriano, Vaccarizzo, San Cosmo, San Giorgio, Frascineto, Ejanina, Civita, Acquaformosa, S. Benedetto Ullano, Piataci. S. Basile ed altri centri della stessa etnia.

La migrazione nota come della religione e dei nobili(?) Morea e di Corone ebbe luogo nel 1534 sotto l’imperatore Carlo V e corri­sponde ad un esodo delle po­polazioni delle città di Coro­ne, Modone, Nauplia, cadute nella mani dei Turchi.

Gli esuli in questo caso vennero salvati dalle navi di Andrea Doria, genovese, per intercessione del re Carlo V, che aveva messo a loro disposizione con le sue numerose galere con il viceré delle due Sicilie Don Pedro di Toledo.

Questa emigrazione andò a caratterizzare quelle comunità già in via di insediamento e che portarono in dote il rito religioso greco bizantino.

Altre migrazioni si sono susseguite nel tempo ma le caratterizzazioni territoriali erano ormai in via di completamento e da adesso in poi ha inizio la vera storia di queste popolazioni

La storia e lo sviluppo di queste Comunità Albanesi at­traverso i secoli sono stretta­mente legate alla posizione geografica, al pittoresco rilie­vo di queste regioni, difficil­mente accessibili, in cui sono impiantati questi villaggi; le­gate pure ai contesto religioso e socio-economico del sistema feudale e dalla politica dell’Italia.

La geografia ha avuto co­me conseguenza di portare un contributo positivo per ciò che riguarda il mantenimento della Tradizione Arbëreshë, lasciando queste popolazioni sino alla salita al trono di Carlo terzo relegati al ruolo di ottimi contadini rimanendo sino alla prima meta del XVIII secolo lontani dallo sviluppo economico e culturale.

Il rito orientale bizantino è stato un elemento di distinzio­ne per tutta la comunità arbëreshë. Da tutti, credenti o no, è vissuto e percepito come una componente nazionale, parte integrante del patrimo­nio albanese.

Il passaggio for­zato al rito latino, non ha avuto co­me conseguenza, nella mag­gior parte dei casi, in quanto il codice linguistico e i modello consuetudinari sono stati sempre sufficienti ad unire e tenere vivo i valori antichi di queste popolazioni, che pur se lentamente intergrate avevano come codice il ricordo della patria d’origine.

Il crearsi dell’Istituzione religiosa di rito orientale a San Benedetto Ullano pur se considerata un’esile fiammella, ha dato un contributo alla cresci­ta e allo sviluppo arbëreshë si dal punto di vista dell’identità linguistica ma mettendo in luce le qualità culturali e scientifiche.

Le istituzioni volute furono il Collegio Corsini, a San Benedetto Ullano e il Seminario di Palermo, fondati per volere del Papa.

I presidi di formazione, clericale e laico, hanno dato ai giovani arbëreshë la possibilità di ac­quisire una formazione tanto umana, religiosa, quanto scientifica e patriottica.

Nu­merosi furono i giovani del Collegio Corsini che per l’impegno politico religioso di Pasquale Baffi e Mons. Francesco Bugliari che a fine settecento fecero trasferito a S. Adriano, dove la popolazione scolastica ebbe modo di crescere e avere una formazione politica religiosa e culturale di altissimo spessore. Nu­merosi furono i giovani del I Collegio S. Adriano che par­teciparono con zelo al Risorgimento, lanciandosi con un coraggio incrollabile contro l’oppressione del potere feudale degli spagnoli per acqui­stare la liberazione sociale e politica dell’Italia.

I riti del ciclo della vita umana, il calendario Liturgi­co Bizantino come tutti gli usi e costumi che hanno fatto parte della vita degli Arbëreshë, hanno lasciato la loro im­pronta nella fisionomia e nella personalità di questa comu­nità.

Continuare a ritenere che gli arbëreshë siano esclusivamente un popolo che parla una favela diversa, è offensivo e poco dignitoso, in quanto, i contenitori fisici ovvero ,le architetture, i riti e le usanze che ritroviamo ancora oggi presso gli Albanesi in maniera diffusa, testimo­nia in modo univoco l’unità culturale del popolo albanese tutto, senza distinzioni geografiche o meridionalismi culturali che non hanno alcuna fondatezza e ne senso linguistico.

Liberamente tratto da “Origine e sviluppo delle comunità di Albania in Italia”

di Licia Conti e Odette Marquet

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LE DELOCALIZZAZIONI NEL CORSO DELLA STORIA

LE DELOCALIZZAZIONI NEL CORSO DELLA STORIA

Posted on 27 settembre 2016 by admin

san-leucioNapoli (di Atanasio Pizzi) – I “centri antichi italiani” si distinguono, per l’operato dei ricercatori storici, in due categorie: qualitativi e quantitativi, questi ultimi per le particolari esigenze di realizzare “ambiti costruiti condivisi” sono stati, sulla base di esigenze economiche culturali legate alla gestione e controllo del territorio agreste, realizzati nei pressi di complessi monastici, pievi di campagna o chiese.

Le manovalanze che realizzarono gli elevati murari e sia gli orizzontamenti, non avevano alcuna formazione nell’arte dell’edificare e sono frutto d’improvvisazioni strutturali, che sfidano i principi delle scienze delle costruzioni.

Il dato, sino a oggi è stato pacificamente ignorato induce a ritenere i centri antichi, particolarmente vulnerabili agli effetti di terremoti, frane e non ultimo in ordine di pericolosità, “gli incontrollati abbellimenti secondo l’antica tradizione dell’improvvisare”.

Nella storia che illustra questa caratteristica geologica e costruttiva del territorio meridionale, racconta che quando gli effetti naturali si manifestano, gli scenari che si presentano sconvolgono i soccorritori, i quali hanno come prima reazione l’abbandonare il sito da parte della collettività insediate e di quanti, ne hanno responsabilità politica/tecnica.

Il tempo e la saggezza dell’uomo, dopo la prima reazione fatta di impeto, attendono prima come evolvono o si stabilizzano i meccanismi per realizzare la migliore strategia per il ripristino dello stato con tecnologie e norme più moderne; tuttavia sono diversi gli episodi dell’offerta delocativache si configurava più come un miraggio invece che come possibilità di perseguire un risultato soddisfacente e preferisce la delocalizzare“tout court” dei residenti.

Ogni delocalizzazione, pur consentendo la messa in sicurezza “fisica” dei residenti, comporta però la loro separazione da quanto”intangibile” era presente nell’insediamento.

In molteplici, anche in recenti, circostanze in tal senso si è ricorso a “espedienti” volti ad invogliare i residenti ad allontanarsi dal loro centro di origine, per accumunarli sotto ideali che esulano da ogni ragionevole principio di una società moderna come dovrebbe essere la nostra.

Gli effetti negativi di tali metodi di separazione o unione forzata si ritrovano ad esempio a San Leucio nel casertano, Filadelfia nel vibonese, le Mortelle nel materano e Cavallerizzo nel cosentino.

Un bagaglio di conoscenza storico-culturale in tale senso vuole informare e far comprendere gli espedienti che esulano da ogni ragionevole posizione odierna a indurre la popolazione ad accettare il protocollo, che pretende di impiantare o generare altrove elementi fisici del centro storico originario o generare tessuti culturali e sociali idealistici tra gli abitanti.

San Leucio nel Casertano

Nelle intenzioni del Governo borbonico di fine Settecento, le cosiddette scienze severe fossero ancona un’idea astratta, se non apertamente osteggiata, trova riscontro nel 1801 con la nomina a primo direttore del Reale Museo Mineralogico di Antonio Planelli da Bitonto, singolare figura di eclettico, passata finora inosservata.

Personaggio di Corte e mas­sone, Planelli è ricordato nelle biografie come cava­liere Gerosolimitano e dopo il 1775 monaco di Montecassino.

Intellettuale non di primo piano nella lista degli illuministi napoletani ebbe tuttavia una certa influenza nel ristretto entourage del primo Ferdi­nando, il Planelli ebbe co­munque la capacità intellettuale di incardinare le sue idee moderniste e di spin­gersi fino alla sperimentazione delle utopie.

Convinto sperimentatore della mac­china umana si coglie senza perifrasi nel capitolo del volume pedagogico in cui tratta dello studio dell’uomo e delle discipline egli definisce antropo­logiche, dove infatti aggiunge: Ciò che è utile in ogni altra materia, nelle discipline antropologiche è necessario.

Lo studio dell’Uomo non può farsi che sperimentando.

La manifattura serica di San Leucio infatti non fu solo una fabbrica moderna, tecnologi­camente avanzata ed in grado di produrre effetti du­raturi nel tempo, fu anche, nel suo primo decenni, una straordinaria utopia, come ap­pare fin troppo evidente dai contenuti del Codice ferdinandeo che escludevano, nel circuito murato della colonia, tutte le altre leggi del Regno.

I presuppo­sti culturali furono chiaramente le idee illuministiche sulla fratellanza e nelle teorie del Rousseau sul mito del buon selvaggio: tutti gli uomini sono buoni all’origine, ma sono poi corrotti dall’ambiente e dalla lotta quotidiana per l’esistenza.

Affermazione affa­scinante e mai dimostrata. Perché non farlo con gli stru­menti della scienza?

Ed ecco che un certo numero di artigiani, noti e probi e di nuclei familiari accuratamente selezionati, vengono scelti per l’esperimento e relegati fra le mura della collina di San Leucio a formare una colonia autonoma, retta da un Codice di leggi morali, come nella Repubblica di Platone.

Ai privilegiati fu risparmiata la lotta per l’esistenza, pro­tetti dal Sovrano ed esentati dal foro baronale, ottennero senza sforzo casa, lavoro ed assistenza sociale.

Non solo, ma sulla scia delle esperienze del sensismo e del materia­lismo inglese, si scelse per loro un ambiente naturale par­ticolarmente ameno, con residenze comode ed agiate ed un lavoro manuale privo di particolari sforzi fisici.

Unico dovere per tanto benessere l’ottemperanza quoti­diana alle regole morali e comportamentali trascritte nel Codice, la colonia avrebbe così procreato nel tempo più generazioni d’individui eticamente selezionati, grati al Sovrano e ti­morosi di Dio e delle leggi, poi una città (Ferdinandopoli), infine una Nazione, dimostrando così la bontà delle teorie e l’infallibilità della scienza.

Da ciò l’inconsistenza e la marcata utopia dell’esperimento, conclusosi infatti con la Repubblica Partenopea ed il Decennio francese, quando l’ingrata colonia pianterà, non senza motivo, l’albero della libertà.

Fine Prima Parte ( fërnoi i para Pies)

Pranà i dyta  Pies         “Filadelfia nel vibonese”

Pranà i trëta  Pies         “Martirano nel catanzarese”

Pranà i katëta Pies       “Cavallerizzo nel cosentino arbëreshë”

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PALAZZO BUGLIARI DREGLIÀRTË

PALAZZO BUGLIARI DREGLIÀRTË

Posted on 26 marzo 2016 by admin

Palazzo Bugliari dregliarthNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La fragilità morale e le ristrettezze culturali producono molti più danni di un cataclisma, specie nelle persone che vivono convinti che appartengono alla categoria che dice di far parte di quanti del rispetto per ogni cosa ne fanno una ragione di vita.

Ostinarsi a presentare come malevolo l’emblema della propria crescita morale e spirituale, perché non si ha la forza di accettare ‘l’identità,  che ognuno di noi non sceglie è un atteggiamento che esula da ogni di buon senso di convivnaza.

Trovare le parole adeguate per esprimere il disappunto verso tanta ostinazione non è impresa semplice, alla luce del fatto che i segni e le gesta del passato, tuttavia hanno contribuito a rendere più solida la nostra morale e prepararci ad affrontare la vita.

È chiaro che non siamo tutti uguali, per questo, chi ha preso consapevolezza che il rispetto esiste continua l’ascesa culturale, mentre chi ha vissuto solo per coprire il proprio disagio, vive la vita sotto forma di commedia.

Alla luce di quanto premesso Palazzo Bugliari il teatro di una moltitudine di vicende sofiote, la storia del manufatto ha origini antiche e la sua tipologia appartiene al periodo rinascimentale del meridione italiano, l’essenza riporta alla cultura bizantina, araba, angioina, sino al predominio aragonese, con innesti della consuetudine arbër.

Il Regno delle due Sicilie, la Provenza e Valenza, descrive un perimetro, entro la quale furono stipulati intrecci artistici ancora oggi misteriosi, sensi comuni in cui le linee di scambio sono difficili da estrapolare, rimangono la constatazione di un’osmosi regolare, sequenze evolutive dei modelli che gli albanofoni fanno propri per miscelarli ad antichissime consuetudini.

Questi non sono altro che gli ingredienti fondamentali che divengono architetture all’interno della regione storica arbëreshë, elementi fondamentali per lo studio di questi ambiti.

La notorietà del riferimento culturale per tutti gli albanofoni: il Collegio Italo-Greco di Sant’Adriano; si deve alla caparbietà del Vescovo/Presidente Monsignor Francesco Bugliari da Santa Sofia d’Epiro.

Egli nacque il 14 ottobre 1742 da Giovanni e Maria Baffi, nel rione detto Bulëravetë; e il complesso fa parte di quelle architetture degli enunciati in premessa.

La residenza dei Bugliari, realizzata lungo una degli assi viari a monte dell’agglomerato urbano, collegava il rione lëmi litirith e la conca naturale detta kasàna.

L’insula, (manxsana), si presenta ad andamento pressoché lineare secondo l’asse Nord-Su e si compone di quattro moduli abitativi simili, eccetto l’ultimo quello allocato più a oriente che crea un insenatura al continuo edilizio, secondo la direttrice Ovest-Est.

L’edificio ingloba al suo interno alcune di quelle murature che i Bugliari come altre famiglie realizzarono secondo le disposizioni dei principi di Bisignano dal 1535, per questo conserva le diverse stratificazioni che si sono succedute nelle varie epoche

Gli elevati, nonostante abbiano subito le vicissitudini del tempo e degli eventi tellurici, che hanno penalizzato tutti gli edifici della provincia citeriore, conservava i suoi tratti distributivi, strutturali e materici, inalterati sino all’inizio di questo secolo.

L’edificio è composto dal piano terra, un primo e la copertura, l’elevato altimetricamente misura pressappoco sette metri alla gronda ed è così distribuito: a piano terra i magazzini e le cantine; al primo livello è allocata l’abitazione che per le caratteristiche geomorfologiche del fronte naturale in calcare su cui e incastonato, dispone il piano alla quota di campagna nella parte rivolta a sud.

Il prospetto principale esposto a nord, si presentava con una sequenza di porte gemellate a finestre, fortemente modificate.

L’accoppiamento dei due infissi conferma l’esistenza dell’originario modulo abitativo Cati o Kaljvej, aggregati in questo rione secondo la disposizione lineare.

Tra il seicento e il settecento gli antichi moduli a piano terra, furono adeguati secondo le tipologie correnti, in altre parole, costruire un nuovo piano sulle murature di piano terra, ottenendo così il piano superiore abitabile, quest’ultimo per essere temperato aveva aperture modeste e l’intero volume era sovrastata da uno spazio tecnico canizàri (Kanicari) a cui erano apposte delle apertura di circa 50 x 30 cm. di forma quadrangolare posizionati nell’estensione muraria che va dall’architrave delle finestre e la base del cornicione aggettante del tetto.

Al primo livello le finestre degli ambienti residenziali erano contraddistinte da una cornice di intonaco pigmentato più chiaro, al di sopra delle quali erano collocate le aperture per la ventilazione del sottotetto; per coronare lo sviluppo altimetrico dell’intero prospetto era disposto un cornicione realizzato con doppio ordine aggettante di coppi murati, da cui partiva la lamina di coppi della copertura verso il colmo dell’edificio.

Gli infissi di fattura diversa distinguevano la distribuzione interna, stanze da letto con gli scuri e la cucina con vetrate poco più grandi.

L’antico asse viario nel corso dei secoli è stato inglobato nella trama edilizia del rione, in corrispondenza del palazzo è diventato disponibilità di esclusiva dei Bugliari.

La necessità di interrompere l’antico percorso nasce da fatto che il lavinaio principale del paese, non faceva apparire dignitosa dell’abitazione.

Al fine di fornire al palazzo un’area  di pertinenza fu elevata una murazione a confine della proprietà, lungo la direzione del lavinaio che nei fatti rese la strada di esclusiva dei nobili di sopra, schermando definitivamente quel nero corso d’acqua .

A seguito della legge n. 130 del 2 agosto 1806 che dismetteva i privilegi dei Principi e la conseguente acquisizione delle terre da parte dei cittadini, le disponibilità economiche dei Bugliari migliorarono.

Il manufatto cresce di pari passo con le vicende sofiote, assumendo anche la funzione di abbaco edilizio albanofono in quanto la configurazione rimane immutata e leggibile per diversi secoli, ma a seguito dei molteplici “ammodernamenti di ponente” ; oggi rimane solamente il luogo delle vicende storiche svolte, transitate e scritte durante la partecipazione di Santa Sofia d’Epiro, alla causa dell’unità d’Italia.

Il paese comunque conserva altri due riferimenti edilizi, che rimangono i luoghi che detengono i trascorsi della storia, i patimenti e le evoluzioni architettoniche diffuse, non solo degli albanofoni, ma di tutta la valle del Crati.

Quando nel 1792 a Mons. Francesco Bugliari gli fu affidato la reggenza del Collegio Corsini, questi instaurò un filo diretto con il suo parente e compaesano Pasquale Baffi, affinché l’istituzione clericale e laica non andasse dismessa, come lentamente stava avvenendo prima del suo avvento nella sua sede originaria di san Benedetto Ullano, per questo ritenne che si potesse giungere a un grande progetto di rinascita culturale se l’istituto assumeva un’autonomia economica e territoriale più dignitosa, in cui coltivare modelli di pensiero politico e sociale, in linea con i tempi anche per il martoriato territorio della Calabria Citeriore.

Pasquale Baffi a Napoli era conosciuto e rispettato per l’alto valore culturale in tutti gli ambienti, politico sociali che contano nella capitale partenopea, per questo quanto rese noto che la Calabria citeriore rimaneva un ‘sola senza un riferimento culturale forte, riuscì a inserire il plesso tra i presidi per la divulgazione del nuovo pensiero di rinnovamento.

Quante riflessioni e pensieri propositivi ha ispirato il vescovo nei periodi di calura trovava refrigerio all’ombra delle acacie che adombrava il percorso di quell’antica strada di costa.

Quante lettere sono state ricevute o inviate nella consapevolezza di essere in un posto sicuro, da cui non sarebbe trapelato nulla e tutte le strategie di rilancio culturale oltre alle misure sarebbero andate a buon fine.

Palazzo Bugliaro è stato la culla strategica per il “rilancio culturale durevole d’arberia”, furono preventivati gli aspetti positivi e quelli malevoli come poi avvenne nell’agosto del 1806; per questo sin dal 1792 i vescovi prescelti per il progetto culturale furono due prescelti Bugliari e Bellusci, quest’ultimo non a caso fu inviato a Napoli per prendere consapevolezza di quando doveva prodursi per portare a buon fine il progetto di acculturazione territoriale.

È proprio in questa fase della storia italiana, che l’insula identificata come “le case dei Bugliaro di sopra” entra a pieno titolo come riferimento logistico di quel pensiero che contribuì a unificare l’Italia.

Strategie pianificate e poi realizzate attraverso il filo diretto Napoli, Santa Sofia d’Epiro, immaginare che è stato realizzato senza colpo ferire il trasloco di una istituzione; il Collegio Corsini da San Benedetto Ullano venne collocato a Sant’Adriano senza alcun intralcio burocratico se si esclude la sterile rivolta della annoiata comunità Ullanese, che venne raggirata con la favola di un escursione botanica nella direzione del fiume Crati.

Anche in questo frangente palazzo Bugliari divenne un riferimento storico, vero è che, sia i carri per il trasporto delle suppellettili e gli asini da soma per le persone più anziane, partirono da questa dimora per volontà del dott. V. Bugliari fratello del prelato, è sempre la stessa dimora ad accogliere tutti gli studenti e il corpo docente del plesso, i quali, dopo essersi rifocillati per una notte, poterono proseguire il giorno dopo verso il nuovo insediamento per far crescere i semi della cultura arbëreshë.

Il tempo conserva il valore storico dei manufatti; muri, infissi, solai, pavimenti, intonaci e persino il suo assetto distributivo, per questo gli edifici rappresentano la culla in cui e stata conservata una delle più belle pagine di cui ogni arbëreshë va orgoglioso, e fiero, tuttavia gli uomini con le loro inconsapevolezze manomettono quanto il tempo è riuscito a tramandare, a noi che crediamo in un futuro migliore rimane solo il compito di realizzare la metrica di tutela.

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ARBERESHE NON SI DIVENTA PERCHÉ SI NASCE CON VOCAZIONE

ARBERESHE NON SI DIVENTA PERCHÉ SI NASCE CON VOCAZIONE

Posted on 27 febbraio 2016 by admin

ARBERESHE NON SI DIVENTANAPOLI di Atanasio Pizzi) – La divulgazione delle tradizioni all’interno delle piccole comunità minoritarie per opera di fautori di una consuetudine fuori da ogni regola, è emersa a seguito di una serratissima ricerca d’ambito, dalla quale è stata confermata una preoccupante e paradossale realtà.

Se prima del sondaggio la mia era sola, sensazione, scaturita dal modo in cui è stato trattato il patrimonio edilizio; gli appunti ricavati a seguito di conversazioni realizzate telefonicamente, ha confermato la mia perplessità, in quanto una consistente fetta del patrimonio consuetudinario è andato disperso, stravolto e manomesso.

Il demerito di quanto dismesso, va attribuito a una categoria ben individuata e che si potrebbero appellare come quelli di “un discorso nuovo” (gnë discùrs i rì) i cui promotori, ambivano a rinnovare consuetudini che ritenevano vetuste e fuori dal tempo, in quanto, motivo di vergogna e disagio, verso le realtà contigue.

È chiaro che quanto detto si è tradotto in una rivoluzione generale, le cui origini vanno ricercate negli enunciati politici del Grande Vecchio, che a quei tempi era difficile da comprendere perché  poneva a dimora il seme del processo economico culturale, oggi identificato come globalizzazione.

Grazie a Dio però, qualche decennio prima una schiera di “saggi cultori”, racchiusi all’interno del quadrangolare dei paesi di Civita, San Benedetto Ullano, Santa Sofia d’Epiro e San Giorgio Albanese, attuava certezze e solidità storiche che avrebbero assorbito l’inappropriato scontro generazionale; ad esempio a Santa Sofia d’Epiro, negli anni cinquanta del secolo scorso “zoti Giovanni Capparelli” coadiuvato da un manipolo di uomini, pose in essere una delle pagine più rappresentative a tutela dell’arbëreshë e venne valorizzato il processo di integrazione degli esuli albanesi,  racchiusa nella “ Primavera Italo Albanese”.

La folta schiera di Sofioti così come altri gruppi dei paesi che ricadevano all’interno del quadrangolare su citato, furono i precursori di una stagione che condusse i minoritari a primeggiare all’interno della R.s.A. sia per gli ideali divulgati, sia per le consuetudini valorizzate, realizzando quel focolare d’ideali attorno al quale ogni buon arbhëre si rigenera, quando sta per smarrire la retta via.

Essi i “saggi cultori” istituirono tavoli di dialogo e ambiti di aggregazione, oltre a divulgare notizie attraverso riviste annuali, distribuite alle famiglie del paese e spedita a tutte quelle emigrate sparse nel resto del mondo; salvarono testi antichi, costituirono comitati, gruppi musicali, folcloristici e dettero avvio ad una serie di attività fondamentali per rendere coese tutte le comunità dei piccoli centri albanofoni; diedero forza, alla cadenza idiomatica, ai canti, ai costumi e i balli; illuminarono le feste e regolarizzarono lo svolgersi di tutti gli avvenimenti con i quali la consuetudine di radice albanofona si riconosce sin anche negli ambiti locali.

Una vera e propria corazzata di temerari, grazie ai quali agli arbëreshë, fu consentito di affermare la propria identità; il tempo purtroppo e gli eventi inesorabili hanno fatto si che quando uno di loro veniva a mancare, c’era sempre lo lëtir di turno, che lo sostituiva; vero è che a cavallo degli anni settanta e ottanta del secolo scorso, rimasero solo in pochi audaci per guidare le nuove generazione di radice lëtir, fu così che dopo poco meno di un decennio l’oceano di consuetudini riferibili alla minoranza albanofona si prosciugo ed è divenuta una pozzanghera alloctona.

A questo punto essendo il patrimonio nelle disposizioni di coloro che si vergognavano di esprimersi in arbëreshë, per meglio dire quelli di “un discorso nuovo”, questi ultimi aprirono scenari nuovi e paradossali attraverso i quali volevano riferire della storia arbëreshë alla luce di espedienti estrapolati nelle frasi o nelle pieghe canore di Bruce Springsteen, Bob Marley, Mino Reitano, ecc., ecc., ecc., immaginando gli ambiti albanofoni del primo periodo fatti di capanne, di pelle di bufalo, come riferito nei racconti di Tex Willer e di altri miti della fumettistica più alla moda; come se ciò non bastasse si identificavano anche come fiori del deserto(??); quest’ultimo sostantivo in particolare, oltretutto!!!, con gli ambiti albanofoni, storicamente riconosciuti come esclusivamente collinari, non ha nulla a che fare, se non fosse per il deserto identitario da loro stessi posto in essere.

Ritengo che produrre focolai cosi alloctoni e fuori da ogni regola, all’interno delle macroaree minoritarie, mi astengo dal definirli, per evitare di essere sgarbato o addirittura volgare; una miscellanea disomogenea fuori da ogni buon senso, che ha innescato il disfacimento della particolarissima identità culturale; fu così che ebbe inizio il fenomeno di confusione in cui vivono le generazioni che seguirono.

Il Discorso Nuovo, non aveva e non a tutt’oggi, alcun modo di confrontarsi con una comunità, radicata nel territorio e il valore delle cose arbëreshë, non sono mai state nelle loro disponibilità culturale, pur se hanno inconsapevolmente prodotto elementi di sintesi, una sorta di ibrido che chiamerei Lëtarbhër .

Questi erano e sono i figli di una radice anomala, che ritenevano, i trascorsi arbëreshë, prima durante e dopo il ventennio del secolo scorso, non degni di nota, ma non solo, in quanto gli attuatori di un discorso nuovo, non avevano nella loro disponibilità culturale, annotazioni d’arberia, le eccellenze e quanto venne offerto dai grandi intellettuali per renderla viva, partecipata e nota nello scenario culturale europeo.

La messa in atto delle leggi a tutela delle minoranze nel 1999 ha innescato una corsa per produrre la migliore idea, per rendere visibili e speciali gli ambiti di minoranza, ma purtroppo con i presupposti di quanto esposto prima, le gjitonie dei paesi albanofoni divennero peggiori del paese dei balocchi, in cui i figli di un discorso nuovo hanno attuato modelli per i quali la genuinità minoritaria è peggiore di una farsa di carnevale.

Gli ambiti sono stati letteralmente stravolti, le gjitonie distrutte, le strade tappezzate, le quinte edilizie pigmentate, le chiese gestite secondo gusti imprenditoriali, le proloco dissociate tra di loro e promuovono attività alloctone, ma quello che più duole è il senso della consuetudine arbëreshë che ormai parla in Lëtarbhër, con qualche frammento di inflessione anglosassone.

Ambiti minoritari che si muovono senza una regola, promuovendo storie e consuetudini che non hanno nulla a che fare con i trascorsi degli ambiti arbëreshë, ogni evento, sia esso civile, religioso o che abbia la cadenza della vecchia consuetudine, è rievocata attingendo frammenti da ambiti fuori da ogni regola dei minoritari.

Volendo fare alcune citazioni tra le più inadatte valgano:

  • l’ottava di Sant’Atanasio, “La Primavera Italo Albanese” scambiata per“Valle Çivitjote”;
  • i percorsi religiosi modificato a misura delle famiglie dei Comitati Festa;
  • la toponomastica storica stravolta;
  • gli ambiti della chiesa matrice caratterizzati a misura e i gusti dei lëtiri;
  • l’ospitalità turistica che non parla arbëreshë;
  • le fontane storiche poste nelle disponibilità dei privati, come quelle dell’acquedotto pubblico.

Tutto per colpa di una “società conservatrice del consuetudinario minoritario” che pur avendo nelle disponibilità cinque secoli di trascorsi storici, rimane immobile e non è capace di scuotere gli ambiti istituzionali, amministratori, dirigenziali, scolastici, clericali al fine di mutare il senso di questa disfatta.

Per questo chiedo alla “società conservatrice del consuetudinario arbëreshë” di attivarsi per far emergere in maniera coerente le caratteristiche del costruito storico, gli ambiti sociali, l’idioma e tutto il patrimonio tangibile e intangibile, per avere i riferimenti giusti in cui identificarci, e sentirci arbëreshë a casa propria secondo gli originari protocolli: tutto cio per due motivi fondamentali:

  • il rispetto che noi arbëreshë nutriamo verso questi luoghi;
  • preparare il vecchio patrimonio per le generazioni future, cosi come i nostri genitori lo posero nelle nostre disposizioni.

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NON CI HO COLPA!  (Udet cë gnë gher iscin diert)

Protetto: NON CI HO COLPA! (Udet cë gnë gher iscin diert)

Posted on 12 febbraio 2016 by admin

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KATUNDI (borghi, terre e casali)

Protetto: KATUNDI (borghi, terre e casali)

Posted on 20 gennaio 2016 by admin

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L’ARBËREŞË VINCENZO TORELLI (1807 – 1882) L’arbëreşë Vicèu Turjèllë

Posted on 10 ottobre 2015 by admin

VincenzoTorelli

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Negli ambienti intellettuali e artistici partenopei a cavallo del 1861 spicca un altro figlio delle discendenze Arbanon, Vincenzo Torelli, nato il 1807 a Barile, paese della macro area Arbëreshë del Vulture Lucano.

Unito in matrimonio con delle più belle dame dell’aristocrazia napoletana, Donn ’Anna De Tommasi dei principi di Lampedusa, sorella dell’aiutante di campo del Re Borbone Ferdinando II.

Torelli cognome tradotto dal fratello Aniello, dall’originale Turjèllë, in Arbëreşë indica la vite a sezione toroidale, attrezzo con il quale si praticavano fori nel legno o per forare il terreno e porre a dimora le piante di vite, senza danneggiare le radici.

  1. Vincenzo laureato in legge, avvocato in diverse Amministrazioni del Regno, nonostante il fratello gli avesse lasciato una vasta clientela di affari privati e pubblici, preferisce lasciare tutto per dedicarsi al mondo della stampa periodica e dalla critica teatrale e musicale.

Ricorda Raffaele De Cesare, come fosse un cliente assiduo del “Caffè del Molo”, abituale ritrovo di polemisti dalla battuta fulminante come il Duca di Maddaloni e il Marchese di Caccavone, ed è qui che V: Torelli si distingueva per il suo stile graffiante, tanto negli articoli a sua firma, quanto nelle critiche e nelle recensioni, grazie alle quali divenne temutissimo nell’ambiente musicale e teatrale dell’epoca.

Legato alla composizione di libretti d’opera teatrale, rimane un esponente di spessore nei processi per la divulgazione e rivisitazione della figura del giornalista, che nella diffusione della stampa periodica del XIX secolo, non erano così capillari come lo divennero, grazie alle intuizioni dell’intellettuale arbëreşë.

Molto della produzione del Torelli resta legata alle pagine dei giornali, in particolare dell’«Omnibus» che egli stesso fondò e diresse dal 1833, sino alla sua morte.

Meno nota appare invece la sua produzione teatrale di cui restano manoscritti inediti, ma di rilevante importanza, perché spiccano la sua particolarissima satira in versi; dalla sua “penna” sagace e l’immaginario duello, da lui ideato e condotto, per la superiorità “del testo o della musica” nel melodramma, (una nota questa che dovrebbe far riflettere i moderni compositori quando si espongono nelle rivisitazioni di antiche melodie arbëreşë).

In versi endecasillabi, Torelli, assunse chiara posizione nell’annoso dibattito della superiorità del racconto cantato o del libretto, conduce attraverso una serie di gustose metafore, utilizzando anche alcuni impietosi ritratti, come quello che descrive la figurina di un poeta svilito e sottoposto ai diktat di un musicista superstar.

La carriera di V. Torelli ebbe avvio sotto l’egida del fratello Aniello, affermato giurista, per questo, coltivato gli studi di diritto e, conseguita la laurea in giurisprudenza, aveva iniziato a praticare la professione forense.

Tuttavia, ben presto a questa remunerata attività, preferì rivolgere i suoi interessi alla stampa periodica e nel 1829 tale interesse lo spinse a mettere in stampa il primo numero del giornale a fascicoli l’«Indipendente», edizioni molto ricercate per l’alto valore culturale delle sue recezioni.

Torelli si può definire un solido riferimento per la cultura partenopea e Arbëreşë, infatti, la sua casa divenne per questo uno dei salotti culturali più privilegiati, in quanto, proprietario di un numero considerevole di quadri d’autori antichi e moderni, la sua dimora era considerata un luogo d’incontro per letterati, artisti e di quanti uomini di valore vivevano a Napoli o vi si recavano da tutta Europa e sin anche dai paesi Albanofoni del regno e lui accoglieva benevolmente tutti.

Nel 1833 fondò, assieme ad altri intellettuali e scrittori, la rivista letteraria «Omnibus», che a tutt’oggi è considerata come la più longeva e interessante pubblicazione periodica napoletana dell’ottocento, della quale, fu proprietario e direttore dall’esordio fino al giorno della sua morte nel 1882.

La stima di cui Torelli godeva anche al di fuori del Regno, del resto è testimoniata dalle collaborazioni di qualità o dalle lettere che illustri corrispondenti inviava al suo periodico Giovan Pietro Vieusseux, già nel 1834, rimarcava con sorpresa la tiratura del neonato foglio napoletano ma anche dall’accoglienza che alcuni suoi scritti trovarono in giornali specializzati nel campo teatrale.

Noto per il grande senso di ospitalità adoperava un canale privilegiato per il legame e il rispetto degli uomini di tutta la “Regione Etnica Diffusa Kanuniana Accolta e Sostenuta in Arbëreşë che si recavano a fargli visita negli uffici o in quella sontuosa residenza; questi li accoglieva con il saluto che ancora oggi tutti gli arbëreşë usano quando si incontrano a parlare: gjàku jonë i shprishur su hàrrùa.

Nel 1836, recensendo i Canti di un autore, fa notare a quest’ultimo, che pur avendo fatto pubblicare nel suo periodico, alcune liriche arbëreşë, facendogli guidare/dirigere anche, il pubblicato del ristretto numero dell’Albanese d’Italia, che la via dello scritto con caratteri greci e latini era un modo di raggiungere esclusivamente chi era già eccellenza intellettuale.

Vincenzo Torelli, uomo colto e solido conoscitore dell’idioma, le consuetudini, caratteristica della minoranza arbëreşë, con la sua professionalità e un nuovo modo di fare giornalismo, pose delle fondate critiche, al sistema alfabetico elaborato dagli scribi, dell’epoca, rilevando i gravi errori dei componimenti scritti, che utilizzavano alfabetari incomprensibili, alla diffusa schiera degli interessati e per questo, nel contempo, impedivano una larga diffusione scritta, perché la minoranza non era diffusamente alfabetizzata o formata alla conoscenza delle lettere.

Il dato trova conferma negli studi rivolti verso gli scritti precedenti e i successivi dei Canti del 1839  e persino sulla metrica utilizzata in quell’epoca.

In effetti, gli intellettuali arbëreşë, usavano scrivere avendo riferimenti latini, integrati a lettere dell’alfabeto greco, ritenendo, “a torto”, che la pronunzia potesse nascere con l’assemblaggio dei due alfabeti, lasciando poi, al libero arbitrio, ogni macroarea autoctona padrona della frase “da noi si dice così”.

Sin dal XVI secolo troviamo presente nell’ambito dei gruppi intel­lettuali della “Regione Etnica Diffusa Kanuniana Accolta e Sostenuta in Arbëreşë”, una tradizione di scrittura con un sistema alfabetico misto greco-latino, che rispecchiava da un lato l’influsso culturale greco, principalmente attraverso i tentativi e l’azione della chiesa bizantina che si ostinava a tradurre il prestigio altro che esercita­va l’istruzione e la cultura latina.

L’alfabeto cosi articolato, se dal punto di vista teorico poteva soddisfare le esigenze dell’autore arbëreshë in evoluzione, sul piano pratico sarebbe divenuto campo di studi di una ristretta nicchia e questo non certo era il traguardo che si voleva ottenere con il nuovo modello d’inculturazione.

La lezione trovò l’adesione di numerosi sperimentatori della lingua scritta per gli arbëreşë, ravvedendosi nel ritenere più idonea l’idea del Torelli, secondo cui era più utile avvicinare agli elementi della scrittura Italiana e rendere l’arbëreshë più diffuso negli ambienti sino ad allora orfani di un modello scrittografico.

Rimane un dato fondamentale che dopo la sottolineatura che il Torelli fece agli acerbi scriba dell’ottocento, nulla è stato aggiunto nel corso della storia, per evitare il rigetto diffuso nelle iniziative che volevano legare la scrittura alla lingua, fortemente, radicata nel XXI secolo all’Albanese.

All’«Omnibus» cui aggiunse per un decennio la pubblicazione e la direzione dell’«Omnibus pittoresco», si possono apprezzare un’antologia caratterizzata da buone incisioni per quell’epoca, inserendo o meglio divulgando dal 1851, una fisionomia più spiccatamente politica, ottenendo maggior successo e anche qui non mancarono articoli e citazioni al mondo arbëreşë e alle sue eccellenze in campo artistico, scientifico, culturale, della scienza esatta e del costume.

Torelli col il giornale nel 1840 era a favore delle ragioni del Re Ferdinando II per la concessione del monopolio sugli zolfi in Sicilia, per questo il sovrano Borbone gli era rimasto molto grato, inviandogli in dono alcuni vasi di Sèvres.

Nel Febbraio 1833 diffuse per abbonamento il manifesto, un periodico di modeste dimensioni e costo, la finalità immaginata dal giornalista era di propagarsi in tutte le classi della società al fine di elevare l’erudizione in ogni persona elevando sin anche le classi meno abbienti. 

Il giornale è compilato generalmente da giovani sinceri e di buon umore, i quali, entusiasti e desiderosi di non dare noia, ma informare sulle cronache e le tendenze di una vita migliore, divulgavano concetti di interesse generale e nel contempo allargavano le menti di quanti non avevano forza economica per studiare. 

Il foglio compare ogni sabato al prezzo corrente di grani cinque e chiunque ha passione verso la cultura e i libri potevano raccogliere queste carte volanti e alla fine dell’anno consolarsi di avere la possibilità di assemblare un discreto volume enciclopedico.

In Tutto aveva inventato gli odierni inserti dei giornali come oggi comunemente avviene.

Nella carriera editoriale il Torelli ebbe una ricca corrispondenza con numerosi esponenti del panorama storico-letterario e artistico – musicale italiano, tra cui Gaetano Donizetti, Gioacchino Rossini a Giuseppe Verdi.

I rapporti con questi ultimi due non furono, almeno all’inizio, idilliaci: se con Rossini si registrò almeno un dissidio legato a un falso scoop pubblicato sull’«Omnibus»; con Verdi ebbe tuttavia sviluppi importanti nella storia della musica italiana, ed egli lo accolse sempre calorosamente ogni volta che si recava a Napoli e, tra i due vi fu un fitto epistolario.

Proprio negli anni cinquanta dell’Ottocento, Torelli, che aveva avuto rapporti con Vincenzo Jacovacci, il più rinomato impresario d’opera romano dell’epoca, riuscì ad ottenere in appalto, la gestione dei teatri di Napoli, dal 1855 sino al marzo del 1858.

Nel 1848, l’Omnibus assunse anche veste politica e, fu quella l’epoca della sua più grande fortuna editoriale, va rilevato che il Torelli, soffrì insidie, persecuzioni, e sin anche la prigione e per questo era solito dire: “chi non ec­cita invidia è uomo nullo”.  

Le relazioni con i re Borbone si mantennero sempre buone fino al 1858, quando sorsero i primi malumori, ma ormai era la fine del regno, il 1860 il Torelli poté esprimere liberamente le sue idee di patriota e uomo liberale.

Per il proseguimento dell’opera, Torelli dopo la sua morte avvenuta nel 1882, rimasero i figli, Cesare e Achille, che in considerazione dell’ambiente in cui sono cresciuti, diedero molto alla letteratura partenopea, ma questa appartiene a una storia più recente che avremo modo di approfondire.

 

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