NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – I gruppi familiari allargati che rivitalizzarono i casali abbandonati del regno di Napoli prima durante e dopo la morte di Giorgio Castriota, avviarono la stagione degli insediamenti diffusi arbëreshë, con l’intento di assicurarsi tre fattori fondamentali: l’acqua, la sicurezza e la viabilità territoriale in armonia con la triade mediterranea.
Scelto il sito, condizionato dalla vicinanza dell’acqua (torrenti o sorgenti), si alzavano steccati per circoscrivere, l’area pertinenziale occupata dal gruppo familiare da quella di comini intenti limitrofi, iniziava cosi quel segno che avrebbe unito per sempre il territorio tipico degli arbëreshë.
L’armonia di comini intenti fra i gruppi familiari del sistema urbano diffuso, era assimilata così a quella esistente in natura fra il tutto e le sue singole parti.
In virtù di una tale corrispondenza gli arbëreshë erano portati a sentirsi organicamente inserito negli ambiti ritrovati, riconoscendosi attraverso i dettami territoriali simili a quella di origine.
Ognuno partecipa alla vita collettiva e nel consolidare il bene di ogni gruppo, poi amplificato a quelli attigui della stessa radice culturale, con la quale discute, crea attriti interni e ricomporsi fedelmente quando la propria identità era messa in discussione o in pericolo.
I Katundë in origine organizzato in piccole comunità autosufficienti, una sorta di stato indipendente, l’uno dall’altro, esso nasceva circoscrivendo porzioni di territorio allocati nei pressi di una chiesa o un presidio religioso, disponendo sistematicamente i gruppi secondo la conformazione orografica del territorio identificando i vari rioni in Kisha, Bregù, Shëshi e Shëpia.
Dopo essersi assicurato un rifugio dove vivere e dormire era indispensabile realizzare, in loco, i presupposti per il sostentamento, nonostante l’impervia orografia prevalentemente allocate all’interno di macroaree collinari, non rendeva semplice l’impresa.
La realtà cittadina si organizzava attraverso il raggruppamento di diverse unità minori, i villaggi (Katundi) che non avevano un solo centro decisionale giacché, l’autonomia di più famiglie, mirava più a un sistema policentrico.
L’assemblea cittadina, formata dalle persone più carismatiche di ogni gruppo familiare allargato, le cui decisioni partivano dal focolare del gruppo familiare e miravano all’armonia del mutuo soccorso tra i gruppi.
Oltre al centro di residenza, esistevano i territori (Haretë), la campagna, dove risiedeva periodicamente una parte rilevante della popolazione.
Trova per questo una sua validità, il termine “Kushëth”, che includere Katundë, (il paese, villaggio o casale), e il territorio, consolidando il solido rapporto tra nucleo urbano e campagna.
Dal tempo delle prime migrazioni e poi sempre in modo più pregnate, vide svilupparsi una massiccia espansione dell’agricoltura a danno dell’allevamento attraverso la realizzazione di bonifiche, liberando porzioni di terreno, dalle acque stagnate, disboscando e mettendo a coltura consistenti appezzamenti collinari, scelti preventivamente a debita distanza da quelle di pianura penalizzate dalla malaria.
I territori messi a cultura erano utilizzati in modo stabile e intensivo per lo più da contadini, con una metodologia di lavoro caparbia ma intelligente, attraverso l’utilizzo di attrezzature, integrando l’allevamento di bovini e caprini per migliorare l’efficienza produttiva dei terreni posti a coltura.
I gruppi familiari allargati erano in grado di mantenersi attraverso il consumo diretto e lo scambio dei beni prodotti, accumulando sin anche risparmi.
Haretë non erano tutte uguale, infatti, quelle prevalentemente pianeggianti o adagiate su crinali distesi erano ritenute di qualità superiore a quelle collinari più impervie; tuttavia la terra era sfruttata in modo razionale attraverso l’integrazione della “triade mediterranea” (cereali, ulivo, vite) con altre colture leguminose, allo scopo di contrastare le crisi legate al clima.
Il modello mediterraneo “cereali, ulivo e vite” rappresenta una risorsa da cui non si poteva prescindere e serviva a produrre da un lato e nello stesso momento a rinvigorire i terreni, una sorta di moto perpetuo naturale, in cui l’uomo con la sua azione consentiva alla terra di attivare quei processi naturali e garantire per secoli il parallelismo di convivenza tra uomo e natura sostenibile.
(Bilë e Arbëreshëvet!! gjiegjëni me veshët tuej e diovasni letir, veth këstù zeni kushë Jini;
mos jiejni the chiarturat e qenvet, cë vran Jergjin, se janë skip!)