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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”   (discorso - V° - Inculturazione)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – V° – Inculturazione)

Posted on 04 agosto 2019 by admin

 

 UN VOTO ANTICO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIONAPOLI (di Atanasio Pizzi) – IL termine Inculturazione nell’antropologia culturale, tratta i processi di trasmissione della tradizione fra generazioni.

Il termine rileva i processi del passaggio della cultura da una generazione all’altra, concentrandosi sugli aspetti di socializzazione dell’individuo, attraverso l’apprendimento della lingua, l’educazione in ambito familiare, mitizzando le figure degli adulti e le regole di comportamento in ambito educativo.

L’insieme si completa con le competizioni tra quartiere, la partecipazione ai giochi, le danze tipiche, i canti, le cerimonie, oltre a memorizzare i racconti degli anziani, associati a gruppi di età, queste ultime poi rappresentano la matrice che in alcuni casi è legata associazioni occulte, di culto e iniziazione.

Alcune categorie di persone ricevono un’educazione particolare, finalizzato al ruolo poi assunto all’interno del gruppo sociale, come ad esempio gli operatori religiosi (preti, guaritori, magarë, stregoni), gli agricoltori, gli artigiani, gli artisti, tutti rispettosi dei riti e consuetudini del tramandato storico.

Questo in linea generale è anche il modus operandi seguito dalla popolazione della regione storica arbëreshë e in ognuna delle sedici macroaree di cui si compone, nonostante il disciplinare adottato non contempla alcuna forma scritta.

Alla luce di ciò sino a quando i processi scritto grafici, sono stati materialmente dedicati a cerchie di ricercatori fuori lo spazio ideale denominato Gjitonia, gli elementi linguistici, sociali, metrici e religiosi che regolavano lo scorrere d’inverni e primavere arbëreshë si sono articolate secondo processi sostenibili e in grado di mantenere unito il percorso identitario.

Quando nel corso del secolo appena trascorso, con l’accorciarsi delle distanze, l’economia in ascesa, la totale assenza nei programmi di alfabetizzazione per gli alloglotti, le reti sociali in continua evoluzione, la legge 482/99, in cui sfugge la differenza storica tra lingua Albanese tutelata e Arbëreshë discriminata, hanno minato pesantemente il disciplinare tramandato oralmente.

Questi sono solo gli elementi più evidenti a non è stata posta particolare attenzione, prevedendo che quanto prima avrebbero intaccato la sostenibilità dei passaggi di consegne identitarie tra generazioni all’interno della regione storica.

Causa fondamenta della perdita di sostenibilità culturale e identitaria è stata la mancanza di progetti specifici, atti a valorizzare all’interno della regione storica il patrimonio materiale ed immateriale evitando di demandare i principi di crescita delle nuove generazioni alla sola alfabetizzazione, sorvolando sui temi dell’antico ceppo.

Se negli anni sessanta del secolo scorso lo scorrere della vita, nelle macroarre etniche di estrazione arbëreshë, manteneva livelli d’inculturazione sostenibile, dal punto di vista linguistico, ambientale, architettonico sociale sia laico sia clericale, negli anni settanta ha inizio la deriva degenerativa che non ha mai cambiato rotta.

Il fenomeno ha prodotto una serie di manifestazioni senza alcuna formazione storico culturale faccendo apparire gli ambiti di minoranza esclusiva residenza di costumi, canti e parlate “altre”, allontanando i principi dall’ Inculturazione fra generazioni.

Oggi ai vertici della valorizzazione, tutela e divulgazione culturale non siedono le eccellenze come la tradizione indicava, ma soggetti attuatori senza identità e tanto meno parlanti l’antico idioma arbëreshë.

Queste figure “altre” divulgano appuntamenti attraverso appellativi fuori da ogni ragionevole diplomatica del vivere all’interno dei katundë di estrazione arbër.

Tuttavia ciò che penalizza e appiattisce uniformando a modelli globalizzati il senso della regione storica sono le numerosissime attività di promozione che da primavera e nel corso di tutto l’anno, innalzano vessilli territoriali mai appartenute a nessuna delle sedici macro aree.

Se immaginiamo che tutto ciò che è stato sapientemente difeso e valorizzato dai tempi dei regnanti partenopei sino al 1806, il salto degenerativo perpetrato sino giungere alle vicende odierne, per quanti della minoranza analizzano, studiano e appuntano con dovizia di particolari ogni frammento della storia;  diventato un pena indescrivibile  la continua perdita di valori e a nulla valgono le grida di dolore, che anche se fossero mute, almeno chi vive di riti bizantini dovrebbe avere gli strumenti divini per ascoltare e curare.

A tal fine volendo accennare solo le più famose manchevolezze senza scendere nei particolari, valgano di esempio queste note interrogative: Sagre di prodotti tipico(?), Gjitonia e vicinato(?), abusi edilizi per abitazioni storiche(?), Scanderbeg l’eroe Arbëreshe(???????), Valje e balli tondi della liberazione(?), quartieri / Gjitonie(?), caricature filmiche(?), abbellimento dei centri antichi(????), biblioteca delle riviste(?), musei del costume(?), la vestizione nuziale con le grazie al vento(?), l’eliminazione dei comitati di festa (?), questi accennati esempi si possono configurare come una grande frana indotta per aver estirpato troppe radici storiche, architettoniche, sociale, urbanistiche, psicologiche, geologiche, artistiche, antropologiche e cosi via discorrendo, ma comunque e nonostante tutto pur avendo consapevolezza di cosa potrebbe avvenire, non si innalza alcun presidio idoneo a rallentare l’inevitabile.

L’immaginario che ogni buon arbëreshë si auspica, è volto al ricambio generazionale composto da figure in grado di impedire che ruoli dipartimentali, istituzionali e per la promozione del territorio, siano posto nelle disponibilità di quanti sanno come fermare questa marea economica/culturale legalizzata; allontanando dai canali divulgativi e della valorizzazione ogni sorta di litirë privo di elementari titoli  di formazione locale, che in troppi casi casi millanta di conoscere storia, lingua, metrica canora, le diplomatiche della vestizione e ogni sorta di attività del consuetudinario storico delle sedici macro aree.

Allo stato urge fermare energicamente le dilaganti nozioni serrate, senza luogo, senza tempo e senza patria, appellare “Arberia” una “Regione storica” è sbagliato!!! in quanto il sostantivo è sinonimo di nazione e nessuno ha mai riconosciuto e mai avrà modo di prendere corpo, perché noi arbëreshë siamo Minoranza storica Italiana e basta.

In questi giorni recandomi nei luoghi natii ho rinvenuto dei semi di buon auspicio, alcuni chicchi di grano, conservati in un cassetto e che i miei genitori, in vita, non hanno avuto modo di utilizzare, per questo m’impegno a loro memoria di farli germogliare, sperando che diano un numero considerevole di semi in grado di emanare gli antichi sapore della tavola familiare, la stessa di tante famiglie e rappresenti l’inizio di una nuova stagione di solidi valori arbëreshë.

 

 

(Bilë e Arbëreshëvet!! gjiegjëni me veshët tuej e diovasni letir, veth këstù zeni kushë Jini;

mos jiejni the chiarturat e qenvet, cë vran Jergjin, se janë skip!)

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”   (discorso - IV° - Migrazioni)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – IV° – Migrazioni)

Posted on 31 luglio 2019 by admin

MigrazioniNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – I territori di Serbia, Kosovo, Macedonia, Albania, Epiro e Peloponneso, dell’attuale geografia politica sono stati lo scenario di rivalità tra  mussulmani e cristiani, determinando l’episodio migratorio più rilevante, dalla fine del XIII sino a tutto il XVI secolo, verso le terre parallele dell’Italia.

L’esodo per gli abitanti delle terre su citate (gli arbëreshë) è stata l’unica possibilità per tutelare la propria identità e contiene caratteristiche uniche, per tanto, bisogna porre molta attenzione nell’unificarla come movimento di masse verso terre da invadere o  mero evento per sopraffare culture a discapito di altre.

Sono numerose le migrazioni che segnano la storia del mediterraneo, solo una di queste interessa e coinvolge i parlanti arbëreshë ancora viva e perfettamente integrata, mentre le alte sono sfumate lasciando solo episodiche tracce, giacché, nate con l’intento di proporre o imporre nuovi modelli.

Se le dispute economiche e sociali sono state la principale causa ad innescare i processi di migrazione, nel caso degli arbëreshë furono ragioni in ordine: Etnico, Consuetudinario, Religioso e Sociale, a conferma di ciò valgano le statistiche storiche secondo le quali, l’Italia sin dai tempi dei greci veniva ambita non per essere conquistata e distrutta, ma per essere vissuta.

Sin anche i popoli descritti come barbari, dalla storiografia occidentale, invadevano le regioni dello stivale mediterraneo, perché climaticamente e territorialmente consentivano di realizzare strutture del tutto diverse dai sistemi organizzativi sociali e dei valori etici, oltre che religiosi, su cui le etnie in movimento, si reggevano nelle terre d’origine.

Popoli quali i Longobardi, i Goti, i Franchi, i Normanni, venutisi a stabilire in area latina, pur giungendovi con la forza delle armi, queste genti di ceppo e lingua ger­manici si assimilarono nel giro di poche generazioni alla popolazione maggioritaria circostante, questo è successo anche per gli arbëreshë che pur senza la forza delle armi durante il XIII secolo sgiunsero lungo le coste dell’anconetano a Jesi Recanati e in quelle terra dove oggi sono note per i vitigni posti a dimora dagli operosi arbëreshë.

In queste storiche terre del vino gli arbër prima furono diseredati, ritenendoli facinorosi portatori di malattie e per questo costretti persino a soggiornare a debita distanza dalle murazioni, poi riconosciute le capacità per dissodare realizzare attrezzi e mettere a dimora la terna mediterranea, s’integrarono senza lasciare alcuna traccia, ma queste sono altre storie.

Diversamente è stato per gli Arbëreshë, costretti a varcare l’Adriatico o il mare Ionio alla ricerca di una terra parallela dove non fosse minacciata la cristianità, quindi all’interno di un sistema territoriale definito “parallelo” rispettando e  mai superando le antiche arché grecaniche, riuscendo nel breve termine a produrre livelli d’inclusione con i popoli indigeni, preservando lingua, istituzioni e abitudini sociali.

Sono largamente riportate nella storiografia del mediterraneo, particolari a dir poco sintetici o addirittura elementari, quando sono trattate le numerate, numerose e allegoriche ondate migratorie, attraverso le quali agli arbër, è stata fornita la possibilità per cercare il parallelo più idoneo a impiantare la storica radice.

Essi in maniera a dir poco sintetica, sono individuati ora come drappelli accompagnati dai loro familiari e preti, ora con bauli colmi di suppellettili ori e costumi, ora come gente nuda sulle rive dello jonio  aspettando il consenso o l’interesse delle autorità della nuova terra parallela come: i d’Angiò prima, gli Aragona con re Alfonso I di Napoli e Ferdinando II, in seguito, poi rispettivamente dagli imperatori Carlo V e Filippo II, da Carlo III di Borbone, sino a Ferdinando I, oltre Papi, Re e Dogi veneziani.

Nessuno si è mai preoccupato di approfondire l’argomento e sottolineare che gli arbëreshë non erano preferiti  a caso o perché in  fuga, ma esclusivamente quali discendenti  diretti dei soldati contadino (stradioti).

Questo dato non trascurabile li rendeva indispensabili attori, per sedare con la loro presenza gli attriti economici, politici e sociali nelle epoche che videro protagonisti i regnanti, i cortigiani su citati, compresi i loro sottoposti.  

Tuttavia anche se il costante flusso di arbëreshë, il conseguente inserimento senza non poche difficoltà nella società di adozione, si svolgesse in forma legittima e giuridica­mente protetta, spesso sfugge agli storici osservatori, l’interesse che i regnanti aveva nel prediligerli rispetto agli indigeni, una disputa che si protrasse dalla fine del XV sino a tutto il XVI secolo, quando vennero presi i dovuti provvedimenti del caso.

Per comprendere cosa abbia innescato e prodotto il modello integrativo Arbëreshë, si potrebbe vagare all’infinito nelle diplomatiche della storia, tuttavia per tracciare anche in questo caso un’arché di riferimento si può, a ben vedere, risalire alla battaglia di Campo dei Merli, (Kosovo 1389) cui parteciparono gli Arbër attivamente; questo evento di giugno, segnò il dominio turco nei Balcani, ma anche l’inizio di una strenua difesa delle genti Arbër, terminata  dopo le dette migrazioni prima della fine della pressione con sconfitta degli ottomani a seguito della battaglia di Lepanto, nel 1571.

Le conseguenti repressioni della battaglia del 1389 diedero seguito al primo stanziamento di profughi albanesi in Italia meridionale attestata su una lapide nella chiesa di S. Caterina a Enna, dove è ricordato un Giacomo Matranga comandante arbër.

Analoghe ragioni indussero Alfonso d’Aragona re di Napoli, in lotta con Renato d’Angiò, a far passare in Italia Demetrio Reres e i figli Giorgio e Basilio e farli poi stabilire in Sicilia.

A questi episodi vanno aggiunte le vicende che videro protagonista Giorgio Castriota, figlio di Giovanni, in Italia, iniziate nell’agosto del 1460 e durarono circa due anni, anche se altri due viaggi a Napoli e a Roma nel 1464 e nel 1466, ebbero luogo.

La permanenza di Giorgio Castriota nelle terre del regno di Napoli consentì di delineate le linee dell’infinito arbëreshë, in altre parole, “le Arché” linee strategiche secondo le quali dovevano essere predisposti i Katundi delle genti arbëreshë.

Un dato non preso in considerazione dagli storici, non essendo protagonista una figura maschile, passata per lungo tempo poco analizzata, tratta della sottovalutata invasione o accoglienza, dirsi voglia, comunque pacifica, che si è articolata durante la permanenza della moglie, del defunto Giorgio Castriota, Marina Donica Arianiti, che dal 1468 al 1505 visse a Napoli, con il figlio Giovanni, la figlia Vojsava e la giovane figlia di Vlad II°, prima nel castello Angioino e poi in via  Santa Chiara, ospite dei regnati Napoletani.

È in questo periodo che non potendo più fare affidamento della figura del valoroso condottiero arbëreshë è consentito a molti gruppi familiari allargati, di insediarsi lungo le “archè” predisposte ai tempi della battaglia di “Terra strutta” dal valoroso condottiero, prima della sua morte.

È così che nasce la Regione storica Arbëreshë e se da un lato creava attriti con gli indigeni, dall’altro confermavano una presenza numerica non indifferente, con il fine di confermare una regione parallela, la stessa temuta dagli ottomani, specie se realizzata in tutte le caratteristiche identitarie.

Alle popolazioni della regione storica dopo la caduta di Corone, molti degli Arbëreshë e Greci, che si erano rivelati i più convinti ausiliari dell’ammiraglio della flotta cristiana Andrea Doria, ottennero dal Viceré di Napoli il permesso di lasciare su molti navigli la città riconquistata dagli Ottomani, dove la incolumità loro e delle loro famiglie venne assicurata con il trasferirsi a Napoli.

Un numero considerevole di profughi, in numero di circa ottomila, di questi poco meno di tremila preferirono trasferirsi in Sicilia in Calabria e in Basilicata, in tutto, lascati alla libera circolazione per trovare la migliore sistemazione all’interno della regione storica.

Dopo la fase dell’insediamento e definiti i contorni e le macro aree della regione storica, inizia la fase di crescita sociale e culturale, la sua esplorazione si è rivelata molto carente ogni volta che è stata utilizzata la mera visione puntuale, senza mai avere uno sguardo all’insieme regione.

Le opere condotte a vario titolo sono solo episodi che devono essere ricuciti: Rodotà, La Mantia, Schirò, Sciambra, Coco, Zangari, le dispute campanilistiche e immobiliari del collegio Corsini, le priorità culturali, garantite dalle simpatie territoriali, sono da considerare, come i filamenti di una tela scippata e vanno ricomposti con sapienza e garbo, onde evitare di sortire alle disquisizioni che hanno relegato la regione storica e i suoi uomini a non essere contemplata in nessun ambito culturale che conta e fa la storia.

Alla regione storica diffusa arbëreshë è tempo che le sia data “una storia” unica  e secondo i fatti, non per racconti;  valorizzare alcuni aspetti a discapito di altri non è più concepibile,  è ora di smettere nel considerare valorosi figure di secondo piano rispetto a quanti hanno dato se stessi, la  vita per il valore del loro lume, in favore di tutti gli arbëreshë, lasciamo al tempo di valutare pi quanti ostinatamente si cimentano a scrivere una lingua ereditata crescendo e vivendo in arbëreshë.

Le migrazioni non devono essere intese come un mero evento, per  datarlo e numerarlo, giacché,  rappresentano un insieme di cause cui è legato un solo ed unico effetto, sta alle persone di cultura comparare i due elementi e dare merito a quanti posti nelle difficoltà, cosa e come abbiano fatto a discernere la mano giusta da quella sbagliata, per emergere con dignità dal buio innescato da quanti miravano ai propri valori e non ad altro, anche se in prima fila tendevano la mano ai poveri emigranti ancora in acqua.

(bilë e Arbëreshëvet diovasni letir se zeni kushë Jini; mos jiejni the chiarturat e qenvet, se janë skip!)

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IL QUADRILATERO DELLA CULTURA STORICA ARBËRESHË (Napoli, Santa Sofia, Barile e Maschito)

IL QUADRILATERO DELLA CULTURA STORICA ARBËRESHË (Napoli, Santa Sofia, Barile e Maschito)

Posted on 21 luglio 2019 by admin

legge 482Napoli (di Atanasio Pizzi) –  Dalla metà del XVIII secolo tra Napoli e due macroaree arbëreshë, rispettivamente, in Calabria citeriore e nel volture, si crea un legame culturale tra i più consolidati, rispetto alle altre macroaree di simili radici; da allora senza soluzione di continuità rimangono solidamente unite dalla storia la capitale e tre piccoli centri arbëreshë, fornendo ingredienti di solidità intellettuale, il cui lustro trova le sue radici nel codice consuetudinario della regione storica:

Appare chiaro, che il primo degli assi culturali è il più solido, anche se gli altri non lo saranno da meno in quanto rappresentano la continuità culturale di una tela rafinatissima, che a tutt’oggi, per solidità non si consuma, essendo stata intrecciata dai telai delle Rrughe e le Gjitonie dei Katundë arbëreshë, per poi essere rifinita tra i Cardini e i Decumani della polis partenopea.

Un tessuto non stretta e lunga come una corda, ma larga e solida a modo di tela, per contenere e proteggere tutto ciò che niente e nessuno è riuscito a deteriorare per la genuinità del manufatto di tutela.

Questo racconto vuole allocare nelle giuste icone gli uomini, che per caratteristiche innate, rappresentano il genio locale, il germoglio di un’identità antica importato dalle colline dei Balcani e innestata nel meridione italiano.

Era il 10 maggio del 1734 don Carlo di Borbone, diciottenne duca di Parma e Piacenza, comandante in capo dell’armata spagnola in Italia, entra a Napoli scortato dai soldati che nei giorni precedenti avevano costretto alla resa le guarnigioni austriache asserragliate a Castel Nuovo, Castel dell’Ovo e Castel Sant’Elmo.

Il re come i potenti di quell’epoca, preferì avere oltre al classico esercito, una guardia personale composta da fedelissimi e il 15 ottobre 1737 il Vignola inviava al Senato una nota dalle terre balcaniche nella quale confermava di aver selezionato i soldati fidi alla corte di Napoli, appellandoli: battaglione Real Macedone; di questo esercito di fidati venne scelto quale  cappellano militare, il reverendo Bugliari Giuseppe, per seguire spiritualmente i soldati sia di estrazione Grecofona e sia Arbanofona.

Il reverendo originario di  Santa Sofia, un piccolo casale di origine albanese in provincia di Calabria citeriore, venne scelto sia per le capacita di esprimersi in arbereshe e in greco e sia per l’estraneità allo scenario politico della capitale partenopea.

Iniziava da questa scelta un brillante periodo culturale e scientifico, il quale, senza soluzione di continuità si articola sino al XX secolo, con figura emblematiche di alto valore, fondamentali nella scuola delle eccellenze arbëreshë, e dopo il Bugliari divenne fondamentale  Vincenzo Torelli, da Barile, paese  del Vulture in provincia di Potenza, di identica estrazione identitaria.

Il Bugliari ed il Torelli rappresentano due pietre miliari della storia culturale arbëreshë, essi aprirono la strada  a illustri come il Prof. Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Avv. Angelo Masci(?), Giorgio Ferriolo, Avv. Pasquale Scura, Avv. Vincenzo Torelli, Arch. Luigi Giura, Avv. Rosario Giura, Mons. Giuseppe Bugliari e a tante altre figure di secondo piano, di cagionevole cultura, prevalentemente scrittori in erba, le cui gesta(?) si possono misurare nei circa quaranta alfabeti, ora latini, ora greci, ora irriconoscibili e comunque tutti in onore o riverenza del papa che tirava(!!!!).

La storia letteraria, editoriale e scientifica degli arbëreshë, in questo secolo e mezzo, raggiunge l’apice nei salotti di tutta europea, mettendo in luce qualità innate che ancora oggi sono assegnati i meriti ai regnanti Borbone e per questo coperte da un alone di diffidenza; di contro gli stati generali e i dipartimenti della Regione Storica Arbëreshë, invece di adoperarsi e richiedere i titoli e pretendere, la paternità di tali eccellenze, si diletta a manifestazioni e racconti di poco conto e ostinarsi a realizzare sagre, esposizioni a ritmo di ballate e cantate in costumi tipici sostenute inconsapevolmente dal trittico mediterraneo .

Da alcuni decenni e negli ultimi anni, in modo più incisivo, si è ritenuto opportuno relegare la storia degli antichi Arbanon, il più antico governa rato dei Balcani, a vicende linguistiche dell’Albania moderna oltre a matrici clericali di dubbia radice.

Pur se consapevoli che non vi sia alcuna attinenza con quanti realizzarono nella regione storica, preferendo difendere il proprio codice identitario nel XIV secolo, con quanti inchinarono la testa e offrire la propria identità storica e la propria terra agli ottomani, dalla terra albanese partono frotte di avventurieri in cerca di gloria.

Noi che viviamo la Regione storica Arbëreshë, i discendenti del Prof. Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Avv. Angelo Masci(?), Giorgio Ferriolo, Avv. Pasquale Scura, Avv. Vincenzo Torelli, Arch. Luigi Giura, Avv. Rosario Giura, Mons. Giuseppe Bugliari, non abbiamo bisogno di altri disturbatori storici oltre alle figure “secondarie” nate qui a casa nostra di cagionevole morale, essi sono prevalentemente scrittori in erba, le cui valorose gesta si possono misurare nella vulnerabilità dei loro oltre quaranta alfabetari, ora latini, ora greci e comunque in funzione del papa che tirava.

Non abbiamo bisogno di “presidenze di potere”, “ambasciatari inconsapevoli”, “adetti culturali senza cultura”, giornalisti stravaganti e ogni genere di figura capace di cambiare titolo e colore, secondo il tempo che fa, ne tanto meno quanti irresponsabilmente mirano alle nuove generazioni le più tenere e quindi facili da modellare, queste ultime in particolar modo inconsapevoli del nostro valore identitario, vengono nelle nostre latitudini a sporcare quanto difeso con sudore e devozione.

Non abbiamo bisogno che dalla terra madre, o da altri lidi, vengano in regione storica a minare quanto di irripetibile eravamo, siamo e non smetteremo mai di essere; noi arbëreshë le scelte più dure da supportare le abbiamo portate a buon fine, in sei secoli,  portate avanti con spirito caparbio attraverso il quale siamo identificati come  modello di integrazione, per tutto ciò, non abbiamo bisogni di oratori estranei,  per renderlo noto secondo la metrica della terra d’origine.

Questa è la regione storica libera, non poniamo barriere di alcun genere a nessuno, tuttavia chi viene a sedersi nella nostra tavola, dopo che gli è stato offerto il posto di capotavola deve cogliere il senso del gesto; guai a quanti lo intendono come atto servile o di riconoscenza storica, noi arbëreshë i parenti paralleli, li accogliamo per guidarli verso un percorso di acculturazione, in quanto in sei secoli di storia, noi, le posate per stare a tavola educatamente le abbiamo sudate con il sangue dei nostri padri.

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LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHË

LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHË

Posted on 18 giugno 2019 by admin

LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Come sanciva nel suo discorso sugli Albanesi, impropriamente attribuito ad altra inquietante figura, il Baffi riteneva che per lo studio della storia di un popolo, non si deve andare altre una certa misura, altrimenti si perde il senso della ricerca.

In conformità a questo principio, inizio ad analizzare cosa e quanto ha prodotto il miracolo linguistico tramandato oralmente nelle regioni dell’antico regno di Napoli o delle due Sicilie.

A tal proposto  il limite del confine dell’infinito di ricerca parte ai tempi quando venne diviso in themati l’impero romano unificato, la conseguente traccia di ricerca condotta, pone ad indagine l’intreccio tra uomini,  rapporti sociali, rapporti economici, luoghi e tradizioni da tutelare.

S’inizia con l’affermare che nel VI secolo D.C. dopo  aver allocato la capitale dell’impero di Oriente ed Occidente a Costantinopoli, venne diviso il territorio unificato, in themati e le disposizioni del nuovo modello convogliava le disposizioni civili e militari, nell’elemento perno dell’Impero, ovvero, i soldati contadini (gli Stradioti).

Fare un parallelismo delle consuetudini, della famiglia stradiota e quella arbëreshë descritta nel protocollo Kanuniano, è facile, anzi oserei definirli i prodotti sociali di una sola radice.

Questo ha caratterizzato in maniera particolare genti che vivevano le terre che ebbero come scenario gli scontro tra gli eserciti musulmani da quelli cristiani

Tra questi un ruolo fondamentale lo ebbero i territori dei governarati arbër e quelli a esso appena confinanti, avendo come scontro storico la battaglia della Piana dei Merli combattuta il 15 giugno del 1389.

Essa rappresenta una pietra miliare, della via perseguita dai turchi, per conquistare Roma e l’intero occidente.

I territorio che accomunavano con simili ideali i governarati arbër, divennero il luogo ultimo per frenare il bellicoso progetto mussulmano.

Le battaglie che in queste spianate, anfratti e gole ebbero luogo, diedero lustro alle capacità innate del popolo arbër, per la difesa dei territori di pertinenza o linee da difendere, al punto tale che furono attuati accordi di mutuo soccorso,  tra la nobiltà locale Balcani e in seguito con quelle oltre Adriatico.

Ebbe così inizio un scambio di difesa in forze di uomini mezzi e armi, che da un lato garantiva una linea bel lontana dalle coste occidentali dell’adriatico e dall’altra  aiuti fondamentali per non soccombere all’invadenza turca.

Intanto nelle terre del regno di Napoli, le trame francofone, e le preoccupazioni relative d’invasione resero indispensabile predisporre nel 1448 le opportune linee di difesa in Sicilia, Calabria e Puglia, insediando gli arbër che nel contempo rassodavano e mettevano a coltura terre incolte o dismesse per la insalubrità diffusa.

Quando nel 1460 le politiche del papato e quelle francofone, resero incontrollabili gli atteggiamenti dei baroni verso il re di Napoli, fu lo stesso Giorgio Castriota (che dalla fine del 1443 aveva fatto comprendere ai turchi, il senso della famiglia Kanuniana) a gestire la situazione nella famosa battaglia di “terra strutta” e poi predisporre i presidi idonei a frenare ogni tipo di ribellione.

Nel 1468, anno della morte del valoroso condottiero, secondo gli accordi dell’Ordine già in atto; fu l’anno prima della morte del condottiero che Giorgio ebbe  in affido la figlia di Vlad III Principe di Valacchia, Donica Comneno raggiunge Napoli ospite a corte con la “bambina” e i due figli “Giovanni e Vojsava”.

Appare evidente che a questo punto caduta quella linea per la difesa dell’occidente, il limite deve arretrare e quali presupposti migliori per approfittarne della presenza della moglie e i figli di Giorgio Castriota a Napoli e accogliere famiglie arbër, al fine di predisporre un controllo serrato degli d antagonisti più efferati e disegnare aree specifiche dove far insediare gli arbëreshë, liberi per i primi cinque decenni di muoversi  nei territori del regno secondo un progetto strategico studiato a tavolino.

Nascono cosi, la linea dell’infinito calabrese,  il limitone pugliese  e la linea del fortore, a queste si aggiunsero per i principi più irriducibili, presidi  mirati, vere e proprie linee di controllo, come quella del tarantino contro gli Orsini che contavano oltre dieci agglomerati, la Sansaverinense con oltre venticinque agglomerati e quella del Sarmento altri dieci agglomerati, contro i Principi di Bisognano.

La definizione capillare delle linee di controllo, sarà trattata in uno specifico grafico che allo stato è in puntuale definizione; resta un dato inconfutabile, a ogni linea d’insediamento, corrispondono un numero considerevole di agglomerati arbëreshë, in funzione dell’ostilità dei principi verso il re .

Sta di fatto che dalla prima migrazione del 1448 sino agli albori del 1500 le disposizioni degli arbëreshë seguono una regola precisa, che non è mai casuale o lasciata al caso, perseguendo sempre  due fini complementari: il primo economico e mirava a mettere a regime territori incolti o comunque abbandonato; il secondo, creare una sorta di cortina per il controllo del territorio dei principi ribelli.

Questa disposizione delle genti arbëreshë nel territorio del regno di Napoli non viene mai dismessa, vero è che dopo la realizzazione degli atti di sottomissione e le vicende religiose mai dismesse dal papato, gli arbëreshë furono sempre tutelati nella valorizzazione del proprio patrimonio culturale, linguistico, consuetudinario e religioso, indispensabile per difendere le direttive reali a mai quelle locali.

Conferma di ciò sono le disposizioni di Carlo III, il quale una volta insediatosi a Napoli, per la sua difesa e del suo seguito istituisce il reggimento Real Macedone del Regno di Napoli, non affidandosi dell’esercito; il reggimento, la cui estrazione  di matrice arbëreshë preferiva esclusivamente elementi provenienti dalle terre balcaniche; persino il cappellano militare era di medesima discendenza, il Reverendo Giuseppe Bugliari, naturalmente arbëreshë ka Shën Sofia; ma questa è un’altra storia.

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LA PERCEZIONE PERFETTA

LA PERCEZIONE PERFETTA

Posted on 17 giugno 2019 by admin

LA PERCEZZIONE ERFETTANAPOLI di (Atanasio Pizzi) – L’intervento qui riportato, indaga l’humus culturale della regione storica e vuole definire il debito culturale accumulato verso i luoghi, i protagonisti e le attività utili a comporre il quadro della cultura storica e cosa ha attratto gli addetti a volgere l’interesse verso il tramonto della cultura.

Quando nell’estate del 2004 entrai nella sala consiliare del comune Sofiota ad ascoltare cosa era riferito in merito al tema “la gjitonia”; dire che rimasi stupefatto è puro eufemismo.

Appariva evidente un’impronta d’isolamento geografico e storico, lasciando il campo aperto a una storia dominata dall’approccio di una filosofia locale o attinta dalle fonti impermeabile all’esperienza dell’individualismo.

Notai da subito il profilo culturale degli oratori  e nessuno aveva consapevolezza di cosa diceva e cosa lì a pochi passi nello sheshi di “Zia Klentina Magazinitë” aveva avuto luogo non molto tempo prima a torto dei loro enunciati.

Ritenni che la mia percezione dello stato culturale fosse veritiera, oserei dire perfetta, in quanto, non vi era alcuna attinenza con la realtà, degli uomini, degli avvenimenti e delle persone; istintivamente mi sono apprestato ad uscire da quel buio culturale.

Quel pomeriggio dell’estate del 2004, fu calpestata gratuitamente, la memoria, la dignità e i trascorsi storici di tante persone di nobile morale.

Era palese che nessuno degli oratori si fosse mai guardato attorno o si era informato di cosa fosse quel luogo di incontro, ne tanto meno cimentato in studi a largo spettro o confrontato le vicende storiche che avevano visto protagonisti la Scuola Sofiota.

Si narravano episodi privati del luogo, del senso, dello spazio, del tempo e delle persone coinvolte, in poche parole si raccontavano frammenti sconnessi di un tempo mai vissuto o che trovava applicazione nei trascorsi storici esclusivamente arbëreshë.

Iniziò cosi un periodo di indagine per confrontare le mie ricerche con un numero considerevole di addetti di quelle rappresentazioni, così come di tante altre; lo specificare domande di epoca degli uomini e dell’edificato storico, nessuno erano in grado di rispondere e il più delle volte adduceva personali e campanilistiche spiegazioni, come ad esempi:

“Scuola Sofiota” era ritenuta come l’operato di un povero di prete (Gnë zop Zotë);

Il valore dello Sheshi dei “Bugliari di sopra” era associava alla cantina di Joscari;

Gjitonia abitualmente identificata come simile al vicinato;

Bagliva e di Kaliva, due elementi senza nesso;

Luigi Giura, Vincenzo Torelli, si ignorava chi fossero;

Rione e Quartiere la traduzione inconsapevole di gjitonia;

Pagliashpitë; un toponimo di paglia ;

Valje, il  ballo albanese del 24 aprile del 1476;

primavera Italo-Albanese, il buco nero degli arbëreshë per imitare le Valje;

Cavallerizzo, un’operazione umanitaria che aveva distratto molti cuktori;

Il Collegio Corsini, la perfetta operazione immobiliare;

Dare senso al ricordo di Giorgio Castriota senza doverlo appellare Scanderbeg, è un po come raccontare un episodio fantozziano;

Gli insediamenti della Regione Storica arbëreshë, troppo complicato, in quanto ancora è ignoto il vocabolo regione;

Il confini dell’infinito grecanico, il buco nell’ozono;

Il sogno perseguito dai cultore? imitare i Fratelli Grimm;

Quando ho iniziato, negli anni settanta del secolo scorso, la mia esperienza sul campo del restauro e della valutazione delle consistenze architettoniche, per il migliore rilievo; un vecchio ed esperto architetto, mi diceva sempre di essere diffidente sempre dovunque e comunque, nei confronti di quanti nella loro esperienza curriculare presentavano la propria maturità sviluppata esclusivamente nel chiuso dei dipartimenti.

Il vecchio amico, riteneva e aveva ragione, che i curriculari abitualmente, non mettevano a confronto le nozioni del chiuso, con quanto ancora del costruito storico resta indelebile all’aperto, rimanendo per questo molto indietro con la conferma dei dati.

Queste ha subito per decenni, la storia con protagonisti gli arbëreshë, le cui esaustive diplomatiche, anno trovato collocazione e dovizia di particolari nel territorio.

A questo puto si ritiene indispensabile iniziare con le dovute cautele e realizzare lo studio perfetto, che non sia solo il frutto di percezione ma confronto tra scrittografia territorio e memoria.

Ogni addetto che si occupa e si sforza di approfondire per divulgare nozioni della regione e per la regione storica, deve essere citato per i titoli che possiede e non per quelli che si vorrebbero che non avesse, per apparire superiori o più titolati; chi fa il fotografo è fotografo chi fa l’architetto è architetto, chi fa degenerare presidi lo porta sulla coscienza e così via dicendo senza mai dimenticare i titoli che sul campo hanno meritato quanti hanno lavorato per il bene comune .

È tempo di non dire più messa, in italiano/latino; identificarci nel vicinato, appellandolo gjitonia; cantare valjie, dicendo che sono balli; appellare Giorgio Castriota, con il nome di quando era il nostro nemico.

Se siamo arbëreshë un motivo storico ci deve essere, dobbiamo solo studiare e ricercare i riscontri nel territorio; non serve copiarlo nelle pieghe dei Sassi di Matera; per apparire più credibili; gli arbëreshë lo sono di natura!

Chi lo fa ed è nativo di un luogo che non trova collocazione in nessun contesto, se non risvegliare armonicamente i cinque sensi arbëreshë, può fare altro e ricercare altre cose.

Solo i prescelti sono in grado di avvenire con il cuore e con la mente, la percezione perfetta, quella unica e sola trasportata, dalle terre natie sei secoli ormai sono.

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L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORI

L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORI

Posted on 10 giugno 2019 by admin

L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORINapoli (di Atanasio Pizzi) – La storia la scrivono i vincitori, il tempo poi lentamente consuma le spigolature e rende la visione dei fatti chiara e priva di ombre.

Gli scritti storici, tendono a giustificare i vincitori, arricchendo con dovizia di particolari gli scontri, la sopraffazione e le pene inflitte ai vinti che non terminano mai di essere oggetto di giudizio dei vincitori e i loro sottoposti.

I vinti, oltre a soccombere materialmente, sono obbligati a rinunciare ai propri principi morali, senza che alcuno produca una nota sui motivi per i quali  è stata scelta la via dello scontro.

Quanto qui di seguito viene esposto racconta di un antico e caparbio popolo, gli arbëri, i quali  facendo leva sulla solidità identitaria, certi di innestare la propria radice culturale su nuove terre parallele, sopravvalutarono, purtroppo, quanti avrebbero dovuto produrre i nuovi recinti per la difesa dell’immateriale in loro possesso.

I vinti arbëreshë dal XIV secolo, (dopo la morte del loro condottiero Giorgio Castriota, secondo quanto afferma Giovanni  Fiore da Cropani, “volgarmente denominato Scanderbeg”), furono accolti nei territori dal Re di Napoli, per rifiorirli e nel contempo controllare Roma e i baroni ribelli.

I profughi diedero avvio al loro illusorio percorso di tutela, prima abbandonando quanto di materiale possedevano, attraversarono mari e poi risalirono le chine delle colline meridionali, alla ricerca degli ambiti paralleli alla terra di origine, portando le cose immateriali più intime, compreso l’alias della medaglia a due teste, di matrice turca Scanderbeg.

Questo fu il primo grave errore subliminale sottovalutato, che ha dato la misura dell’ingenuità dei profughi, i quali, scappavano dalle loro terre per non essere sopraffatti, inneggiando al nome turcofono del condottiero da seguire.

Forti di quanto era rimasto impresso nella loro mente, s’illusero che sarebbe stato sufficiente attraversare nuovi territori e una volta bonificati quelli per vive, sarebbe iniziata la loro  parabola di pace e prosperità.

Purtroppo non è stato così, infatti, dopo un’intervallo di confronto con le genti indigene, gli antichi abitanti della odierna Albania, (gli arbërë) immaginarono che la disfatta in terra madre, ad opera dell’invasore turco, fosse terminata e la via verso la libertà di culto e di pensiero, secondo gli antichi dettami, non avrebbe più avuto chine da superare.

A ben vedere e con il seno di poi, così purtroppo non è mai stato e neanche per un battito di ciglio, in quanto, prima la deriva religiosa imposta dai latini, poi, l’ostinazione di imporre una scrittura, in seguito, l’imposizione di svuotare la metrica del canto e riempirla di poesia, hanno portato  le genti della regione storica arbëreshë, a compiere un “cerchio di tutela culturale” che li ha riportati nello stesso risultato da cui si erano illusi di sfuggire sei secoli, ormai sono.

Una vicenda paradossale che se analizzata con dovizia di particolari storici, senza alcuna forma, politica o clericale di parte, si potrebbe definire la beffa storica.

I motivi e le tappe che descrivono questa parabola illusoria, in quanto gli Arbëri miravano a quanto qui si seguito elencato:

  1. Non soccombere alla pressione di una religione dissimile dalla greco ortodossa;
  2. Non  assumere consuetudini ignote fuori dalle regole degli stradioti riassunte nel Kanun;
  3. Non parlare attingendo  in modelli scritto grafici;
  4. Seguire esclusivamente la propria metrica canora;
  5. Tutelare  i propri usi e costumi;
  6. Tutelare ambiti del costruito storico;

Non serve molta conoscenza della storia arbëreshë, per rendersi conto che questa è la realtà che non dovevamo vivere e nonostante tutto viviamo a dispetto di ogni principio per il quale fu scelto  l’esilio; ed è per questo che risulta facile segnare il punto a chiusura  dell’ironico cerchio, che poi è lo stesso punto dei calori sociali da dove eravamo partiti, a conferma di ciò si riassume  ogni cosa nelle note seguenti:

  • I profughi arbëri una volta stabilitisi nelle terre a loro assegnate, secondo uno schema ben ideato dai re Aragonesi, furono subito al centro dell’attenzione della chiesa, che per la perdita di risorse economiche, faceva leva sui riti dissimili a quelli latini e nel tempo di pochi decenni fece volgere le preghiere non più verso oriente; già alla meta del XVI secolo, di cento comunità arbëreshë, se poco più di venti sono state parzialmente graziate lo devono all’infinita crociata che Roma attende ancora di architettare.
  • Dopo questa prima fase nasce il plesso per la modellazione di prelati, per imporre lettere prima greche, poi latine, poi il mix di alfabeti che hanno fatto sorridere tutta l’Europa culturale e la grande massa degli arbëreshë che miravano al progetto di fuga, preferirono mantenere le distanze da questa blasfemia culturale.
  • Intanto le vicende culturali poste in essere spezzano molte tradizioni storiche, anche se le masse in maniera palese non avvertono materialmente nessuna ferita che si può ritenere tale; così si protrae sino a dopo la seconda guerra mondiale, quando la tendenza di caratterizzare gli ambiti costruiti, a seguito del boom economico, avvia a una deriva che nel corso di pochi decenni fa ritornare le genti della regione storica nelle stesse condizioni, cui sei secoli or sono cercarono di divincolarsi.
  • Nei fatti analizzando gli elementi materiali ed immateriali su cui oggi si regge la storica regione, si nota facilmente che sono mutate tutte le consuetudini laiche e clericali, secondo disciplinari alloctoni e non trovano ragione di essere in nessuna delle consuetudini arbëreshë.
  • La lingua imposta e proposta, mira a quella skiph di radice e metrica turca, oltretutto irrispettosa del fatto che noi arbëreshë siamo gli unici detentori della radice originaria.
  • L’inesperienza di caratterizzare gli edificati e gli ambiti urbani ha impresso  una deriva folcloristica paradossale, facendo apparire come il luogo di costumi e costumanze tipiche o riferibili alla radice turca, se poi a questo associamo le feste, le sagre, le danzate del ventre in costume, associata a sventolio di fazzoletti, il ritratto dell’harem è completo; asi vuole ribadire il concetto di “ritratto”, giacche, se si volesse riprodurre una rappresentazione filmica, la tragedia per gli arbëreshë sarebbe completa, in quanto le sonorità di tamburi, clarinetti e vocalità sono la conferma che pur essendo fuggiti e allocati lontano dalle regioni di matrice imposta, gli emissari culturali inviati dai mandamenti turchi, hanno saputo fare un ottimo lavoro di piegatura all’interno dei nostri katundë, quella piegatura culturale, consuetudinaria, metrica e religiosa da cui pensavamo di essere sfuggiti.

Complimenti ai turchi e in particolar modo a tutti gli “emissari” che pur di apparire, hanno venduto l’anima e il “buon cuore” della loro memoria.

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REGIONE STORICA ARBËRESHË E ARBËRIA: IL SACRO E IL PROFANO

Protetto: REGIONE STORICA ARBËRESHË E ARBËRIA: IL SACRO E IL PROFANO

Posted on 21 marzo 2019 by admin

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LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, ONOREVOLE SERGIO MATTARELLA,  A QUESTA MIA LETTERA

Protetto: LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, ONOREVOLE SERGIO MATTARELLA, A QUESTA MIA LETTERA

Posted on 19 marzo 2019 by admin

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REGIONE STORICA ARBËRESHË

Protetto: REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 06 marzo 2019 by admin

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VEDOVE BIANCHE.

Protetto: VEDOVE BIANCHE.

Posted on 02 marzo 2019 by admin

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