NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il mio luogo natio Katundë, che non molti sanno, racchiuda il significato di luogo di confronto e movimento solidale di donne, per allevare al meglio ogni figura o genere.
Esso ai tempi della mia nascita, era già diretto dal governo delle donne e approvato dall’operato degli uomini, il tutto, articolato in Gjitonie o luoghi dei cinque sensi, composti di madri, mogli e figlie di uomini, che gestivano i campi di semina Haretë o Rashj.
Era in queste macro culle sociali al femminile, che ogni nuova generazione, riceveva abbracci materni e, per i meno fortunati allo scuro di questi valori, ricevevano gli abbracci solidali del governo delle donne.
Le stesse, che instancabilmente, giorno dopo giorno, non trascuravano il vigilare che non aveva, un abbraccio mattutino, guida giornaliera e la nenia prima di andare a letto, perché tutti erano figli e figlie allo stesso modo, anche i meno fortunati appellati con discrezione (làlà o bibilljë).
Rammento l’uso di questi sostantivi, con cui mia madre indicava làlà, chi da piccolo aveva diviso con me il latte e bibilljà chi era cresciuta senza padre e, per questo passata al controllo del governo di Gjitonia.
Il ” governo delle donne arbëreşë” cresceva, formava e indicava la via alle nuove generazioni elevando la morale di quanti poi sarebbero diventati guida nella comunità, senza escludere alcun genere.
Il modello qui citato, va interpretato come leadership culturale e sociale, non di mera radice politica per fare prevaricazione, ma del ruolo delle donne nella trasmissione dei valori, della lingua, delle tradizioni religiose, oltre al senso del bisogno comune da valorizzare spazi, cose e generi, preparando le figure più idonee e senza preferenza alcuna a sostenere questi fondamentali teoremi.
Gli stessi che dismesso l’antico governo delle donne, oggi sovrastano e alimentano la politica della minoranza, fatta dai meno adatti.
Quei luoghi del Katundë natio e formativo, che conoscevo e conosco uno ad uno, pur se manomessi, spianati senza ragione, per essere veicolabili e labili, sono tutti allocati e riparati dal vento, esposti con garbo e misura al sole, per questo, il governo qu riunito, esplicava le proprie funzioni in piacevole dislogo e senza pene la permanenza.
Per questo motivo, ogni decisione era presa con misura e, quando nasceva, si sviluppava con merito in favore delle giovani leve in crescita.
Qui erano accolti tutti i generi senza prevaricazione alcuna dirsi voglia raccomandazione, sin anche chi aveva diversità abile, in quanti tutti avevano una collocazione dignitosa all’interno della iunctura familiare che teneva il fuoco acceso di questo governo al femminile.
Ogni Gjitonia seguiva con attenzione le attività, di formazione sociale, religiosa o ricorrenze di credenza nel corso dell’anno solare.
Si allevavano e si formavano generi, secondo protocolli cristiani e nessuna delle madri allevava i figli sotto il noce allattandoli, con la luna crescente, ma sotto il sole dei luoghi ameni di Gjitonia; l’abbraccio naturale fatto di amore e sensi genuini.
I Katundë per questo sono stati sempre ben amministrati, ad iniziare dalle singole case, che si riverberavano nel centro antico e dei suoi cunei agrari di prodizione, trasformazione e conservazione.
Cosi come i percorsi carrabili che davano agio al lavoro a tutte le attività che facevano economia e progresso e cultura, incastonato tra i vicoli, gli archi, vichi chiusi, le piazzette e gli indispensabili orti botanici, questo un insieme che rendeva le consuetudini arbëreşë, inarrivabile dagli indigeni o da quanti volevano trarre beneficio dalla consuetudine governata, diretta e sostenuta dalle donne.
Quindi, nei Katundë (e nel suo agro), l’educazione dei figli era affidata alle donne e le ragioni culturali e sociali, trovano ragione, per i seguenti motivi.
Essendo i Katundë basati sui principi patriarcali, l’uomo era il capofamiglia, lavoratore e “portatore di reddito”, mentre alla donna spettava il ruolo di “angelo del focolare”, responsabile della gestione della casa e la crescita e formazione dei figli.
Specie in contesti isolati o rurali, come i Katundë arbëreşë, dove la vita si organizzava secondo ruoli e compiti in maniera molto solidale.
Vera era che le donne stavano in casa o nei contesti di iunctura, accudendo figli e anziani, mentre gli uomini erano impegnati in lavori più lontani e pesanti.
Tutto questo venne sostenuto sino al Novecento inoltrato, quando le donne avevano meno accesso all’istruzione e difficilmente lavoravano fuori casa, rendendole “disponibili” per l’educazione e il sostegno familiare.
Questa condizione le confinava, per usare un eufemismo, nel ruolo educativo, anche senza un vero riconoscimento formale, in molte culture inclusa la cristiana, tuttavia le donne erano le figure affettive morali e baricentriche, sia per la Chiesa e sia per le consuetudini che rafforzavano la famiglia con questa prima educatrice, soprattutto nell’insegnare valori morali, religiosi e comportamentali.
Tuttavia va considerato, che all’epoca, vi era assenza di asili, scuole dell’infanzia o servizi sociali e, l’educazione dei bambini avveniva interamente in casa, riversando il ruolo delle madri in quel contesto di Gjitonia, supportate da altre donne della famiglia, come nonne, zie e sorelle maggiori.
Va sottolineato che la maggior parte di queste, non aveva alcuna formazione pedagogica o medico-sanitaria, soprattutto fino alla metà del Novecento, per riconoscere e affrontare disabilità cognitive, sensoriali o motorie.
Di conseguenza, l’intervento educativo si basava sul buon senso, l’osservazione quotidiana e l’affetto, che le donne potevano dare per relazionale l’accudimento, socializzazione o, stimolo emotivo in grado di intercettare il ruolo più idoneo all’interno del gruppo della figura che aveva necessità di inserimento.
In tutto forme pratico-funzionali di gesti semplici della vita quotidiana, come mangiare, vestirsi, camminare, o rendere pratici di un’attività per valorizzarli, con atti ripetitivi a imitazione, cercando di incidere attraverso esempi e routine il meglio che si poteva dare.
Il protocollo comunque pur se privo di basi scientifiche, era fondamentale per il rispetto e lo sviluppo emotivo e sociale di questi giovani in crescita, avendo cosi un ruolo preciso all’interno della iunctura familiare.
Per questo, l’essere diversamente abili, non era vissuto come una “sfortuna” o “punizione”, ma offrire socialità e stimoli alternativi che evitavano l’isolamento.
In tutto un’educazione basata sull’amore e sull’esperienza, per affrontare bisogni speciali, in un contesto che non offriva nulla in termini di supporto professionale, ma solidarizzava il rispetto verso sé stessi e gli altri.
Gjitonia era per tutti e senza alcuna distinzione, una scuola senza lavagna, senza inchiostro, pennini, matite quaderni e fogli piani o arrotolati.
Gli unici attrezzi per apprendere e parlare in arbëreşë, erano e sono cuore, mente, occhio e orecchio e, la lavagna, dove volgere sguardo e attenzione, erano le prospettive dell’ambiente che generava le infinite prospettive della vita fuori e dentro la natura.
Quelle righe che ogni giorno, il corpo docente delle donne, in quella iunctura familiare senza confini non rimandava alla fine della stagione lunga o ti boccia per ripetere l’intera stagione corta, ma sosteneva tutti, senza soluzione di continuità siano al compimento della formazione.
A tal fine è bene precisare, anzi addimandare a tutti voi che qui leggete e, avete conoscenza e padronanza completa del parlato in arbëreşë: quanti libri avete letto, quanti quaderni avete compilato, quanti calamai avete versato, prima di esprimervi correttamente con l’idioma ereditato dalle vostre madri thë Gjitonia.
A tal proposito sappiate che l’attestato che: l’asilo, le scuole primarie, secondarie, l’università e “quinquenni specialistici”, qui si attribuivano solo per meriti e, le nostre nonne, madri, sorelle depositavano ogni cosa, nel nostro cuore, nella nostra mente, per questo, chi oggi mira a ripetere quella operazione con libri, lavagne e vocabolari riversi, non si rende conto, del male che produce, alla sostenibilità della natia minoranza, la stessa che vive, riverbera e sostiene la Regione Storica degli Arbëreşë.
Personalmente ho vissuto con profitto questa realtà e, oggi quando sento riverberi di radice Albanistico/a, mi ritengo fortunato, e fiero di aver saputo cogliere per intero questa storica eredità così grande e indivisibile.
Nello svolgersi della vita bisogna raccogliere tutti i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto, giacché, ogni frammento contiene l’anima di un vissuto, un sacro lume da custodire, con cura e devozione; nulla va perduto perché è grazia di ogni sacro momento della vita.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025, il giorno di Sant’Atanasio Patriarca