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SPAZIO NATURA TEMPO E MEMORIA DEI PAESI DIFFUSI ARBËRESHË

SPAZIO NATURA TEMPO E MEMORIA DEI PAESI DIFFUSI ARBËRESHË

Posted on 25 marzo 2020 by admin

NAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Il Mediterraneo nella storia rappresenta il bacino che unisce, uomini, civiltà, consuetudini, religioni e pratiche di vita differenti.

Le terre a esso prospicienti, in particolare quelle dell’odierna Italia meridionale, sono state le più ambite da tutte le popolazioni in movimento del vecchio continente, non per essere conquistate e distrutte ma per essere vissute.

Ragion per la quale vi trovò approdo Greci, Arabi, Bizantini, Normanni, Longobardi, Francofoni, Ispanici e tante altre popolazioni o dinastie di rilievo; ognuna di essi ha depositato temi unici e indissolubili.

Il valore aggiunto di questa lingua di terra mediterranea, è racchiusa nel dato che essendo  stata stesa alla luce del sole, quando esso viaggia da est a ovest, mitiga i territori e il mare accarezzati in questo bacino.

Va in oltre aggiunto che tutte queste popolazioni, non avendo idee bellicose, nel corso della loro permanenza anno depositato valori, depositando elementi identitari caratteristici che rinforzarono l’identità di questi luoghi.

Per questo, la storia, li considera, quale luogo ideale d’incontro e confronto di religioni, gruppi sociali e nuove tendenze, tutte queste, attraverso le proprie attività materiali in campo urbanistico e architettonico, unitamente ai valori immateriali, partecipi in diversa misura a renderla “terra irripetibile”.

In questo breve argomento di thema, si vuole mettere in luce il contributo dalla minoranza storica identificata come “Arbëreshë” un tempo Arbëri e ancor prima Arbanon; i discendenti del modello d’integrazione diffusa più solido e vivo del mediterraneo.

Di estrazione Arbanon, gli Arbëreshë sono la dinastia che proviene degli Stradioti (i soldati contadini), ancora presenti nel meridione italiano, con le stesse modalità identitarie caparbiamente conservate e sostenute, secondo la sola forma orale, ritmata dalla consuetudine, la metrica del canto e la religione Greco Bizantina.

Per quanto attiene agli aspetti abitativi, sociali ed economici, la minoranza Arbëreshë, si può ritenere tra i pionieri italiani della “città diffuse” o “impianti urbani Aperti”.

Questi nel corso del XV secolo s’insediarono in questa lingua di terra multietnica, prevalentemente ripopolando casali disabitati posti nei pressi di chiese e a media distanza dai Borghi amministrativi del potere politico, religioso e scambio mercatali.

Si disposero in sette regioni del meridione secondo “Arche strategiche” con finalità ben programmata, realizzando così quella che oggi è identificata come “La regione storica diffusa Arbëreshë”, sedici macro aree, di cui fanno parte oltre cento agglomerati urbani tra paesi (Katundë in arbëreshe) e frazioni (kushëth in arbëreshe) tutte territorialmente distanti dalle aree paludose (Fushëth in arbëreshe).

La caratteristica che contraddistingue gli agglomerati apparentemente disordinati, è racchiusa nella toponomastica e nell’aggregazione del modulo abitativo di base, che si articola lungo lingue di terra ben identificate secondo sistemi, prima articolati e poi in seguito lineari.

Quattro sono gli elementi toponomastici storici dei centri antichi Arbëreshë: gli ambiti del credo, ovvero, la chiesa Greco Bizantina (Kishia); Il promontorio o luogo di osservazione (Bregu);  l’ambito circoscritto di primo insediamento Piazzetta (Sheshi); gli spazi delle attività ed espansione (Katundi).

Sono sempre quattro i toponomi ricorrenti in tutti agli odierni “centri antichi”, l’identico sistema urbanistico aperto, adottato sin anche nelle terre di origine balcaniche.

La conferma di ciò giunge, anche dagli studi e le metodologie, adottate negli schema aggregativo del modulo base Kaliva o Katoj, che gli architetti di Re Calo III° adottarono per accogliere le famiglie di quanti prestarono servizio nelle famosa armata Real Macedone Partenopea dalla metà del XVIII secolo in Abruzzo.

Di sovente i Katundë (paesi arbëreshë) sono comunemente confusi con “Borghi Medioevali”, anche se gli Arbanon, Arbëri e in fine Arbëreshë, quando vivevano nella propria terra di origine, in questa epoca non hanno mai fatto uso ditali apparati in senso di città chiusa; essi realizzavano i propri sistemi abitativi a stretto contatto con il territorio agreste, in cui il modello Katundë esigeva la misura diretta con il territori, risorsa indispensabile, che si rinnovava ogni anno e senza barriere o confinamenti di sorta.

Oltre cento tra paesi, frazioni e casali furono ripopolati dal XV secolo fuori dai centri di potere dei borghi, da cui dipendevano; una tessitura urbana identificabile nel rione romano dal punto di vista espansivo, mentre per quanto riguarda le architetture e gli aspetti sociali attingeva della radice greca,

La differente mentalità nel modo di insediarsi rispetto agli indigeni locali, non sempre, dagli storici è stata intercettata con successo, infatti, comunemente si confonde il modello sociale di mutuo soccorso degli indigeni, “il Vicinato” con quelli dei cinque sensi e di ricerca dell’antico ceppo familiare arbëreshë, detta “la Gjitonia”, ritenendoli identiche, equipollenti o simili.

I Vicinato e la Gjitonia, sono due modelli sociali ben distanti e pur se coabitando ambiti simili sono diametralmente opposti:

Il Vicinato, genericamente interessa la fascia mediterranea che da Est ad Ovest  comprende l’Abruzzo sino alla punta più a sud della Sicilia; coinvolge similmente tutte le popolazioni della Grecia più ad Est, sino alla punta più estrema della penisola Iberica, unendo in questo ambito, individui di radice dissimile,  in cooperazione sociale genericamente sotto il controllo del “commarato o mutuo soccorso”;

La Gjitonia sono gruppi familiari allargati che s’insediano nelle stesse aree, secondo disposizioni su trattate; macchina sociale precostituita, in cui ogni elemento o gruppi di elementi ha ben chiaro il ruolo da svolgere, diritti e doveri per la sostenibilità dei gruppi, in armonia e nel pieno rispetto del territorio;

Ponendo a confronto i valori spaziali dei nuclei urbani monocentrici degli indigeni e quelli policentrici Arbëreshë, si comprende quale sostanziale differenza distingueva quanti s’insediarono in fuga dalle terre d’oltremare e chi già in quelle terre dimorava.

Tornando alla storia del nostro Katundë arbëreshë, va rilevato che dopo un periodo medio breve di confronto e scontro, con gli indigeni locali, iniziarono a edificare le prime case in muratura, prima modeste, in cui gli elementi fondanti erano: il recinto, la casa e l’orto botanico, un micro ambito circoscritto idoneo a soddisfare le esigenze dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici o da lavoro e trasporto.

È in questo spazio “micro stato” che avviene il miracolo di gjitonia, è la conseguente mutazione della “famiglia allargata”, in “urbana diffusa” e poi, in tempi più recenti fa parte del sistema, ” metropolitano/multimediale”.

Il modello sociale cambia la sua funzione secondo le mutazioni dei processi economici, sviluppatisi dal XV al XVIII secolo, quando i moduli abitativi quadrangolari a piano terra, è stato sovrastato un piano superiore, poi il conseguente frazionamento ereditario conseguenza, della sopraggiunta “famiglia urbana”, prende in prestito dagli indigeni i noti e indispensabili profferli, per disimpegnare le proprietà.

Il terremoto del 1783, e la posizione regia, dettano nuove regole per l’innalzamento e i posizionamento dei nuovi fabbricati, o quelli da recuperare; in oltre grazie all’abolizione di Cassa Sacra e la conseguente acquisizione di territori da parte di molte famiglie che le portarono a regime produttivo, nasce una nuova classe sociale che per le risorse economiche incassate, si distingue nei noti palazzotti nobiliari, con segni dell’architettura del rinascimento architettonico.

Gli stessi segni e manufatti identificativi che le classi meno abbienti emulano con superfetazioni di vario genere inglobando gli antichi profferli, trasformandoli in volumi di pertinenza nei pressi delle proprie abitazioni.

Nonostante la crescita economica e l’insinuarsi dei nuovi presupposti sociali e della comunicazione, oggi rimangono poco meno di cento Katundë Arbëreshë, i cui centri antichi,conservano interessanti episodi in forma materiale e immateriale: edifici, sonorità linguistiche, artistiche e religiose, sono il patrimonio con il quale allevare le muove generazioni, secondo precisi e antichi principi di accoglienza e cooperazione con indigeni locali; a noi buoni osservatori spetta il compito di vigilare come avviene il passaggio dei  dettami con le nuove generazioni al fine che nulla dell’antica consuetudine, dell’idioma, della metrica e della religione sia travisato o deposto non il linea con la “PROMESSA DATA”.

P.S.

L’immagine ritrae ed è offerta dalla Dottoressa Martina Lavriani di Santa Sofia D’Epiro (CS)

Didascalia:

Atanasio Arch. Pizzi l’Arbëreshë: il rilievo architettonico storico Mediterraneo, la ricerca, la sostenibilità ambientale e il costruito dei cinque sensi; sono il progetto per il futuro sostenibile.

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BREVE STORIA DEI  KATUNDË ARBËRESHË

BREVE STORIA DEI KATUNDË ARBËRESHË

Posted on 23 marzo 2020 by admin

Breve storiaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La storia ci insegna che spesso ogni cosa buona è stata distrutta per essere in seguito faticosamente ritrovata e raffermata; questo travaglio ha interessato anche i Katundë arbëreshë, il cui costruito storico, oltre alle vicende li avvenute, sono state distintamente compromesse, oggi spetta allo spirito di buon senso di quanti vivono, questa pena riaffermare e rendere giustizia al principio storico citato.

La minoranza storica definita dall’odierna letteratura come, Arbëreshë affonda le sue origini nella costituzione dei themati, quando la capitale dell’Impero era Costantinopoli.

Nota  l’estensione  dell’impero, i themi di confine rappresentavano la linea più delicata del nuovo sistema, ovvero, la cui gestione dei confini, non più come ai tempi Roma capitale, fu realizzata secondo un nuovo modello territoriale,  in cui, per tenere ben difeso e saldo il confine territoriale, venne istituita la figura dello stradiota, “il soldato contadino” secondo un antichissimo modello di radice  centro europea.

È in questo periodo della storia, che si può ritenere, senza perdere il senso del discorso, sia messo in evidenza e affinato il gruppo familiare allargato, che poi ritroviamo riassunto nelle pagine Kanuniane.

Gruppi familiari allargati fedeli al governo centrale, il quale affida consistenti porzioni di territori di confine e non solo, da difendere e nello stesso tempo  coltivare e rendere produttivi, la metodica trovò forte applicazione anche nelle storia  della solida Venezia e in seguito nel corso dei secoli, in numerosi frangenti, il modello, venne applicato con le stesse dinastie,  prevalentemente erano di origine Balcanica, avendo come risultato sempre la difesa di territori in continua disputa.

Ed è su questi brevi accenni storici che si deve indagare, dalla fine del medio evo e l’inizio della storia moderna, per estrapolare cosa sia avvenuto e caratterizzato unitariamente gli agglomerati urbani della Regione storica diffusa Arbëreshë, dal resto dei paralleli, terrestri, che attraversano da est a ovest il mediterraneo.

Oltre cento paesi, uniti dallo stesso idioma, posizione altimetrica, geografica, toponomastica, consuetudine e religione, nascono e senza soluzione di continuità progrediscono sino ad oggi, se si esclude un esempio malamente interpretato da istituzioni e tecnici.

Tuttavia, focalizzando ulteriormente , con brevi accenni, l’aspetto religioso, in specie almeno fino al concilio di Trento, le politiche ecclesiali, sono state imposte secondo prerogative romane attraverso rotacismi religiosi, poi dal 1742 con l’istituzione del Collegio Corsini, che doveva lanciare aperto il solido balcone clericale, da cui liberare una treccia di “matrimonio” con l’ortodossia più radicale orientale.

Nonostante tutto ciò gli arbëreshë hanno tenuto solide le proprie radici, con sacrifici e patimenti immani, proprio come i soldati stradiotti facevano in quelle battaglie, quando nei confini resistevano agli invasori in soprannumero, solitari ed imperterriti, nel mentre i rinforzi delle truppe bizantine giungessero a regolare i conti con i malevoli invasori.

Tornando alla storia del nostro Katundë arbëreshë va sottolineato che dopo un periodo medio breve di confronto e scontro iniziarono a edificare le prime case in muratura, prima modeste e riferendosi al solo territorio di pertinenza, il recinto, la casa e  l’orto botanico, solidamente ed esclusivamente abitato e usato dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici. da lavoro e trasporto.

È in questo spazio circoscritto che avviene il miracolo di gjitonia con il passaggio della famiglia allargata, in urbana e poi, per così dire, “sinteticamente metropolitana”.

Il modello sociale cambia la sua funzione in relazione ai processi economici e che si sviluppano dal XV al XVIII secolo, quando i moduli abitativi quadrangolari a piano terra associano un paiano superiore prima e poi in seguito per le disponibilità della famiglia urbana, associano i famosi profferli per distinguere e godere dei frazionamenti ulteriori.

Il terremoto del 1783, detta nuove regole di edificazione e consente grazie all’acquisizione di terreno sino ad allora della chiesa, ed ecco che nasce una nuova forma sociale che consente di innalzare i noti palazzotti nobiliari con segni dell’architettura del rinascimento.

Fino a questo tempo gli arbëreshë sono stati lasciati operare secondo il proprio essere e le proprie leggi sociali, di confronto linguistico e religioso, è solo dopo l’unità d’Italia che ha luogo la deriva che oggi irreparabilmente viviamo e cui si dovrebbe prendere provvedimento.

In caso di emergenza oggi si chiederebbe l’intervento della P.C.N. ma è meglio che gli arbërehsë facciano da soli e diano mandato alla persona più emblematica del proprio gruppo familiare come facevano ai tempi degli stradioti; visto come abitualmente si muovono, gli emergenziali nazionali, i quali, magari  “udendo di deriva storica”, e traducendo tutto in acqua e terreni sciolti in movimento,  si presentano  come hanno già fatto, con una carovana di camion e portano i soliti tubi tubi,  negli ambiti arbëreshë; terminando per fare guai peggiori di quelli che abbiamo gia; d’altronde per loro una volta intervenuti  devono trascorrere i quattro decenni istituzionali per non pagare pena.

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UNITI PER UNA SOLA E INDIVISIBILE PARLATA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË

UNITI PER UNA SOLA E INDIVISIBILE PARLATA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË

Posted on 21 marzo 2020 by admin

L'uomoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Facciamo le cose per bene, almeno per una volta, invece di andar per cantine  a riversare vino che per la poca accortezza manuale, diventi aceto, come dicevano le eccellenze del passato, G. S., o E. F..

Cerchiamo di iniziare non dal basso e ne dal l’alto ma dalla vita terrena, ovvero da dove si sarebbe dovuto iniziare tanto tempo addietro, ovvero, l’identificazione del corpo umano, solo in questo modo la lingua Arbanon, poi Arbër e oggi Arbëreshë, come avvenuto per unificare idiomi di nazioni con superfici consistenti e che non avevano una regola unitaria, ha avuto inizio  identificando il  corpo umano di quanti storicamente condividevano quei territori.

Non si vuole inventare nulla di nuovo, ma semplicemente attingere una metodica basilare, come hanno fatto gruppi etnico di aree ben più estese della regione storica meridionale,in cui,  descrive e riconosce se stesso  ha funzionato e dopo secoli sono solidamente coesi e si riconoscono in quel dato di radice.

Altro dato fondamentale è rappresentato dall’edificato storico della sua dimora primitiva o modulo di base e i suoi elementi costitutivi r distributivi, per passare in seguito ai prodotti dell’orto botanico, a tutela della salute; ampliando la prospettiva d’indagine verso la definizione dell’ambiente naturale e le attività di produzione di sostentamento; in fine gli appellativi degli animali domestici oltre  quelli dell’operosità sui campi.

Già adesso il compito è arduo, giacché sono mutati i sistemi produttivi e di confronto, ma sicuramente nessuno dei paesi della regione storica arbëreshë di tutte e sedici le macro aree meridionali degli oltre cento paesi, che hanno memoria della loro radice, non possono allontanarsi troppo nel riconoscere univocamente in questi appellativi la propria radice.

Non è concepibile diversificare le parlate locali e creare una confusione di appellativi, in cui si pone in evidenza, solo cosa divide e non cosa unisce la minoranza storica più longeva del mediterraneo.

Qui di seguito si elencano e si accennano in italiano cosa va tradotto e senza ombra di dubbio alcuno nessuno avrà accento da aggiungere.

Capitolo I°    : IL CORPO UMANO; Anca, Braccio, Cuore, Destra, Gola, Mano, Naso,ecc., ecc.

Capitolo II°   : LA CASA; Porta, Finestra, Muro, Pavimento Solaio Piano, Camino, ecc., ecc.

Capitolo III°: L’ORTO BOTANICO; Aglio, Alloro, Basilico, Erbe, Finocchio, Mandorlo, Gelso, ecc., ecc.

Capitolo IV°: L’AMBIENTE NATURALE; Terra, Campo, Seminato, Strada, Fontana

Capitolo V°: ANIMALI DOMESTICI, DA LAVORO E LIBERI IN NATURA; Cane, Agnello, Asino, Buoi, Galline, Rondini, ecc., ecc.

 

Chi ha voglia di segnare la retta via con metodo e secondo gli insegnamenti della storia, può inviare il suo contributo di appellativi in italiano e scritti in arbëreshë (Scritti entrambi con l’alfabeto dell’italiano corrente) al fine di contribuire al progetto che ambisce ad unire quanti sanno e sono stati lasciati ai margini di questo percorso che doveva essere diffuso e non lo è stato.

In tutto lavorare tutti uniti secondo un progetto che ha tutte le carte in regola per lasciare un segno indelebile verso il quale tutti noi ci riconosciamo e non fare come chi senza licenza edilizia attendono il condono, pur sapendo che in caso di evento tellurico si vedrà la casa stesa irreparabilmente al suoli, gli uomini possono anche ignorare e ritenere che tutto passa e va, la natura NO!

 

P.S.

Oggi inizia Vera! l’Estate per gli arbëreshë che vivono secondo l’armonia dei cinque sensi , quella pura , “intima”; quanti vivono secondo questo elemento distintivo sono le figure invitate perché i soli capaci di ascoltare e sentire questo invito,  auspicio di luce per le cultura e la convivenza, mai illuminata  perché preferita all’ombra dello scorrere del tempo.

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IL CORPO UMANO, LO STATO, LA CASA, L’ORTO E GLI ANIMALI PER LA SOSTENIBILITÀ  CURMI, SHËSHI, SHËPIA, COPSHËTI, TËBUTURATË SATË SHËNDESËTH

IL CORPO UMANO, LO STATO, LA CASA, L’ORTO E GLI ANIMALI PER LA SOSTENIBILITÀ CURMI, SHËSHI, SHËPIA, COPSHËTI, TËBUTURATË SATË SHËNDESËTH

Posted on 20 marzo 2020 by admin

IL corpo umanoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) –  Il problema dell’identità è una delle questioni più difficili da affrontare nei contesti di una società come quella contemporanea, che pur se globalizzata va alla ricerca di tradizioni o episodi in forma materiale ed immateriale che  caratterizzi un ben identificato gruppo.

Nel meridione Italiano chi vive questa endemica vicenda è la minoranza storica denominata Arbëreshë, questa oggi, scandisce il suo “vissuto storico” tra episodi indigeni e quelli della propria radice, senza avere cura e memoria di cosa gli appartiene e quanto sia stato preso in prestito.

In questa prospettiva, dunque, nasce la necessità di disegnare un quadro di riferimento semplice e ben definito, attraverso il quale individuare “la matrice” quella in grado di essere parte integrante, in una prospettiva di appartenenza multiculturale e nel contempo capace di for­nire le coordinate necessarie al vivere civile, avendo ben cura di non uniformare popoli.

La questione dell’identità, intesa come valore descrittivo non solo dei singoli, ma anche e soprattutto come impronta costitutiva della comunità e della cultura che la caratterizza­, si può quindi proporre come oggetto d’interpretazione e di analisi critica, oltre che come elemento di costruzione della personalità storica di un ben identificato gruppo culturale.

E in quest’ottica di confron­to continuo, entrano in gioco le tradizioni e ciò che caratterizza il gruppo, solo queste possono costituire un fattore importante sia per la comprensione delle dinamiche costitutive delle differenze, sia come elemento di stabilità e di radicamento capace di consentire l’integrazione e l’acco­glienza delle alterità.

Non vi è dubbio che i luoghi vissuti da diverse personalità sociali e culturali, lì sviluppano e lì abitano nello scorrere del tempo, diventino l’elemento fondante di una riflessione condivisa con le identità, che di fianco scorre.

 

“Nulla nasce dal nulla;

ogni storia ha sempre una preistoria, nasce da una storia e prelude a un’altra storia”

 

Con queste parole Giu­seppe Galasso è riuscito a esprimere in modo lapidario la ne­cessità dell’uso della memoria, pensata e condivisa, esistenza delle identità collettive prime e individuali poi.

Accomunate da senso di appartenenza successivamente, vanno analizzate secondo prospettive di storicità primitiva e discernere cosa le è stato arbitrariamente assegnato.

In oltre il tempo ritmato tra globalizzazione e campanilismi per identificare l’oggetto della riflessione storiografica pone problemi nuovi e di non immediata soluzione.

L’omogeneità dei luoghi violentata dall’inconsapevolezza della politica economica, ignara del filo logico fornito delle carte storiche a tutela, del restauro dello stato dei luoghi, li ha resi protagonisti di prima linea, nell’usufruire del banale atto dell’abbellimento formale, specie quando lo sviluppo economico poneva nelle loro disponibilità consistenti risorse economiche.

Il risultato forse è in linea con le esigenze della spazialità contemporanea e con i processi di riconoscimento comunita­rio, rintracciabili nella società del consumismo odierna, ma l’usa e getta per poi rifare non è adatto per le originarie essenze o la memoria,  depositata ai margini del progetto e talvolta la prima ad andare in discarica, giacché ritenute poco adatte ad una modernità che porta nell’ignoto.

La connotazione delle diverse macro aree, dal punto di vista amministrativo, non sempre si dimostra capace di disegnare un ambiente nel quale i cinque sensi arbëreshë siano in grado di rintracciare i tratti distintivi necessari a intraprendere lo storico percorso identitario.

Percorrendo la storica via del complesso meccanismo condiviso, non è facile riuscire a emergere con coerenza in tutta la regione storica e adagiare l’immateriale e il materiale di appartenenza indispensabili ingredienti al ripetersi in armonica coerenza.

La dimensione globale dei paesi o Katundë arbëreshë ha contribuito in ordine fondamentale nel Mezzogiorno peninsulare con particolare pregnanza in ben determinate e identificate aree parallele.

Queste sono e costituiscono il luogo di ricerca, realizzazione di progetti e cosa fondamentale, che ad oggi manca , di confronto dell’analisi prodotte di quanti si si sono occupati con quelli che si occupano di ricucire i processi, politica, sociali religiosi e linguistico/consuetudinari di questi territori.

Ed è proprio nel confronto in lingua di macro area tra quanti vissero e vivono oggi, dalla capitale del regno sino all’angolo più sperduto della regione storica, che dovrebbe partire il progetto su cui edificare il contesto della realtà meridionale attraverso una alternanza serrata tra panorama geo/economico, strutture politiche e istituzionali e dimensione culturale e sociale.

In questa continua connessione tra l’idea del centro e quella di un tessuto periferico dovrebbe nascere il polo di attrazione, quel presidio ideale da cui avere gli ingredienti fondamentali per innalzare la “storia locale”.

Il territorio rappresenta la piattaforma della scienza storica, non vi è dubbio che la percezione della collocazione spaziale, in relazione con i legami identitari di appartenenza assumono un ruolo importante nella ricostruzione locale anche quando vennero innalzati i primi modelli edilizi, che rappresentano gli scrigni, o meglio le culle dove allevare la propria identità.

I termi “cultura” e “società” sono gli ingredienti più abusati nelle pagine di quanti fanno ricerca al giorno d’ggi, utilizzate diffusamente per disegnare il quadro del vivere e del sen­tire delle popolazioni attraverso relazioni dialettiche, comportamenti e ideologie delle quali poi non si creano mai momenti di confronto e affinamento.

Non vi è dubbio che il tratto ricorrente con regolare cadenza nell’analisi delle comunità meridionali, alle Tanto spazio ha dedicato l’antropologia storica, verso la presenza di una forte confronto tra gruppi con la sfera maggioritaria sia dal punto di vista comportamentale sia sociale/linguistico sia sacro, cristiano che bizantino.

Un nesso che non si esaurisce certamente nella tradizione tramandata nel caso degli arbëreshë attraverso una lingua ignota e senza alcuna forma scritta, identificandosi e dipendenti alla Chiesa bizantina impostata dalla terra di origine ma di cui trovarono intrisi i luoghi da loro intercettati per essere bonificati e vissuti.

Essi estendono i comportamenti entro i limiti imposti dalle forme istituzionali della religione, per addentrarsi in un universo nel quale hanno trovato lo spazio per la sopravvivenze di antiche tradizioni e devianze, in un coacervo di devozione e superstizione che ha costituito uno dei tratti distintivi della società arbëreshë, la più penalizzata e compromessa in tal senso.

Una specificità che ha fatto sì che molti studiosi siano finiti nel libero arbitrio, durante le analisi del contesto del Sud dell’Italia; specie nel legame tra antico e popolare in una chiave evocativa, producendo un intreccio allegorico che non sempre trovato riscontro, non essendoci stata  rivolta la giusta attenzione verso il ruolo delle istituzioni e delle strutture ecclesiastiche.

Perché l’approccio all’osservazione delle comunità possa davvero arricchirsi della vera storia, essa non può in alcun modo prescindere dalle condizioni ambientali, dalle caratterizzazioni immateriali,  dai rapporti sociali ed economici prodotte da situazioni e comportamenti sviluppati nel corso dei secoli.

La necessità del luogo, accanto alla consapevolezza dell’evoluzione, viene in questo modo a determinare il percorso metodologico necessario alla ricostruzione di qualsiasi identità.

Se nel Mezzogiorno appare costante la presenza, attiva e operante, di una minoranza capace di caratterizzare il territorio e la sua storia, essere e sentirsi parte attiva nel percorso di tutela e crescita della società, deve nel contempo mantenersi viva la sua tenuta morale e gli stili di vita della sue popolazioni, è necessario anche soffermarsi su di un tempo specifico della evoluzione del loro tessuto connettivo, capace di identificare i passaggi periodizzanti che diano una connotazione effettiva al legame dell’oggi con le sue radici.

È chiaro che i limiti cronologici della storia in senso generale, non  devono solo seguire  la regione storica o le sue sedici macro aree, ma per l’intera penisola meridionale italiana e le terre di origine.

Va cercato il punto comune di tutta la regione storica, in buona sostanza amalgamare  uomo territorio e risorse utili al sostentamento di una radice antica, tramandata oltre modo nella sola forma orale e senza alcun segno, se non quelli delle impronte,  dalla l’operosità tipica.

Una fase sospesa che parte dall’Alto Medioevo, nella quale segnalare le attività seguendo le sfumature dei confini esistenti tra la sfera civile e la sfera economica, una prospettiva che apre una finestra condivisa, o meglio creare un senso di appartenenza unitaria, che unisce e non divide il tessuto sociale.

Proprio per questo motivo, mantenersi in vita nel periodo storico nel corso del quale si sono poste le basi della percezione tra individui, ci doveva essere una parlata unica che non creava ne squilibri ne doppie interpretazioni per questo l’analisi di approfondimento che si sta eseguendo è finalizzata seguendo le orme dalle quali la preistoria, da una storia e il preludio di un’altra storia” appellava per descrivere il territorio Sheshi (lo stato), il corpo umano (l’individuo), l’orto copshëti,(la farmacia) gli animali domestici capshërat (risorsa alimentare e forza lavoro collaborativa essenziale).

Questa è la radice da cui partire, non ci sono altre vie ed è inutile  sprecare tempo immaginando che la Sapienza Orientale, seduta tra le rive del, Settimo e del Surdo”  a bighellonare possa trovare altre soluzioni diversi da quella di descrivere se stessi e gli ambiti di attesa.

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ROTOLI DI CARTACAPRA  (Thë mbjedurë e Dijes)

ROTOLI DI CARTACAPRA (Thë mbjedurë e Dijes)

Posted on 17 marzo 2020 by admin

Capra1NAPOLI (Atanasio Basile Pizzi) – Avventurarsi in disquisizioni di lettura cromatica con scenario la regione storica arbëreshë, se non idoneamente capaci nel distinguere cromatismi e sfumature, si finisce di scambiare il cielo con la terra e i generi con l’ambiente naturale.

La nota vuole redarguire con forza e determinazione, quanti hanno imprudentemente e impunemente scambiato diplomatiche, ai tempi in cui le notazioni si stilavano su carta canapa.

Gli arbëreshë per oltre quattro secoli hanno mantenuto viva la propria identità in senso idiomatico, culturale, religioso, esclusivamente in forma solenne e orale; essi hanno superato guerre, invasioni, carestie, terremoti, rivoluzioni, ancora guerre e ogni sorta di avversità naturale o indotta dagli uomini, ciò nonostante, dopo l’unificazione dell’Italia, inizia a smarrire la rotta con andamento pericoloso e deviante, non per colpa di altrui, ma per l’errata inculturazione adottata in forma scritta, artificio ignoto alla minoranza ma utile agli indigeni per copiare e riportare le altrui idee.

Il picco del degrado è raggiunto a seguito dei processi industriali e le migrazioni verso le città dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso.

Ciò che più lascia perplessi è l’indifferenza dei presidi storici preposti per la tutela culturale, proprio i saggiamente predisposti localmente con dovizia per la difesa dell’irripetibile modello sociale linguistico e consuetudinario in evoluzione.

Sant’Adriano, ma non il Santo, ha forgiato comunemente figure che avrebbero dovuto fare tutela, tuttavia l’ostinazione a ricercare, giudizi legali e processi evolutivi dell’idioma in forma scritta, ha lasciato al libero arbitrio aspetti materiali ed immateriali unici nei generi e di cui rimangono solo esili frammenti.

Il fenomeno s’intensificò quando agli inizi degli anni sessanta, del secolo scorso fu elevato tra i torrenti Surdo e Settimo, un presidio che avrebbe dovuto modificare il senso della deriva, ma l’incapacità culturale, figlia della poca preparazione, ha fatto si che quelle acque genuine prendessero la stessa direzione “Adriana e delle sue pertinenze”.

Si potrebbe ipotizzare che l’errore più grave sia stato fatto quando “i soliti prescelti”, inforcata la cattedra come condottieri, invece di segnare e diffondere certezze da bravi cavalieri, hanno preferire creare una muraglia di difesa della propria posizione per evitare di perdere l’aureola culturale precompilata, evitando con ostinazione a predisporre il ben che minimo progetto di tutela indispensabile,  a quel tempo, per ricucire passato presente e dare la linfa ideale per distinguere carta pecora dalle diplomatiche in senso di Kanun di radice in themi.

Forse questo è pretendere troppo, da semplici titolati,  incaricati di fare cose solide e durature, purtroppo i curricolari con poco più di venti esami (pergamena di basso livello istituzionale) ritenute in mani loro come eccellenze locali, si sono rivelate le meno adatte ad assolvere l’incarico di ricerca storica e tutela delle macro aree minoritarie.

Se a oggi non si comprende ancora cosa distingua il principio di regione storica, dal nomadismo delle popolazioni, è un grave errore e se quanti inforcarono quelle cattedre, appellano secondo un misero sostantivo indicatore di nomadismo, la regione storica è segno che ancora la deriva, continua imperterrita e devasta, restringere, consumando imperterrita il senso culturale della minoranza.

Svolgere certe attività non basta solo possedere un titolo generico o di medio valore in esami fondamentali, giacché servono esperienza di ricerca sul campo, l’unica a rendere merito e sviluppare ingegno, capacità imprenditoriale e cognitiva:

E’ solo dopo questo iter, più volte ripetuto, ad acquisire l’idonea visione di analisi, non ipotizzabile partire dal basso e sbagliare per poi “sbagliare” con la speranza che un giorno arrivi Peppino dalle Galassie per indicarti la diplomatica da cui copiare e trascrivere in cartapecora.

Ed è proprio questo l’anomalo dato che non ha consentito di realizzare progetti multi disciplinari indispensabili per restituire una visione generale del fenomeno minoritario, ancor oggi studiato secondo piccoli episodi locali disconnessi tra loro, oltremodo inutili, anzi penalizzano, disturbano e fanno perdere tempo a quanti, oggi, si adopera nella ricerca “unica e indivisibile”.

Questo ha prodotto un vuoto culturale incolmabile, in altre parole, l’assoluta mancanza di figure con cui comparare i nuovi progetti di ricerca, perché la maggior parte dei così detti formati, acquisto il titoli, o equipollenti di estrazione locale,  si rintanano nell’insegnamento di natura primaria e secondaria delle scuole dell’obbligo, non producendo alcuna maturazione storico/culturale, accadendo che: nel misurarsi con ragazzini, adolescenti o analfabeti locali, seguono inesorabilmente, senza averne cognizione, la buia trincea cognitiva“Adriana e delle sue pertinenze”.

Una società paragonata ironicamente dal mondo della cultura come il riversamento dei concetti in forma di aceto in presidio dipartimentale che attende che l’aceto diventi vino, con  cui poter solidarizzare tutto ciò che la piena degli inopportuni trascina.

Se questo non è un dato comprensibile e rendere con cognizione di causa, la misura di quale attenzione garbo e dedizione sia stata volt allo studio e alla ricerca delle tappe, che hanno distinto la regione storica, dal resto del continente, basta affacciarsi e prendere atto o lettura, dei prodotti editoriali attuati dagli anni sessanta del secolo scorso a oggi.

L’azione di questo breve, vuole cambiare l’anomalia in atto avendo quale campo di riferimento, da cui partire e tracciare i canoni ricerca o progetto storico; i riferimenti di temi; gli stradioti; l’unificazione dell’impero romano con capitale Costantinopoli, focalizzando in particolare il tempo in cui venne  ristretto nell’area dei Balcani.

In conformità a quanto su citato, proseguire indagando, la minoranza mediterranea, puntando sulle origini radicate allo spirito delle leggi, degli statuti, delle ordinanze e il senso del lavoro, quale lotta faticosa con la natura secondo la manualistica basata sul diritto bizantino, lo stesso che legava normative militari e contadine, ponendole al centro degli interessi dello stato.

Genericamente ad oggi non esiste prodotto editoriale di  senso finito, se poi vi dovesse capitare di osservare, leggere, confrontare cosa circola nel modo enciclopedico, sottoscritto dai su citati o nei wichiwand di libera interpretazione, c’è da rimanere a dir poco perplessi, basiti, anzi indignati.

Quest’anno l’estate dei “liberi e delle libere Stoljiate” è già terminata a causa dall’emergenza sanitaria, ma quanto prima, questa come tutte le cose brutte passera, speriamo che si porti via tutte le ilarità prodotte in passato e nascano nuovi germogli di buon senso, gli stessi che la regione storica attende da ormai troppo tempo perche le forze sono esigue e occorrono nuove energie colturali, quelle che sarebbero dovute nascere nei dipartimenti per tessere quella tela raffinata a quattro mani capace di fermare e inglobare tutto quello che possa far vivere il sapiente ragno tessitore.

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LE CAPRE VANNO PER VICINATO E DIOGENE VIVE I CINQUE SENSI TIPICI DELLA GJITONIA.

LE CAPRE VANNO PER VICINATO E DIOGENE VIVE I CINQUE SENSI TIPICI DELLA GJITONIA.

Posted on 14 marzo 2020 by admin

indemoniatiNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il modello linguistico consuetudinario per eccellenza e precisamente quello adottato dalle genti che vissero nei pressi o a breve distanza, dal bacino mediterraneo, riconosciuti dalla storia come: Arbanon, in seguito Arbëri e in fine Arbëreshë, rappresenta il più enigmatico e complicato sistema sociale,  ignoto a quanti vanno marenghi immaginando che la cartacapra da risposte.

Oggi chi ha ereditato l’inestimabile valore storico, vive all’interno della Regione Diffusa del Mezzogiorno Italiano, supportato  comunemente,  riguardo l’aspetto linguistico, da quanti vivono le antiche terre d’Albania secondo i limiti di un tempo.

La caparbia popolazione consuetudinaria, rappresenta, o meglio è un esempio trasversale dell’enunciato secondo il quale la storia sia depositata in tomi o comunque nelle archiviazioni scritte in forma, documentale o cartapecora.

Per certi versi il principio potrebbe essere un valido supporto per la ricostruzione delle epoche e delle ere del passato, ma non è certo il vangelo, o la regola che vale per tutte le dinastie del passato, specie quando a scrivere a trascrivere e riportare, sono propri quanti formati secondo canoni clericali, poi di dogeniana memoria, non facendo mai emergere i comuni  o i testimoni che ereditavano i motivi del segno di croce, conservando ben altra memoria.

Nascere all’interno di una culla sociale senza confini come quella arbëreshë “la Gjitonia e in conseguente sistema urbano e architettonico, consente di avere doti ineguagliabili, attraverso le quali, la capacità di lettura di cosa ti circonda, si affina e consente di riconoscere cosa è utile per per ricostruire secondo presupposti ereditari; non sono certo i titoli subito portati a casa, questi ultimi, pur se necessari, non sono fondamentali per tradurre e comprendere o avere consapevolezza  per distinguere con grazia, saggezza, garbo e giudizio, ciò che ti appresti a cogliere.

A tal fine è bene precisare che vanno evitate le campagne di confronto con quanti millantano e impropriamente si considerano i conservatori di una tradizione antichissima, senza averne alcun titolo, in quanto, si finirebbe inesorabilmente a perdere la rotta non riuscendo più a definire “l’unica storia” che va ricercate per calettarla perfettamente poi con gli avvenimenti del passato.

Nelle vicende che accomunano la lingua, la consuetudine, la metrica del canto e la religione greco bizantina degli arbereshe, per lungo tempo si è ritenuto che fondamentali fossero la ricerca delle parlate delle favole e dei testi clericali della minoranza storica, questi espedienti specie se usati senza ordine e ne grado, hanno fatto più danno negli ultimi decenni che in millenni di storia.

Le civiltà più antiche della storia degli uomini, sono state sudiate attraverso le architetture e i segni che queste popolazioni hanno estratto prima ed elevato poi, nei luoghi attraversati, bonificati e vissuti.

Come potevano fare diversamente quanti da ormai sei decenni hanno immaginato che attraverso la definizione della lingua con quanti hanno preferito la fucina degli invasori poter ricostruire un segno tangibile dell’identità arbëreshë.

Come potevano esimersi da errori grandi come le corna di una capra, senza i principi di conoscenza, consapevolezza, cognizione o idea del [no…..s] o del [ger….ko], capacità di lettura di thema o di [so..to co…no]; è normale che poi si vergognassero persino del trattato di  “Besa” Kanuniana o del concetto del clan di famiglia allargata, immaginando vergognosa culturale, un po’ come vergognarsi delle proprie madri perché vestono in tema di Stolja.

Ripercorrere la storia della minoranza più numerosa del meridione italiano, non è stato una cosa semplice, giacché la definizione della sua origine, partendo dai soli stato di fatto odierni, richiedeva almeno un’altro punto per tracciare una retta secondo una ben identificata direzione, ma una volta intercettato il secondo punto, in questi giorni di esilio forzato, ha reso tutto più limpido e chiaro avendo ormai la direzione, si tratta solo di camminare e scegliere cosa è genuino raccogliere e dare in pasto alle pecore cresciute nella mangiatoia del “sordo” e del “settimo rigagnolo” , ma questa è un’altra storia ancor più penosa e indicibile.

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LE TERRE ARBËRESHË NEL MEZZOGIORNO DEL MEDITERRANEO (Kushët Arbëreshë thë Mjesdites ndë Meshdhereveth)

LE TERRE ARBËRESHË NEL MEZZOGIORNO DEL MEDITERRANEO (Kushët Arbëreshë thë Mjesdites ndë Meshdhereveth)

Posted on 09 marzo 2020 by admin

INCUDIINENAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – 

Premessa

L’excursus che si vuole intraprendere, in questa premessa e nei capitoli seguenti, mira ad analizzare e confermare con ordine di tempo, di luogo, di eventi e figure di rilievo, indelebilmente impressi, nelle tavole raffiguranti gli accadimenti mediterranei vissuti dagli Arbanon.

Attento verso ogni particolare coerente, su ciò che ha contraddistinto la su citata popolazione nel tramandare il proprio patrimonio identitario, senza l’ausilio di alcuna forma scritta o documentale, per questo si ritiene opportuno allargare i confini della ricerca, sulle vicende mediterranee dei popoli limitrofi o con i quali gli arbanon hanno condiviso operosità, pene, vittorie, conquiste e primati.

Il punto di partenza da focalizzare è incentrato sulla capacità, storica, delle genti Arbanon, di tramandare il proprio patrimonio identitario, esclusivamente con l’ausilio della forma orale associata alla consuetudine, quest’ultima ritmata secondo l’esclusivo svolgersi di due stagioni; l’inverno e l’estate, caratteristica fondamentale dell’habitat naturale, denominato mezzogiorno del mediterraneo.

La trattazione qui di seguito riferita, sarà eseguita con l’ausilio dell’indispensabile conoscenza linguistica originaria, non fatta di favole,  ma secondo la solida radice, l’unica in grado di supportare e interpretare con coerenza le nozioni ritrovate per tradurre con cognizione le dichiarazioni di quanti forniranno tasselli per la costruzione d’insieme.

Certamente la ricerca non volgerà l’interesse verso gli inutili elenchi di alfabeti o vocabolari, tantomeno verso luoghi di accumulo documentale, in quanto, non esistono riferimenti storici o, riferibili o riferiti a questa minoranza.

Il progetto parte con pochi dati certi, in altre parole, la definizione di tutti gli elementi del corpo umano, associato al sostentamento garantito dall’ambiente naturale cercato, bonificato per poi essere vissuto dagli Arbanon,

La rotta che si vuole percorrere, segue l’asse mediterraneo nella direzione Est-Ovest e precisamente tra i paralleli terrestri, che passano nella parte a nord dell’Epiro nova e quello più a sud dell’Epiro vecchia, considerati dalla geografia storica: i più esposti alla luce del sole, dove l’esposizione all’irraggiamento consente, di far germogliare con successo Agricoltura, Tecnologia e Cultura.

Avvalendoci della conoscenza della lingua Arbanon antica, si coglieranno meglio, le dinamiche sociali e religiose che amplificavano e restringevano i limiti geopolitici, entro i quali questa singolare popolazione, si riconosceva, si distingueva e si confrontava con gli indigeni, nel corso dei secoli.

La trattazione per non perdere il senso dell’argomento ha come riferimento di tempo e di luogo, l’era in cui l’impero romano di occidente e di oriente aveva come capitale Costantinopoli; e per questo nel dettaglio, saranno estrapolati gli eventi e gli accadimenti sociali, economici, politici e religiosi in specie, gli artriti che contrapponeva mussulmani da una parte e cristiani, ortodossi, bizantini e alessandrini dall’altra.

Centro nevralgico di questa storica vicenda, poiché tratteremo degli Arbanon, saranno i territori, che a quel tempo erano, identificate come: Epiro vecchia ed Epiro nuova, il perimetro che descrive l’Albania odierna, oltre porzioni di Cosovo, Grecia, Romania e Slovenia.

Sono questi i territori che diventeranno “cerniera” delle divergenza che vede schierata l’espansione Cristiana da Ovest verso Est e la Mussulmana in contrapposizione da Est verso Ovest, divenendo le terre dell’allora Epiro Nova ed Epiro Vecchia, Muro/Teatro/Campo delle dispute più efferate dal IX al XVII secolo.

Dalla parte cristiana Carlo Magno si adopero a ingrandire i suoi possedimenti verso la Sassonia, la Baviera, la Marca di Spagna (fascia pirenaica della Spagna del Nord) e l’Italia, strappata ai Longobardi, sottomise, la Pannonia, un’analoga strategia venne attuava nei confronti del ducato di Benevento.

I Mussulmana intanto estendevano i confini sino a raggiungere le terre del Sacro Romano Impero individuate, alle periferie di Vienna e della Polonia a nord, lo Yemen e all’Eritrea a sud; dall’Algeria a ovest fino all’Azerbaigian a est, controllando gran parte dei Balcani, del Vicino Oriente e del Nord-Africa.

I secoli videro contrapporre alla avanzata dei Mussulmani, Dogi veneziani, Re, Papi e Principi, tutti in egual misura, al dialogo e al non dialogo, avendo come fine d’interesse, l’economia e il potere offerto da tutte le terre prospicienti il bacino del mediterraneo e in particolare del Mare Adriatico e lo dello Jonio.

Frizioni economiche, sociali, territoriali, ideologiche e religiose, il cui culmine fu raggiunto nella sanguinosa battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 (Giorno di San Vito) nella spianata dell’odierno Kosovo.

Questa regione come quelle limitrofe diventano il teatro che contrappone, valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, schieramenti radicati nelle proprie ideologie, e ben presto vedrà apparire la mitica figura di Giorgio Kastriota, comunemente noto, o volgarmente denominato “Scanderbeg”.

Prima, per ricatto a fianco ai mussulmani e appena libero di tale stato di fatto a capo della cristianità con l’impegno ereditato dal padre di tutelare il suo popolo e la sua radice identitaria.

E quando si rese conto che l’impresa era ardua, complicata e impossibile ebbe l’intuito di scindere la popolazione delle regioni dell’Epiro ancora sotto la sua guida, in quello che oggi è riconosciuto come il miracolo d’integrazione identitaria, più solido del mediterraneo;  tutelando con gli “odierni Albanesi” i territorio in senso di luogo originario e la “Regione storica diffusa Arbëreshë”, intesa quale luogo parallelo dell’identità linguistica consuetudinaria e delle arti, solidamente sostenute dal modello religioso originario, quello difeso in quelle terre natie, ovvero, il Greco Bizantino di radice Alessandrina.

Gli arbëreshë s’insediarono in quella fascia mediterranea, a quei tempi identificata come regno di Napoli o delle due Sicilie; in quanto terre parallele a quelle di origine, con la certezza di avere garantito “Terra, Pane e Pace”, il trittico fondamentale alla radice identitaria arbëreshë, ideale sistema diffuso, sotto identici valori territoriali; dal XIV secolo vive e partecipa al pari delle genti indigene oltremodo valorizzando l’economia, le dinamiche sociali e culturali, dal primo giorno di insediamento ad ogni, in fraterna condivisione.

Seguiranno i capitoli: dal I° al XIX°

 

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LA REGIONE STORICA ARBËRESHË

LA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 18 gennaio 2020 by admin

Lo zoppo e il ciecoNAPOLI ( di Atanasio Basile Pizzi) – Il titolo di questo breve è, in parte, una provocazione, giacché presuppone che tutti conoscano la mappa, che dettagliatamente caratterizza il territorio del regno di  Napoli, dove furono minuziosamente tracciate le Arche per l’insediamento dei profughi Arbëreshë che dalla metà del XV secolo, restano ancora a tutt’oggi sconosciute.

Riscoperte attraverso sovrapposizioni di carte storiche, sulla scorta d’importanti pubblicazioni e segnalazioni in volumi e riviste, nazionali e internazionali, fa ancora oggi parte delle incertezze storiche, geografiche, scientifico e culturale dei contemporanei avanguardisti minoritari.

Le cause dì questa “amnesia” sicuramente sono variegate e si presuppone, siano state originate da: diffidenza verso il “nuovo”, paura di dover leggere ricostruzioni storiche che sembrano consolidate, disattenzione, difficoltà di aggiornamento (nell’era dell’informazione!), disinteresse verso aree geografiche che appaiono “minori” e subalterne, anche se diffuse dalla capitale del regno invece che ascoltare i lamenti provenienti dove trovarono riparo il cieco e lo zoppo, e oggi nessuno più in grado di vedere e toccare dove scavare per cosa cercare.

Certamente non si commette errore nell’attribuire tale manchevolezza  tutta allo “specialismo” imperversante nella disciplina di “mono tema trasversale”,  l’unica ad impedire di superare i (presunti) confini disciplinari, che poi formano una maglia molto larga, un tratteggiato, irriconoscibile percorso che non ha lastre idonee per reggere il peso della storia.

Non servono nuove specializzazioni, né linguistiche, né canore e tanto meno in forma di lirica moderna, né brandelli di capitoli o plateali bandiere, perché serve una cultura generale condivisa e non superficiale.

Allo stato è indispensabile un modello di ricerca che sia in grado di  organizzare la conoscenza oltre le discipline mono dipartimentali, trovando per questo,  spunti dai campi condivisi di ricerca, in sostanza riformare le obsolete piramidi che non superano gli ambiti delle gjitonie narrate secondo la metrica che appartiene ai “Sassi”.

Si tratta, se vogliamo, di un nuovo umanesimo, e quanti si muovono in questa nuova direzione, un po’ “umanisti” lo sono, perché studiano e ripercorrono le vicende con carte, documenti e conoscenza del territorio, acquisendo per questo tra geografia, carte e tracce del vissuto degli uomini i parametri da tradurre secondo l’idioma tramandato oralmente e intercettare la via maestra per le isole culturali dove è stata depositata la radice dell’antichità arbëreshë.

La strada comunque resta segnata, illuminata e raccontata da una voce nota, non si sa quanti saranno in grado di sentirla vederla e ascoltarla, l’auspicio è quello che al più presto si attivi la dimensione dei cinque sensi arbëreshë; è una gjitonia moderna possa germogliare secondo l’antico modello familiare, in cui la persona più saggia e rilevante, organizzava e assegnava ruoli per la solidità sociale e culturale del gruppo.

Non è più sostenibile continuare imperterriti a lasciare le sorti del modello idiomatico, consuetudinario e religioso, dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia nelle disponibilità di alienati ragazzi, che marinano sin anche la scuola dell’obbligo.

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URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

Posted on 07 gennaio 2020 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3

 

 NAPOLI (Atanasio Pizzi ARCHITETTO) – Il XV secolo è uno dei momenti della storia, di quella che si identificava un tempo Epiro Nuova ed Epiro vecchia, tra i più articolati e difficili di questo territorio, sia dal punto di vista della difesa territoriale e sia di quella identitaria, questo è il motivo, per il quale, si sarebbe dovuto indagare analizzando fuori dai temi unitari, al fine di fornire una visione completa adeguata e priva di atti inesistenti.

Un intervallo che per la sua durata, contiene la sofferta scissione storica tra territorio e identità di quanti la vissero sino ad allora, tuttavia per non perdere senso e restringere il campo di azione analitica, approfondiremo l’intervallo, dal 1389 sino al 1562, non prima di aver  delineato un progetto ad ampio contributo disciplinare, specie se ad essere indagatati sono le gesta di un popolo privo di qualsivoglia  patrimonio scritto grafico, in quanto, tramanda storicamente la propria identità nella sola forma orale e dai consuetudinari atteggiamenti.

Se a questo si aggiungono gli esigui sforzi per costruire barriere difensive di mutuo soccorso, da quanti la abitarono per impedire l’imperante marcia ottomana per la conquista territoriale e sin anche per la sottomissione identitaria, è opportuno comprendere come abbia potuto lo stratega, ovvero, il lungimirante stratega Giorgio Castriota “comunemente denominato Scanderbeg” trovare soluzione con le arche arbëreshë tracciate nell’Italia meridionale.

Appare evidente che avere consapevolezza delle metriche materiali e immateriali ottomane a cui si opponevano insufficienti forze dei principi Arbanon, capaci di iniziative  di breve durata; una misura alternativa, per la difesa non del territorio, ma almeno dell’identità Arbanon doveva essere immaginata e posta in essere.

Fu proprio la stagione delle migrazioni verso le “arche territoriali parallele” tracciate e predisposte sotto la veste di controllo territoriale e in favore dei regnati partenopei, durante le sue visite nel meridione, dal 1461 e sino alla dipartita del principe Giorgio Castriota.

Arche tracciate in difesa e  controllo, ancora oggi identificabili sul territorio meridionale, con la semplice sovrapposizione della gestione politica, clericale ed economica di quell’intervallo storico, ciò tuttavia non sono idoneamente interpretate dagli unitari, anzi, ritenute a torto, casuali, ininfluenti  o improvvisazioni prive di scopo.

Se oggi analizziamo le sette regioni tra insulare e peninsulari del fu regno di Napoli, attraverso le caratteristiche ambientali idonee alla vita del modello Arbëreshë, si comprende per quali motivi venne immaginata, proposta e lasciata attuare.

Una vera e propria regione storica diffusa, capace di restituire valori identitari paralleli alla terra dio origine sia dal punto di vista materiale e sia immateriale

Circa cento Katundë che trà paesi, frazioni e casali abbandonati rappresentano una tessitura raffinata di urbanistica e architettura, la cui linfa traeva la sua forza dal rione romano dal punto di vista territoriale, inteso dal punto sociale al pari delle haretë dai greci

La differente mentalità nel modo di insediarsi rispetto agli indigeni locali, che usavano all’interno delle murazioni dei borghi, gli arbëreshë preferivano casali e comunque agglomerati senza mura, legati idealmente a presidi religiosi.

Ponendo a confronto i valori spaziali dei nuclei urbani mono centrici degli indigeni e quelli policentrici Arbëreshë si comprende quale sostanziale differenza distingueva quanti s’insediarono in fuga dalle terre oltremare.

Una volta che gli arbëreshë si disposero lungo le arche predisposte da Giorgio Castriota presero a modello gli ordinamenti delle classi sociali Kanuniane, prive di forme aristocratiche piramidali economiche.

Sulla corrispondenza delle norme sociali e distributive adottate, tutti gli agglomerati sin dai primi tempi di insediamento le identiche caratteristiche, sia si tratti della Sicilia, della Calabria e sino all’estremo Molise, questa ultima, il confine del meridione, assieme al Lazio papale.

Il discorso, nasce in base a rilevazioni locali, esse vedono protagonisti i centri antichi dei “paesi”, che da ora in avanti chiameremo con il nome in arbëreshe: Katundë.

Essi sono altimetricamente distanti dalle pianeggianti rive marine mare e i ristagnanti dei corsi fluviali, perché considerati in sostanza, salata e amara vicinanza.

Essendo gli arbëreshë i figli di quei soldati contadino, per questo esperti conoscitori del territorio, s’insediarono secondo le predisposizioni di Giorgio Castriota, incentrando e calibrando nel breve tempo quali fossero le zone sicure sotto il punto di vista geologico per edificare i propri moduli abitativi, in oltre la toponomastica storica ci consente di definire quali fossero i margini, lasciati liberi per il migliore insediamento scartando le zone più incerte e edificare senza imbattersi in eventi di smottamenti naturali nel corso dei secoli.

Nel primo usarono insediarsi con l’ausilio dell’architettura estrattiva, poi in seguito, come vedremo più avanti, adoperandosi a realizzare architettura additiva.

Le arche predisposte dal Castriota s’intercettano secondo linee strategiche denominate: del Limitone tarantino, della Daunia pugliese, della Sanseverinense citeriore, quella di due mari o il confine della Calabria citeriore con l’ulteriore, del Bove siciliano, della Ginestra palermitana e in fine l’eccezione abruzzese di Villa Badessa, che conferma la validità di quel progetto antico.

Tutte queste sono linee strategiche d’insediamento, che trovano riscontri negli eventi della storia dal XV secolo e restituiscono ragione e forza a un progetto di ricerca condotto dallo scrivente.

Le “Arche” disegnate dal Castriota offrono agli arbëreshë un’alternativa territoriale ideale dove approdare,  e difendere la propria identità sociale, culturale e religiosa, terre parallele predisposte per riverberare nei secoli il modello Arbanon, oltremodo avendo cura di innescare i presupposti di strategie politiche di difesa dei territori a favore di quanti consentirono i processi di accoglienza e inculturazione.

Se oggi ancora una lingua poco comprensibile ai non parlanti, riecheggia in questi anfratti meridionali, come dai giorno del loro arrivo si deve appunto da quanto immaginato e predisposto dal condottiero di Kroja concertando  quanti accoglievano e da quanti venivano accolti su territori ritrovati.

Gli agglomerati urbani degli arbëreshë (Katundë) nascono secondo interessi economici per la difesa e la valorizzazione dei territori più esposti alle dinamiche del mediterraneo, limitando l’aspirazione dei nuovi arrivati verso i minimi requisiti di sostentamento, giacché la parte più consistente, di quanto derivante dalle attività, seguiva la filiera economica delle aristocrazie locali.

Queste ultime defi­nivano persino la caratteristica di articolazione degli agglomerati urbani, alla luce di una vecchia direttiva ispanica, la quale mirava a realizzare modelli urbani di tipo aperto e in linea con lo sviluppo flessibile del “Rione” auspicando future espansioni in numero di addetti, cosi come avvenne per diverso tempo con le note sovrapposizioni derivanti da nuove migrazioni.

Le arche segnate dal condottiero Giorgio Castriota, stabiliscono anche il nu­mero complessivo dei residenti, determinando, in questo modo, anche il valore di quelle terre per questo rese produttive, all punto di rendere meriti a quelle terre, denominate anche “ il granaio del regno”.

A questa prima fase segui una seconda, detta dell’architettura additiva, in cui si assegnarono le terre con l’opportunità della discendenza e per questo, la volontà di realizzare abita­zioni di maggiore qualità, con materiali non deperibili, da ora in avanti si elevano le prime Kalive in pietra calce ed arena, modeste abitazioni mono cellulari che daranno fine all’epoca del nomadismo o della’architettura estrattiva.

Va in oltre sottolineato che secondo una direttiva greca di insediamento si devono delimitare adeguatamente in rapporto alle condizioni geografiche e a quelle politiche della zona circostante; il territorio ha un’estensione sufficiente quando è in grado di alimentare un certo numero di cittadini entro i limiti di un medio tenore di vita, il numero dei cittadini d’altra parte deve essere tale in rapporto alle capacità produttive.

Da ciò potremo determinare il numero di addetti, soltanto dopo aver presa conoscenza del­la regione e dei suoi abitanti e di cosa da essa si vuole ricavare.

Trattandosi di una nuova colonia, insediatasi in aree geografiche disabitate in precedenza, bisogna prima di tutto sistemarne la parte, per cosi dire, architettonica, in generale, dire ciò è come saranno fabbricati e disposti i presidi religiosi, disporre le abitazioni private sulle alture per ragioni igieniche e di sicurezza espositiva e geologica.

Vicino alle chiese gli ecclesiasti e relativa famiglia allargata; s’inizia a costruire le case  private, al fine di consentire al sistema ambiente naturale e ambiente costruito di assumere la dimensione di  fortezza strategica, gli accessi delle case, secondo la consuetudine greca, sono disposte sulle strade secondarie utilizzando l’identico modello abitativo e in grado di garantire i parametri di sostenibilità intesa come micro clima al gruppo allargato; non è piacevole a vedersi un Katundë che appare di casa simili, e disposte apparentemente senza regola, tuttavia esso è un sistema eccellente per il controllo del territorio e dello stato locale all’interno del perimetro Sheshi, su base di facilità con cui si presta la disposizione dei Rioni e i relativi spazi liberi e costruiti.

Kisha, Bregù, Sheshi e Katundi sono rispettivamente: il rione, religioso,  controllo, e sociale, costruito e non, inteso e generare  le attività produttive e di crescita comune.

La descrizione del Katundë, accoglie le convenzioni caratteristiche e tipiche delle città agricole tipiche delle primordiali greche, in cui la disposizione articolata, delle case sono anche fortezze di inculturazione o cuore pulsante di un integrazione che non è finalizzata al mero atto della discriminazione, ma verso una  cultura economica che da spazio a alle diversità per crescere senza protagonismi.

Fine della I° Parte

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LA SALITA DELLA SAPIENZA (discorso - II° - Senso agli Uomini e alle Cose)

LA SALITA DELLA SAPIENZA (discorso – II° – Senso agli Uomini e alle Cose)

Posted on 20 ottobre 2019 by admin

diamo Senso agli Uomini e alle Cose

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) Esprimere pareri diffuso su quale figura accostare alla storia degli Arbëreshe e degli Albanesi, significa paragonare le gesta di “San Giorgio” che ebbe ragione del drago a quelle di “Alessandro Magno” noto per allargare i confini del suo regno.

Gli Ottomani, all’indomani dell’espansione dell’impero romano d’oriente verso l’occidente, si attivarono per imporre religione e consuetudini più che sopprimere popoli.

La missione mirava a marchiare con l’innalzamento di presidi religiosi il territorio e con persuasioni intangibili le popolazioni residenti: un modus operandi passato agli onori della storia, per le strategie adottate, secondo le quali, dopo le armi seguivano i temi dell’inculturazione.

Sulla scorta di questo breve cenno, ritengo non sia idoneo l’utilizzo dell’appellativo Scanderbeg, assegnato dai Turchi a Giorgio Castriota, al fine di attivare una vittoria infinita, che ha luogo in ogni tempo e in ogni dove, se utilizziamo l’appellativo; come immaginato dal perfido e lungimirante stratega Ottomano.

Senza correre indietro nel tempo e perdere il senso di questo discorso, ritengo sia opportuno iniziare lo svolgersi degli eventi dalla battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 nella spianata dell’odierno Kosovo.

Anche se i tempi in cui ebbero luogo gli avvenimenti sono precedenti alla nascita di Giorgi Castriota, la battaglia rappresenta l’inizio di quelle dispute in cui l’eroe albanese, alcuni decenni dopo, diverrà il riferimento di numerosi e incancellabili scontri in chiave religiosa.

La mitica battaglia, contrappone, i valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, i cui fini da entrambi gli schieramenti miravano si a primeggiare per allargare i propri territori, ma anche a donare la vita, certi, che in caso di morte, avrebbero avuto, un posto di rilievo nell’aldilà.

Per rendere più chiara questa breve esposizione e dare la misura di quanti presero parte alle ostilità, va precisato che Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, più noto come Conte Dracula, valorosi oppositori, dell’avanzata ottomana, in favore del cristianesimo; erano i discendenti diretti di due dei principi che istituirono e presero parte attiva, nel 1408, all’Ordine del Drago.

Esso non era altro che un apparato cavalleresco o lega di mutuo soccorso, ideato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione di Alfonso d’Aragona re di Napoli, di Giovanni Castriota, di Vlad II principe di una regione storica della Romania e di altri principi cristiani consapevoli di doversi legare in coalizione per contrastare le ingerenze del sultano prevaricatore.

Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, Dracula, avendo vissuto le stesse imposizioni private e familiari da parte dei turchi, nell’arte della guerra furono protagonisti incontrastati per le norme con cui preparavano gli scontri in campo aperto, contro le soverchianti forze nemiche; Giorgio, usava attendere le truppe in movimento nelle prossimità delle spianate di battaglia e renderle orfane dello stato maggiore, per poi infliggere il colpo di grazia in campo aperto; Vlad III, ancora più efferato di Giorgio, giocava sulla psicologia delle truppe e allestiva lungo i percorsi, impervi e tortuosi, quindi molto lenti da attraversare, macabri allestimenti di prigionieri, ragion per la quale, le truppe terrorizzate erano demotivate nello scontro sul campo di battaglia.

L’Ordine del Drago, cui i principi appartenevano, aveva lo scopo di rafforzare la difesa della comunità cattolica e nel frattempo disponeva obblighi, compreso il mutuo soccorso attraverso il supporto delle famiglie degli affiliati che perdevano la vita in quelle sanguinose battaglie.

Correva l’anno 1413 e nell’Albania superiore o del Nord Giovanni  Castriota, uno dei principi, uomo forte, prudente e di cristiana fede, dovette piegarsi ai Turchi, per tutelare la capitale Krujë, dove era stato assediato insieme alla moglie Voisava Tripalda, i figli Reposio, Stanista, Maria, Costantino, Giorgio, le figlie, Yiela, Angelina, Mamizia e Vlaica, oltre ad un numero considerevole di abitanti dei suoi territori.

Le regole cui si attenevano i Turchi in questi frangenti di conquista, consistevano nella consegna dei figli maschi, i discendenti legittimi di quel governariato e, in questo caso specifico, di Reposio, Stanista, Costantino e Giorgio.

Il patto di sottomissione evitava l’eliminazione fisica dei vinti oltre a lasciare indenni quanti in quelle terre abitavano e avrebbero continuato a valorizzarle.

Quando ciò avvenne, Giorgio, il figlio minore del principe Giovanni, aveva appena nove anni e, pur se il più piccolo, ultimo nella scala per la discendenza, gli osservatori dell’epoca rilevavano che per la sua stazza ne dimostrava molti di più.

Giorgio e i suoi fratelli, appena consegnati alla tutela dei Turchi, pur avendo ottenuto ampie garanzie sulla libertà di religione, giunti a corte furono battezzati e circoncisi secondo i riti mussulmani, cambiandone anche il nome.

Reposio fu lasciato libero di diventare monaco ortodosso; Stanista e Costantino preferirono la vita di corte, convertendosi ai paradisi che offriva la corte turca; e Giorgio, appellato Alessandro, mostrò ben presto ottime qualità come lottatore, combattente e stratega, diventando in meno di un decennio beniamino del sultano, guadagnandosi il grado di sangiacco oltre all’appellativo di Scanderbeg, perché secondo i i mussulmani era da paragonare  ad Alessandro Magno.

Le attività nelle quali egli eccelleva lo rese protagonista incontrastato nelle battaglie combattute ora in Grecia, ora in Ungheria, comunque sempre distante dalle terre d’origine.

Nonostante l’amore e il rispetto verso la religione cristiana, depositati nel suo animo dai genitori, così come le consuetudini di radice arbër, mostrò le sue doti a favore delle armate dei mussulmani per circa un quarto di secolo.

Portò a buon fine battaglie, sottomise intere provincie, avvalendosi della sua bravura nel predisporre strategie, coadiuvato da un suo gruppo di fidi sottoposti, sino al 1444, epoca in cui presero una svolta definitiva gli eventi posti in essere dalla mente ottomana di tornare, a cui erano sottoposti lui e i suoi cari.  

Le sue gesta a favore dei mussulmani giungono sino alla fine del 1443, quando si diffuse la notizia che il padre, Giovanni, era passato a miglior vita, anche se s’ipotizza che ciò fosse avvenuto, sempre per cause naturali, all’incirca un anno prima e tenuto nascosto per ritardare le pretese dei Turchi; tuttavia questi ultimi si presentarono nel maniero di Krujë a pretendere il possesso e la gestione di quel governariato.

Com’era consuetudine per gli Ottomani, l’antico patto andava messo in atto e allo scopo fu inviato il generale turco Sabelia, con un consistente corpo d’armata, a impossessarsi delle terre di Krujë, sicuro tuttavia, di non incontrare opposizione alcuna.

Così avvenne, quando i Turchi, si recarono a pretendere il trono per conto  di Reposio (Caragusio), a riscuotere la corona paterna; comunque adoperando l’arte dell’inganno, perche quest’ultimo pare fosse  morto da qualche; entrarono a Krujë e assunsero la gestione della città oltre a quanti erano affiliati al governariato dei Castriota.

Tuttavia l’atteggiamento denotava lo scarso valore che i mussulmani ponevano nei convincimenti delle persone provenienti da diversa radice culturale; vero è che ben presto la storia vedrà Giorgio protagonista, in quanto, allineato alla causa dei Cristiani, imprimendo un solco nello scenario delle dispute, così profondo e indelebile da innalzare il condottiero Arbanon a emblema del cristianesimo di quel quarto di secolo, a venire.

Oltre alle norme con cui i Turchi richiesero la gestione del trono del defunto Giovanni Castriota, va rilevato che misteriosamente in quel tempo passarono a miglior vita anche i due fratelli maggiori di Giorgio; sicuramente avrebbe anch’egli seguito quella sorte, se non fosse stato per il suo scaltro e distaccato atteggiamento verso tali accadimenti.

Giorgio Castriota, rimasto solo, appariva compiacente verso il Sultano, sin anche quando questi spiegava di aver agito per la difesa del suo patrimonio, esposto alle mire dei principi limitrofi i quali senza scrupolo e riconoscenza verso la memoria del genitore defunto miravano ad usurparlo.

Ma Giorgio preparava con minuziosa regola Kanuniana, la“Besa”, per onorare le vicende di quel ricatto, oltre il sangue dei suoi fratelli versato; agiva con la stessa metrica  tipica dell’ottomano usurpatore, al fine di recuperare la sua corona e la guida del suo popolo.

I Turchi sino alla dipartita del padre dell’impavido condottiero avevano portato avanti la metodica di conquista, sottovalutando un dato non di poco conto, e cioè, pur se di solo nove anni G. Castriota (**), aveva già innestato nella sua morale i valori e le regole consuetudinarie della “Besa”, radicate e impresse nel suo essere arbër.

E nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità guida cristiana, già comunemente denominato Scanderberg.

Le autorità, tra le più note dell’epoca, convenute allo storico appuntamento furono: Arrianiti signore della Provincia Canina, Calcondila e Rafaele Valoterano; Teodoro Corona signore di Belgrado, amico particolare di Giovanni padre di Giorgio Castriota; Paolo Ducagini, il più considerato principe d’arbëria; Nicolò Ducagini, Giorgio Arianiti, Andrea Topia, Pietro Pano, Giorgio Dufmano, GjergjBalsha, Zaccaria Altisvevo, Stefano Zorno Vicchio, Scura/Scuro, Vrana, Conte e altri di minor nome, quali Stefano Darenio, Paolo Stefio, oltre ai deputati della repubblica di Venezia quali osservatori e certificatori di quell’incontro.

Quando i cristiani principi furono dentro il sacro perimetro, Giorgio Castriota prese la parola e fece un discorso con il quale esternava la sua preoccupazione verso le forze dei mussulmani, che conosceva molto bene, per cui sarebbe stato grave se non si fosse comunemente pervenuti a un’unione per fronteggiare uomini e mezzi di considerevole portata, cosi dicendo:

“Superfluo stimo, Principi ottimi, e sapientissimi che io imprenda a descrivervi l’odio, e la rabbia dei Turchi contra i seguaci di Gesù Cristo, e come quelli non pensino ad altro che ad annientarci, ad estirparci, tanto sitibondi del nostro sangue, che ingordi dei nostri beni: avveguacchè questo vien purtroppo dimostrato da tante ferite, di cui e coverta tutta la Cristianità, e la medesima Arbëria, gli stessi Principi albanesi possano essere citati agli altri in lacrimevole esempio. Onde piottosto mi volgerò a esporr, quale sia stata la cagione delle nostre dissaventure; acciocchè di presente vediamo a quale rimedio abbiamo ad applicare.

Piangono a lacrime di sangue i popoli Cristiani le fatali discordie dei Principi loro accusandogli essere loro stessi i fabri dei propri disastri e tutti esclamando al cielo accordandansi tratto in pronunciar queste parole: se i Principi Cristiani, che sono travagliati dal timore, e dal pericolo di sogiacere infime, all’incontro ridurrebbero facilmente il Turco in ultimo e sterminio. Ma che io mi trattenga a narrare le tragedie degli altri principati, non mi è permesso dalla compassione verso  i miei fratelli scielleramente uccis, la quale tosto mi chiama a dichiarare d’onde sia derivata la miserabile ruina della mia casa.

Giovanni mio Padre, Principe una volta vostro compagno, essendo stato assalito dal Sultano dei Turchi, il quale alla testa di un’armata egualmente numerosa, che agguerrita obbligava tutti i potentati vicini a piegare, ed a sottomettersi, trovandosi esso solo alle mani col prepotente assalitore, ne vedendogli soccorso da parte alcuna, fu costretto alla fine a rendersi per vinto, e accettare delle condizioni che tacitamente conteneano l’ultimo eccidio della sua casa, cioè l’ussurpazione del Principato, e l’uccisione de’ Figliuoli, dopodichè fosse avvenuta la sua morte; (io solo rimasto in vita per volere del cielo: e spero per le dovute vendette di tali scelleragini).

E se quella diffusione che a quei tempi era tra i Principi Arbër, la quale ha lasciato perir miseramente mio padre perseveri  eziandio ne’ miei presenti pericoli, diverso esito dal paterno non posso certamente aspettarmi. Pure l’interesse del mio Principato, e della mia vita non ridursi a parteggiar condizioni di quella, ovetrovavasi per l’addietro. Ma avete da sapere che la salute vostra, ugualmente che la mia, al presente sia sull’orlo del precipizio.

Imperociocchè: che credete? Che il Turco allestisca le sue armi solo contro di me, e non pensi ad altro che al mio eccidio? Piacesse al cielo che la cosa fosse altrimenti; e quella fiera di me provocata a danni dell’ Arbëria restasse saziata, e non piuttosto irritata dalla mia strage.

O fortissimi Principi, non vi conturbino i tristi avvisi dei vostri presenti pericoli, i quali poi vivo sicuro che indubitatamente vedrete finire in vittoria, e in trionfi, se darete orecchio ai miei eterni consigli.

Tutti noi per dio immortale dal primo fino all’ultimo, tutti i Principi d’Arbëria, tutta l’ Arbëria volge e ravvolge ora il rabbiosissimo turco nei suoi soliti continui pensieri de’ Cristiani estermini. Se tutto ciò non meditasse il Turco, il quale ha per legge del suo ampio Profeta Maometto, ha per esempio de’ maggiori, ha per natura , ha per consuetudine di fare quanto può distruzione di tutti quelli seguono il nome di Cristo, e dell’eccidio d’un Principe Cristiano passar sulla medesima carriera a quella d’un altro. E di già parmi di questo punto di veder Amurate, in mezzo ai ministri delle sue crudeltà, e scelleragini, tutto spumante di rabbia, e ira, dopo aver minacciato a me, ed ai miei sudditi di far soffrire tutte le sorti di strazi, e di suplizi, rivolgersi a ringraziare il suo profeta Maometto che li abbia mandato quest’occasione di ristaurarsi nell’acquisto dell’ Arbëria dalla perdita che aveva patito della servia: quindi dar ordine ai capitani di quest’impresa, dopo che abbiano finito d’eseguire il mio sterminio rivolgano tanto sto l’armi contra gli altri Principi Arbëri, e che non manchino di menare a’ suoi piedi voi carichi di catene, ormeno di gettarmi le teste vostre. Questi sono i sentimenti, questi sono (credete a me, credete alla mia lunga inveterata esperienza di quella corte, di quei costumi: credete a tanti orridi esempi e vecchi , e nuovi e stranieri e domestici) questi, dico, gli ordini, questi comandi del Turco. Questo ha da essere il tragico inevitabile fine dei principi albanesi, se tutti noi non si colleghiamo insieme per fare testa al nimico comune. Vi rappresento per verità, o degnissimi Principi, cose orrende da dirci, e sentirsi: ma io in quest’occasione opero a giusa di medico il quale spiega all’inferno i rischi del suo male, acciocchè si disponga alla necessità de’ rimedi.

L’unione è l’inica strada, per cui ci possiamo metterci in salvo dai mali, di cui siamo terribilmente minacciati: e si vede Iddio volerla assolutamente ne suoi fedeli, se essi all’incontro vogliono essere sostenuti dalla sua protezione. L’Ongaria, la Transilvania, la Bulgaria, la Servia fintantocchè la diffusione è stata tra esse, sono state  abbandonate, dallo sdegno celeste, in preda  all’avarizia, e alla crudeltà dei Turchi.

L’anno passato essendosi stati collegati insieme i Principi di queste Provincie, Iddio parimenti accompagno con la sua assistenza l’animo loro: per modo che riportata la più gloriosa vittoria che sin ora si celebri del nome di Cristiano, hanno costretto di rincontro il Turco a ricevere tutte quelle leggi, e condizioni,che loro sono piaciute imporgli. Abbiamo davanti agli occhi un si recente, e un si illustre esempio.

Iddio non mancherà d’aiutare i suoi Fedeli, quando essi non tralasciaranno di darsi mano l’una all’altro. Che quando il turco ai tempi di mio padre coll’armi entro in Arbëria, gli sarebbe forse riuscito di sottometterla al suo giogo, se alla comune difesa si fossero uniti i principi Arbëri? La difficoltà allora fu la cagione che l’Arbëria divenisse misera e schiava dell’Ottomana prepotenza: ora dunque l’unione, la concordia la renda all’opposto vittoriosa, e trionfante de’ fuochi crudeli nemici, quando ha fatto l’Ongaria, Le forze di questa provincia sono come tante piccole riviere che scorrono per diverse parti: le quali, se si raccogliessero dentro un alveo solo, formerebbero un grandissimo,e insuperabile fiume.

Le onde questa nostra unione mi toglie ogni paura, e infonde nel mio cuore una vera speranza di fare strage de’ Turchi, con cui loro credono di sterminare noi altri, e di rendere glorioso per tutta la terra nelle vittorie contra L’Ottomano possanza il valore degli Arbëri, quando quella degli Ongari.

Io che in fin da fanciullo per più di trent’anni ho menato la vita in compagnia dei Turchi, sono versato di continuo trà l’armi loro, divenuto maturo nell’arme loro, e credo che abbia abbastanza appreso tutte l’arti, e tutte le maniere del lor guerreggiare, posso con fondamentale promettere, e con ragione sperare qualche cosa contro di loro; e se quando era lor Capitano ho in non pochi, non leggeri cimiteri di battaglie felicemente vinti e debellati i lor nemici, ora di certo dessi aspettare che non operarò di manco per la conservazione della mia patria, e per la salute de’ miei compagni, i quali per mia occasione mettano a repentaglio la mia vita, e ogni loro fortuna. Ne va dia poi alcun travaglia la fama della possanza dei Turchi: Ne voi più tremiate loro, ch’eglino sperino in se stessi.

Pochi mesi fa sono stati da Unniade, e degli Ongari sconfitti in una battaglia campale, dove hanno perduto il nervo, e il fiore delle loro milizie: ciò ch’è loro rimasto, altro non è  che un ammassamento di gente vile, paurosa, fugace, tutta canaglia, senz’esperienza.

 Sembrano gli eserciti Turcheschi spaventare con quel numero tonante di cento,di dugento mila combattenti ma di che cosa mai può valere contro dei forti uomini  tanta quantità di si fatta gente: se non intaccare il ferro loro più col macello, che col combattimento. Le vittorie dipendono più dal valore, che dal numero.

La battaglia di Morava(per raccontare degli esempi nuovi, e insieme recenti) serve di prova bastante a questa verità: ove Unniade con un’esercito di gran lunga inferiore sbagliato con una incredibile facilità, e tagliò a pezzi  una  poderosa armata de’ Turchi. Non V’è differenza in Iddio a rendere vittoriosi, quando gli piace, i suoi Fedeli, tanto se siamo pochi, come molti. E se quelli sono giunti a fare tanti acquisti dentro l’Asia e l’Europa, ciò non è stato effetto della virtù loro, ma bensì provenuto dalle discordie, dei principi Cristiani. E queste, credetemi, sono le uniche speranze, su cui al presente si fondano di farsi padroni degli Stati de’ Principi Arbër.

Ma se apprenderanno poi l’unione che è stata formata fra noi altri, spero molto che possano da loro abbandonati i pensieri della spedizione albanese: e se mai oseranno si attaccarsi, non ho alcun dubbio che ciò abbia a riuscire che a lor’onta, e  perdita, secondo che è lor avvenuto contro l’Ongaria. Vedete dunque prudentissimi principi, la presente condizione della salute nostra, e a quale passo siamo ridotti. Se viene il Turco come una fiera ferita dall’Ongaria a cercar rabbiosamente le sue vendette contro l’Arbëria. Se saremo disuniti e uno non soccorresse l’altro, standosene freddo, e mal consigliato spettatore della tragedia del vicino, parimenti un dopo l’altro a giusa di tante derelitte pecorelle faremo tutt’in fine divorati da quel crudele lupo.

Se poi ci accoppiaremo insieme, e uno darà mano all’altro, imitando l’esempio del re d’Ongiaria verso il Despoto della Servia, medesimamente qualche luogo dell’Arbëria, com’è il fiume Morava della Bulgaria, sarà nobilitato sarà nobilitato dalla strage dè Turchi . Avete, o degnissimi Principi, udito quale sia lo stato presente dello stato delle cose nostre. Dall’odiarna deliberazione dipende o la salute nostra, o la nostra ultima ruina.

Io vò ho spiegato l’universale pericolo, e in fine i mezzi di un felice di riuscimento. Facciamo che un giorno la memoria di questo concilio abbia a consolarsi, non ad attristarci. Non evvi affare di maggiori agevolezza, quando quello che tutt’è appoggiato al nostro volere.

L’esecuzione di tutto ciò che ho progettato sta nel vostro consentimento. Iddio dunque, fa tale la sua volontà che resti salva l’Arbëria, infonda nei Principi albanesi lo spirito della concordia e dell’unione contra quegli empi nemici dè suoi Fedeli; e piaccia alla sua Provvidenza che ancor passi come in eredità à posteri a loro perpetua conservazione.”

La nuova stagione con vesti cristiane ebbe avvio e vide il valoroso condottiero Arbanon esprimersi brillantemente nella missione a difesa della cristianità, infliggendo sonanti sconfitte agli avversari, nonostante questi si presentassero con forze spropositate, per questo divenne ben presto riferimento per la cristianità romana e non solo.

Giorgio Castriota dal 1444 si distinse in numerose battaglie, intervenne a favore degli Aragonesi contro le armate Angioine, nella battaglia di Troia (oggi provincia di Foggia) in località Terra Strutta presso il Katundë arbëreshë di Greci, posto in un promontorio strategico posto a ridosso della via Traiana.

Alla vigilia della battaglia che vedeva contrapporsi Angioini contro gli Aragonesi, gli Orsini di Taranto, inviarono al condottiero Arbanon, una missiva, nella quale lo esortavano a non partecipare alla disputa, in quanto di pertinenza privata extra religiosa.

Purtroppo i nobili tarantini ignoravano i legami che univano Giorgio Castriota con i regnati Aragonesi e si videro rispondere, che il legame con quel casato era radicato in valori paterni di un patto antico.

A questi episodi di corrispondenza privata, seguì la nota battaglia tra le terre della Daunia Pugliese e il Fortore Campano, terminate nell’agosto del 1460, anche se l’intervento del principe Arbanon era iniziato tempo prima con l’invio di suoi fidi a presidiare il territorio e preparare la battaglia tra il casato Ispanico contrapposto ai Francofoni e i loro seguaci.

Ristabiliti gli equilibri a favore degli Aragonesi durante la sua permanenza, il condottiero arbanon, ebbe modo di descrivere “le Arché dell’infinito arbër”, in altre parole, linee strategiche caratterizzate ripopolando Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Arbëreshë) per controllare i territori ad eventuali focolai de i Principi locali sedata definitivamente nella sala dei Baroni del Maschio Angioino nel 1486.

Altri due viaggi a Roma e a Napoli dal 1464 al 1466 videro protagonista Giorgio e il suo seguito di fidi, in tal senso va ricordato il discorso di Giorgio rivolto alle truppe tra Roma e Perugia, prima di muovere per la crociata molto voluta dal papa e mai portata a termine, per la dipartita misteriosa di quest’ultimo, per una febbre anomala, proprio poche ore prima di benedire il condottiero, il suo seguito e l’esercito in partenza da Monte Sant’Angelo).

Altra occasione degna di nota è la sua visita a Napoli, la sosta a Portici ospite di nobili locali la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla nascita di via della Libertà) da dove si mosse la mattina seguente per giungere nella capitale del Regno, giungendovi dal lato orientale della città, il rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguitosi diresse verso il castello, dove venne accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, che ebbe modo di avere luogo, accogliendo a Napoli Andronica Arianiti Commeno, vedova di Giorgio Castriota, i suoi figli e alcuni anni dopo la figlia di Vlad III, conte Dracula.

Questo spiega perché Andronica A. C. dopo un periodo trascorso all’interno del Maschio Angioino, dimostrando di essere una buona madre, in quanto, le vennero affidate finanche le discendenze reali, si trasferisce in un palazzo nobiliare nei pressi del Monastero di Santa Chiara per attendere che la fanciulla affidatale raggiunga l’età per maritarsi, infatti svolta questa ulteriore missione materna, la vedova di Giorgio Castriota si trasferisce a Valentia dove muore nel cristiano ricordo del marito; viene seppellita nel monastero della SS. ma Trinità posta oltre il ponte che scavalca il fiume Tùria.

Al tempo la scelta preferita della vedova di Giorgio, lasciò perplessi il Papato e i Dogi veneziani e altre stirpi nobiliari del mediterraneo; tutte non si davano ragione del perché era stato preferito dalla vedova, come Porto Sicuro la città di Napoli.

Grazie a quest’atto di fiducia e stima reciproca, in seguito ebbe modo di accogliere anche altri esuli (la migrazione più consistente) i quali trovarono la strada spianata e in accoglienza e in luoghi dove insediarsi intensificando in numero le genti delle “Arché dell’infinito arbëreshë”.

Le migrazioni dalle terre dei Balcani, al seguito della Comnemo, segnando in maniera indelebile quelle linee di tutela che continuarono ad essere rispettate sia dal Papa con un tempo relativamente breve, e sia dai regnati partenopei per circa quattro secoli.

A tal proposito è bene, rilevare, la sostanziale differenza che distingue queste famiglie di profughi in base alle epoche e gli eventi politico religiose in atto:

i primi segnano il territorio a favore del re per controllare i Principi legati alla corona francese;

i secondi, oltre a incrementare il numero in senso di forza lavoro si insediarono in quell’antica disposizione subito dopo la venuta di Andronica Arianiti Comneno e rappresentano l’arretramento del fronte per la difesa della cristianità nelle terre parallele ritrovate.

In altre parole sono le stesse famiglie allargate di cui il condottiero si fidava e attingeva le sue armate, ragion per la quale il loro trasferimento in massa nel baricentro mediterraneo, avrebbe rappresentato il fronte ultimo, dove attendere gli ottomani.

Era nata la linea per la difesa della cristianità, arretrata ma colma di quei valori per i quali gli ottomani avevano subito, ragion per la quale imbattersi in quelle linee avrebbe risvegliato l’antica indole ereditata secondo le metodiche adottate dal nobile condottiero.

Questo dato storico è confermato anche negli atteggiamenti delle istituzioni religiose prima lasciando liberi di agire gli arbëreshë e consentire loro di predisporre consuetudini tipiche, per almeno un secolo; quelle civili ignorarono i dissidi locali e accuse di ogni genere, giunte all’attenzione persino agli organi preposti partenopei, rimaste perennemente evase.

Aver predisposto secondo un progetto mirato il controllo delle vie di accesso dall’esterno e di mitigazione delle ingerenze di principi francofoni dall’interno, consentirono di ripopolare oltre cento tra paesi e casali abbandonati, facendo insediare gruppi di famiglie allargate arbanon, che da ora in avanti saranno riconosciuti come arbëreshë.

Arche abitative per la difesa, Katundë ripopolati da profughi arbëreshë, cui fu affidata la missione di mitigare le volontà di espansione dei mussulmani, o almeno di evitare futuri confronti con i nuovi popoli che con gli indigeni condividevano quelle terre.

Per confermare storicamente ciò, rimangono le vicende e gli atteggiamenti degli arbëreshë, quali attori principali della storia del regno di Napoli, protagonisti incontrastati, giacché i loro perimetri impenetrabili erano descritti su metriche linguistica e consuetudinarie, non visibile, ciò nonostante furono barriere indelebili di un territorio, con lo scopo di unire, uomini e secondo valori sociali non scritti.

Giorgio Castriota per gli arbëreshë rappresenta la svolta storica di quanti abitarono le terre una volta dell’Epiro Nuova E dell’Epiro Vecchia, preparando con dovizia di particolari i presupposti migliori per tutelare l’originaria essenza Linguistica, metrica, consuetudinaria e religiosa, senza eccessivi stravolgimenti, oggi ancora vivi in quelle macro aree che identificano la Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

I parlanti questa lingua antica, senza ne segni, né tomi, rappresentano i prosecutori di un modello senza eguali, ancora oggi, capace di mantenere vivi i valori per integrarsi con le genti indigene restando ancorato all’antica radice.

Gli eventi della storia se adeguatamente intesi, restituiscono un quadro preciso in cui appare subito la difesa dei territori, poi quella dei regnanti partenopei come nelle vicende che videro antagonista Masaniello, e in seguito rimanendo sempre vigili protagonisti delle vicende sociali e ed economiche dei territori dove furono insediati; Furono ancora protagonisti prescelti, in seguito con l’istituzione della Real Macedone, difesa personale di Carlo III, il quale affidò persino la gestione religiosa del reggimento di valorosi nella mani di un Arbëreshë, perché fuori dagli antagonismi politici dell’epoca; ed è ancora la famosa guardia Real Macedone che nel 1799 viene  utilizzata per dare manforte al Ruffo di Calabria e sedare definitivamente le illusorie aspirazioni dei liberi pensatori partenopei; va inoltre evidenziato l’estremo tentativo, che nel 1805 Ferdinando I, voleva istituire per sedare i progetti di Napoleone, allo scopo fecero giungere diverse navi con Albanesi illudendosi che conservassero quelle antiche attitudini dello storico condottiero, ma appena dopo lo sbarco, si resero conto che i tempi erano mutati e le genti di quella nazione erano stati piegati secondo altre prospettive.

Sono sempre gli arbëreshë che dopo il decennio francese hanno un ruolo di primo piano per i progetti di unificare l’Italia, cosi come in seguito a questa e sino ai giorni nostri, occupano posti di rilievo, perfettamente integrati, nei processi sociali, politici, economici e dell’integrazione e la pace tra i popoli.

Oggi purtroppo subisce ad opera indigena una deriva storica senza eguali, giacché i riferimenti verso la storia e i luoghi dove essa ha avuto inizio, sono venuti a mancare e allo scopo sono allestiti monumenti a ricordo di Giorgio Castriota comunemente appellato Skanderbeg (**), anzi in alcuni casi usando esclusivamente l’alias con il quale si fece conoscere nel periodo antagonista dei cristiani; sottovalutati dagli ottomani e impressi durante i suoi primi nove anni dalla devota madre, Voisava Tripalda e dal cristiano padre, Giovanni Castriota.

Oggi è facile imbattersi in allestimenti o manifestazioni prive di una radice ideale capace di restituire valore in linea con gli ideali dell’eroe ZOTI GJERGJ, incidendo sin anche date, vicende e alias senza radice di tempo e di luogo.

Quello che più duole è nel constatare quale lungo di queste esternazioni pubbliche sono “le Arché dell’infinito arbër” tracciati dall’eroe Zoti Gjergj; busti, statue equestri, sono allestite senza un disciplinare degno di una figura di tale spessore, eppure basterebbe aver letto le sue gesta per comprendere che la sua meta a cui volgeva lo sguardo era sempre la stessa,  il luogo dove la sua missione ebbe iniziò, per restituire ai Turchi le stesse sensazioni di dolore causate alla sua famiglia e alla sua Gente.

Sono gli Arbëreshë e gli Albanesi, in tutto i legittimi eredi della radice di integrazione tra le più raffinate del Mediterraneo, coloro che si devono prodigare, al fine di tracciare un itinerario di valorizzazione della storia della Regione Storica Arbëreshë e dello stato d’Arberia.

Oggi non servono crociate vaticane sempre pronte a essere attuate, così come le frizioni storiche non solo tra mussulmani e cristiani, estese a Ortodossi, Bizantini e Alessandrini, per proporre modelli romani che pur costruendo ottime e indispensabili vie dell’economia, gli antagonisti che poi le utilizzarono, nonostante ciò per una forma di disprezzo verso i romani e le indispensabili “strade” le appellandole“rotte”.

Zoti Gjergj detto Scanderbeg e la sua storia rappresenta una parentesi incancellabile degli accadimenti dei Balcani  del  XV secolo, essa racchiude il senso e il perche Gli arbanon furono scissi in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria.

Gli Albanesi rappresentano quanti hanno preferito rimanere e avere il premio della terra, secondo le regole ottomane, assumendosi per questo l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di li a poco rimaneggiata e compromessa identificata oggi come Shquip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, dell’impenetrabile idioma; nella consuetudine radicata nel cuore e nella mente; nella metrica del confronto fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in armonia con i territori vissuti e integrarsi pacificamente con le genti indigene.

Qui in Italia vivono gli Arbëreshë, gli abitanti giunti indistintamente e senza discriminazioni dell’antico territorio dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, i portatori sani del un modello consuetudinario, dato per perso nel XV secolo, quando ecco che appaiono le gesta di un fanciullo, Giorgio Castriota, figlio di Giovanni e di Voisava Tripalda, “la stella cometa” che indicò, dopo aver tracciato la strada verso le terre parallele del Regno di Napoli dove dimorare e tutelare la rarissima radice arbanon.

I risultati di questa intuizione li apprezziamo ancora oggi nella regione storica del meridione italiano, a tal proposito sarebbe il caso di fermarsi a riflettere, invece di sprecare frammenti irripetibili della storia, gli stessi che si potrebbero ancora recuperare organizzando:

“la giornata del risveglio della fratellanza Arbanon”

Esaltando un’antica tradizione di “Estate” tutti uniti ed essere protagonisti, Albanesi dell’odierna patria (il tangibile) e gli Arbëreshë, i tutori dell’antica radice identitaria (l’intangibile).

Una giornata in ricordo di quanti sacrificarono la propria vita e segnarono la storia in Europa, identificandosi con l’antico idioma arbëreshë; la linfa ideale in grado ad innalzare le armonie dei cinque sensi dei territori vissuti, a cui associare il “canto di genere arbanon “le Valje”.

 

 

** – Nel Volume II°  della Calabria Illustrata ad opera del M. R. P. Giovanni da Fiore da Cropani –  quando è tratta il capitolo degli esuli provenienti dai Balcani, egli scrive  Giorgio Castriota, (volgarmente denominato Scanderberg) , l’appellati non ci deve indurre in inganno secondo l’uso odierno, in quanto, secondo la lingua del volgo del popolo, voleva dire:  “comunemente denominato Scanderberg.

 

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