NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando erano al termine i lavori per la definizione della legge 482 del 1999, secondo quanto sancito dell’art. 3 – 6 – 9 della Costituzione Italiana, e suggerito della Comunità Europea, gli stati generali arbëreshë iniziarono a fermentare, come fa il mosto, prima di diventare nettare.
Per l’evento, di tutela secondo la citata legge, serviva caratterizzare la minoranza con un sostantivo tipico, che avrebbe dovuto dare valore alla “Regione storica diffusa Arbëreshë”.
Identificato quale volano il sostantivo “Gjitonia”, essa doveva essere valorizzato come esclusivo della minoranza al fine di rendere moti i minori ai maggiori.
Il personalismo purtroppo a questo punto ha preso il sopravvento sulla ragione e invece di aprire un tavolo di indagine composto da commissione multi disciplinare con solide capacità interpretative sia in campo linguistico, e di specifiche discipline, si è preferito procedere in ordine sparso.
Tale da emulare quanti dovevano panificare un tempo, per questo, partivano alla ricerca del ”criscito madre perduto”, peregrinando lungo Rioni, Quartieri, Vicoli, Strade, Sheshi o addirittura senza meta perché non più in grado di orientarsi.
Allo scopo e per togliere ogni sorta di dubbio è opportuno specificare che “Gjitonia”, non è Rione, non è Quartiere, non è come il Vicinato, non è “uno sheshi a forma circolare che unisce la corale convivenza delle abitazioni” ne un paradossale trittico architettonico e ancor meno il festival delle porte aperte.
Nella comune conversazione della nazione detta Arbëria (???) viene definito lo Sheshi come piazzetta, purtroppo, anche in questo caso si parla di dinamiche compositive in senso organizzativo di spazio, come un quartiere, senza avere alcuna cognizione storica per quanto attiene al significato di tale sostantivo o di altri ad esso associati o ritenuti simili.
Partendo dal dato storico che ogni “rione” prima di essere tale, era uno spazio delimitato da un recinto di materiali naturali, quali tronchi e rami intrecciati, entro cui trovo rifugio il gruppo familiare allargato, cosi giunto e organizzato dalla terra di origine Balcana.
Al suo interno, era allestita la rudimentale abitazione in forma estrattiva, l’orto botanico e le attività della filiera corta, che qui terminava di comporre e selezionare le parti più genuine.
Quando le attività messe in atto, consentirono al gruppo familiare allargato, di crescere di numero, questi iniziarono a proporre lo stesso modello di residenza passando dal’antico modulo estrattivo al nuovo additivo, quest’ultimo in specie, passò da materiali deperibili a quelli naturali duraturi come calce e pietra.
È da questo momento che inizia a svilupparsi il rione, il cui disegno planimetrico si presenta sempre privo di murazioni o barriere per la difesa.
E’ lo stesso impianto urbano in allestimento a risponde anche alla esigenza difensiva oltre che sociale e abitativa, come insegnavano le Skite religiose; così vennero innalzati agglomerati diffusi, che per forma ed espansione espansiva attingevano dai concetti di labirinto.
Strade strette e case addossate diventarono una secessione di dogane, perennemente attive; funzione che ogni abitante del rione svolgeva attraverso la porta gemellata con l’indispensabile finestrella, che non pagava tassazioni.
Tanti luoghi di avvistamento diurno e notturno, svolgevano senza soluzione di continuità l’atto della difesa, attraverso lo spazio costruito di quanti vi abitavano all’interno dello Sheshi; il Labirinto, come gli Arabi prima degli arbëreshë negli anfratti prospicienti il mediterraneo erano solito denominarlo per difendersi.
Da ciò si evince che lo “sheshi non è uno slargo non è una piazzetta non è solo uno dei temi che compongono il modello urbanistico arbëreshë”, ma un sistema raffinato e articolato, fatto di costruito irregolare, che consente difendersi, contro ogni forza avversa; sia esso di radice naturale, come precipitazione, irraggiamento solare, esposizione eolica o derivante dell’uomo con intenzioni di sottomettere.
Alla luce di tutto ciò, “Gjitonë” non è da ritenere l’avversario di se stesso, come si dice, veicolando per questo, forme di razzismo, tra parenti, che non trovano ragione d’essere, se non in discriminatori concetti, comunemente divulgati, perché privi di ogni formazione forma di scolarizzazione, neanche i rudimenti culturali, attraverso cui comprendere quanto viene divulgato impropriamente senza alcun fondamento.
Un altro stereotipo, di cui si fa un grande uso, sino a varcare i limiti della blasfemia,lo si esprime nel principio secondo cui la Gjitonia, porta un nome di un luogo o di una persona a cui viene dedicata, preceduto dal suffisso “ka”.
L’errore storico arriva al punto tale da scambiare il “laboratorio ideale di ricerca dell’antico ceppo familiare” su base dei cinque sensi, con un episodio toponomastico di tempo associato ad un luogo.
La ricerca dell’antico identificativo arbëreshë, ideale spazio non identificato è definito dalla frase: Gjitonia; sin dove arrivano i senso; l’enunciato venne intercettato in una ricognizione presso un Katundë della destra Crati, durante un’intervista a una ultra novantenne, che descriveva e parlava dei cerchi concentrici dell’armonica forma sociale, dove lei si riconosceva, pur essendo diversamente abile.
La ricerca, diretta da un noto antropologo latino e da giovani allievi arbëreshë, per inesperienza di questi ultimi, venne riferita all’antropologo professore, secondo una sintetica traduzione incompleta di quanto era riferito dall’anziana donna.
È proprio questa espressione che mi è stata lasciata in eredità dal professore, in una delle ultime conversazioni nel 2009 , dicendomi; ho fatto tanta ricerca sul campo e non sono stato mai convinto di fare bene, ma una frase mi ha sempre perseguitato e non riesco a dimenticare; “gjitonia dove vedo e dove sento”.
Risposi al professore che allora l’aveva intercettata, ma tradotta male dai suoi allievi, giacché per gli arbëreshe vedere e sentire sono semplicemente i “cinque sensi”.
Ragion per la quale, gjitonia è un luogo ideale senza confini, sin dove la vista, il tatto, gli odori, i suoni, i sapori, restano identificabili e non mutano; essi sono la memoria di crescita e una volta che ti hanno avvolto, continuano ad essere vivi nella tua formazione, se poi questi sono intercettati da quanti li avvertire ordinatamente secondo gli antichi dettami Kanuniani è il segno distintivo che appartieni alla minoranza arbëreshë.
Per riassumere: “gjitonia è un luogo identificato attraverso i cinque sensi, sensazioni per le quali e attraverso i quali riconosci la memoria e il segno del tempo associato al bagliore di sensi”.
Ragion per la quale la Gjitonia rappresenta una cassa naturale che non ha confini, si attiva tutte le volte che la lealtà di quanti ti stanno a accanto, apre uno scenari antichi di suoni, sapori, sensazioni, odori e ti accompagnano gli stessi che fanno avvertire ogni cosa che ti avvolgeva di una storia antica.
Non è la forma della piazza, non è la regolarità della strada, né la qualità del costruito che ti circonda ad attivare il sentimento antico, ma è l’insieme armonico che si sviluppa, quando natura, tempo e uomini usando i sensi condividono presente e futuro secondo le antiche consuetudini in arbëreshë.