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L’ARBËRESHË GIORGIO CASTRIOTA DI GIOVANNI

LA SALITA DELLA SAPIENZA (PERLA – I° – GIORGIO KASTRIOTA DI GIOVANNI)

Posted on 05 ottobre 2019 by admin

L’ARBËRESHË GIORGIO CASTRIOTA DI GIOVANNINAPOLI (di Atanasio Pizzi) – 

(Introduzione)

Quando penso alla vostra “Arbëria”; immagino una strada antica, piena di buche, cui le persone che vi abitano prospicienti, si ostinano a riempire (senza titolo in campo di manutenzione stradale) il discontinuo della lamia di scorrimento, innalzandosi ai preposti operatori.

Il fenomeno anomalo nasce per una volontà di apparente altruismo, tuttavia le disarticolate opere di rifacimento, rendono pericolosa la strada che non risponde più allo scopo per cui venne realizzata, oltretutto le mere aggiunte, divengono una trappola, per quanti ignari adoperano la via sicuri che conduca lungo i trascorsi della “Regione Storica Arbëreshë”.

(Perla – I°) 

Correva l’anno 1413, quando uno dei principi d’Albania superiore o del Nord, Giovanni  Castriota uomo forte, prudente e di cristiana fede, dovette capitolare in favore dei turchi, per tutelare il suo regno con capitale Krujë, la vita di sua moglie Voisava Tripalda e dei suoi figli; Reposio, Stanista, Maria, Costantino, Giorgio, Yiela, Angelina, Mamizia e Vlaica.

Le regole cui si attenevano i turchi in questi frangenti di conquista, richiedevano come pegno della vittoria i figli maschi, i prossimi discendenti di quel governariato, rispettivamente: Re­posio, Stanista, Costantino, Giorgio.

Il patto di sottomissione evitava lo sterminio e lasciava indenni quanti vivevano in quelle terre, cosi facendo avrebbero continuato a progredire e valorizzarle, in attesa della discendenza, sottoposta a vigili regole  turche.

Quando ciò avvenne, Giorgio il figlio minore del principe Giovanni, aveva appena nove anni, pur essendo in più piccolo e ultimo nella discendenza, gli osservatori dell’epoca, facevano notare che per la sua stazza fisica ne dimostrasse almeno venti.

Giorgio, e i suoi fratelli appena consegnati, alle attenzioni dei Turchi, pur se avessero dato, questi ultimi, grandi rassicurazioni di libera Religiosa Cristiana, giunti nella corte, furono battezzati e circoncisi secondo i riti della credenza di  Maometto cambiandone sin anche il  nome.

Reposio fu lasciato libero di prendere la via ecclesiale, Stanista e Costantino preferirono la vita di corte, convertendosi al paradisi che offriva la corte turca e Giorgio, appellato Alessandro (Skender) , mostra ottime qualità come lottatore, combattente e stratega, diventando in meno di un decennio, beniamino del sultano, guadagnandosi l’appellativo “beg” (signore), che diventerà Scanderbeg.

Le sue attività per cui eccelleva lo vide protagonista incontrastato, contro i Cristiani, ora in Grecia, ora in Ungheria, comunque sempre ben distante dalle pertinenze di genti di lingua albanofona.

Nonostante l’amore, e il rispetto verso la Cristiana religione, depositato nel suo animo dai genitori, cosi come le consuetudini di radice arbër  suoi ideali, si oppone all’avanzata dei cristiani in oriente, emergendo nelle cronache di conquista dell’epoca.

Porta a buon fine, battaglie a vantaggio dei Turchi, sottomise molte  provincie, sino al compimento dei suoi primi quarant’anni epoca in cui pote tornare libero da quella imposta sottomissione.  

Le sue gesta in tale direzione giungono sino alla fine del 1443, quando si diffuse la notizia che il padre, Giovanni era passato a miglior vita, anche se si ipotizza che ciò fosse avvenuto sempre per cause naturali, all’incirca un anno prima e tenuto nascosto per prolungare l’avvento dei Turchi; tuttavia questi ultimi si presentarono nel maniero di Krujë a riscuotere la discendenza di quel governariato.

Come la consuetudine, della luna calante prevedeva, l’antico patto andava messo in atto e allo scopo fu inviato il Generale turco Sabelia, con un grosso corpo d’armata impossessandosi delle terre di Krujë, certo che l’impresa non avrebbe incontrato alcuna opposizione.

Così  avvenne, dato che trovandosi tutte le piazze sprovvedute di truppe e munizioni, i turchi si presentarono a riscuotere  per conto di  Reposio (Caragusio) la  paterna  Corona, anche se  questi era morto già da tempo, comunque con questo inganno unito al terrore delle loro armi, entrarono a  Krujë e presero la gestione delle Città,  affiliate al governariato di Giovanni Castriota.

Quest’atteggiamento, privo di un’idonea valutazione preventiva da parte dei turchi, diverrà pena ai vertici della luna calante, pagata a caro prezzo ben presto con protagonista Giorgio Castriota.

Ciò tuttavia, il sultano per allontanare ogni ripercussione sulle modalità di attribuzione del trono, provvide prima del ritorno di Giorgio a sopprimere i suoi fratelli e  avrebbero  sacrificato anche lui, se non fosse stato per il suo scaltro atteggiamento assunto nell’apprendere gli eventi accaduti .

Giorgio Castriota rimasto solo, ben consapevole a cosa sarebbe andato incontro, nonostante si mostrasse indifferente, preparava la sua “Besa” fingendo di preferire gli onori della Corte Turca.

Il suo modo di porsi compiacente verso il Sultano, anche quando questi spiegava di aver agito per la difesa del suo paterno patrimonio, perché mira dei principi limitrofi, specie durante la sua assenza; a questa tesi largamente diffusa, Giorgio con scaltro atteggiamento, tranquillizzava i turchi ritenendo giusto quanto attuato nel suo interesse.

Oltretutto, non mostrava alcuna perplessità al quadro prospettato dal sultano turco, preparando intanto con minuziosa e regola Kanuniana , “la Besa del sangue versato” in nome dei fratelli; in tutto, agiva con gli stessi mezzi adoperati dai turchi, per ricuperare la Corona e la guida del suo popolo che attendeva con ansia il rientro.

I turchi sino alla dipartita del padre per venticinque anni avevano fatto tutto secondo una metodica perfetta, sottovalutando un dato, ovvero, che pur se di nove anni Giorgio Castriota, (** volgarmente ricordato come Skanderbeg), il giorno della sua consegna per ricatto, all’invasore turco, aveva ben in mente le regole consuetudinarie della “Besa” inscindibilmente impressi nel suo D.N.A.

Il 2 di marzo 1444, nella cattedrale di San Nicola ad Alessio, il Principe Arbër Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità, guida cristiana,   marchiato secondo le consuetudini turche, “Scanderbeg”.

I Principi convenuti in quel 2 Marzo del 1444 furono: la principessa Mamizza Castriota, la sorella di Scanderbeg; Arrianiti Signore della Provincia Canina, Calcondila e Rafaele Valoterano; Teodoro Corona Signore di Belgrado amico particolare di Giovanni Padre di Giorgio Castriota; Paolo Ducagini, il più considerato principe d’arbëria, in oltre erano presenti Nicolò Ducagini, Giorgio Arianiti, Andrea Topia, Pietro Pano, Giorgio Dufmano, Gjergj Balsha, Zaccaria Altisvevo, Stefano Zornovicchio, Scura/Scuro, Vrana Conte e altri di minor nome, quali Stefano Darenio, Paolo Stefio, oltre i deputati della repubblica di Venezia, osservatori e certificatori di quell’incontro.

Quando i convenuti furono dentro il sacro perimetro, Giorgio Castriota, prese la parola e fece un discorso come qui in seguito riportato nel collegamento allegato:

http://www.scescipasionatith.it/discorso-del-principe-giorgio-castriota-rivolto-ai-suoi-pari-cristiani-alessio-2-marzo-1444.

La nuova stagione con vesti cristiane vide il valoroso condottiero esprimersi brillantemente nella missione a difesa della cristianità e gli Arbëreshë, il suo popolo, divenendo riferimento per le regioni cristiane del mediterraneo.

Per continuare e rendere più chiaro questo breve capitolo, va precisato che Giorgio Castriota, Vlad III Tepes, più noto come Dracula, entrambi storicamente ricordati come eroi nazionali nelle rispettive terre d’origine, l’Albania e la Romania, per la difesa del cristianesimo e della patria; erano i discendenti diretti di quanti istituirono il 12 dicembre 1408, l’ Ordine del Drago.

Un apparato cavalleresco o lega di mutuo soccorso, nata per contrastare l’espansione dei Turchi, ad opera dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, da Alfonso d’Aragona re di Napoli, Giovanni Castriota e da VladII.

L’ordine del Drago aveva lo scopo di rafforzare la difesa della comunità cattolica dai attacchi dei turchi e comportava alcuni obblighi, incluso il mutuo soccorso e la difesa dei familiari degli affiliati.

Le vicende a cui Giorgio Castriota diede linfa cristiana, iniziarono bel prima la sua nascita e affondano le radici nei territori prospicienti, il bacino adriatico, la famosa battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 dall’esercito dell’alleanza balcanica contro l’ottomano, a seguito della pesante dipartita cristiana si convenne di realizzare una coalizione più forte e consistente di quella turca.

Giorgio Castriota prende parte a questa vicenda, in favore dei cristiani, dopo la proclamazione nella cattedrale di del nord d’Albania, rendendosi protagonista in numerose battaglie tra gli anfratti dei Balcani infliggendo numerose umiliazioni all’esercito della luna calante.

Intervenne favore degli Aragonesi contro le armate Angioine, nella battaglia di Troia (oggi provincia di Foggia) in località Terra Strutta, Alla vigilia dell’episodio, gli Orsini di Taranto si rivolgevano al Kastriota invitandolo a non partecipare a questa vicenda, considerato un fatto privato extra cristiano, chiaramente i nobili tarantini, ignari dell’Ordine del Drago che legava i Castriota, si sentirono rispondere che il legame con quel casato era radicato in valori paterni e non religiosi.

Le conseguenti repressioni della battaglia del 1389 diedero seguito al primo stanziamento di profughi albanesi in Italia meridionale attestata su una lapide nella chiesa di S. Caterina a Enna, dove è ricordato un Giacomo Matranga comandante arbër.

Analoghe ragioni indussero Alfonso d’Aragona re di Napoli, in lotta con Renato d’Angiò, a far passare in Italia Demetrio Reres e i figli Giorgio e Basilio e stabilirli in Sicilia.

A questi episodi vanno aggiunte le vicende che videro protagonista Giorgio Castriota in Italia, iniziate nell’agosto del 1460 e durarono circa due anni, anche se altri due viaggi a Napoli e a Roma nel 1464 e nel 1466, ebbero luogo.

La permanenza di Giorgio Castriota nelle terre del regno di Napoli consentì di descrivere “le Arché dell’infinito arbëreshë”, in altre parole, linee strategiche secondo le quali dovevano essere predisposti i Katundi in attesa delle eventuali azioni da intraprendere.

Di Giorgio Kastriota va ricordato il discorso fatto alle truppe preparate a partire per la crociata finanziata dal papa, mai portata a buon fine, per la dipartita misteriosa di quest’ultimo, una febbre anomala, proprio poche ore prima di benedire il condottiero albanese e il suo esercito in partenza da Monte sant’Angelo.

Dopo il 1468, anno della morte dell’eroe Arbanon, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, che ebbe luogo di essere attuato, accogliendo a Napoli, Andronica Arianiti Commeno, moglie di Giorgio Kastriota i suoi figli e alcuni anni dopo la figlia di Vlad III (il famigerato conte Dracula).

Questo episodio quando ebbero luogo, lasciò perplessi il Papato e i Venezia che non trovavano spiegazioni, sulla base di quali presupposti la capitale partenopea era preferita ad accoglienza la nobile donna, la sua discendenza, il suo seguito e perche alcuni anni dopo la figlia per seguire la figlia minorenne del condottiero rumeno, la Comneno, lascia la residenza reale per trasferirsi in un palazzo nobiliare nei pressi di Santa Chiara.

È grazie al mutuo soccorso dell’Ordine del Drago che un gran numero di famiglie Arbanon seguono la moglie di Giorgio Castriota e si sovra dispongono alle “ Arché dell’infinito arbëreshë”, secondo le strategie immaginate dal condottiero.

Una sostanziale differenza distingue l’accoglienza di queste famiglie di profughi:

 i primi segnano il territorio a favore del re per controllare i principi francofoni,

I secondi a seguito della venuta di Andronica Arianiti Comneno, rappresentano un’aretramento del fronte per la difesa della cristianità, le stesse armate che furono del condottiero, si trasferiscono in meridione come il fronte ultimo contro i turchi, che accolgono il messaggio e non osano mai metterlo alla prova.

Questo è confermato anche dall’atteggiamento che nei loro confronti hanno avuto le istituzioni civili e religiose per almeno un secolo, lasciando liberi di agire e predisporre consuetudini tipiche degli arbëreshë, che per diversi decenni sono state accusate di ogni tipo di esternazione.

Avere sul territori del Regno di Napoli oltre cento paesi di estrazione albanofona con le famiglie e le proprie discendenze, in effetti rappresentava una linea di difesa solo arretrata, ma solidamente legata alle antiche consuetudini e alla permeabilità linguistica.

Giorgio Castriota per gli arbëreshë rappresenta, un segmento storico di svolta, in quanto, ha dato modo di poter consolidare senza stravolgimenti particolari il valore che oggi sono proprie della Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

Vero è che pur vivendo in periodo di confronto e scontro con le genti indigene gli arbëreshë sono stati lasciati coltivare le proprie consuetudini più intime, se si esclude il ravvedimento del Papa a seguito del Concilio di Trento 1673, che poi viene corretto e recuperato con l’istituzione del Collegio Corsini a San Benedetto Ullano, dando vita al scimmiottamento Latino, Ortodosso, Bizantino, Alessandrino.

Se oggi dovessimo stilare un resoconto di cosa è come le consuetudini linguistiche si riverberano similmente negli ambiti diffusi della regione storica, lo dobbiamo alla caparbietà e l’ostinazione dei regnanti che dal XIII al XIX secolo furono fermamente convinti di possedere oltre cento paesi abitati da famiglie arbëreshë .

I tutori, di una capacità di difesa del territorio, irripetibile, a conferma di ciò corre la storia; la difesa dei regnanti ai tempi di Masaniello; la scelta di istituire la Real Macedone quale difensori primi di Carlo III, gli stessi che sedarono definitivamente 13 Giugno del 1799 le illusorie aspirazioni dei liberi pensatori e l’estremo tentativo dei Borbone, nel 1805, per istituire un efferato esercito da contrapporre alle politiche di Napoleone.

Oggi in Maniera impropria senza alcun riferimento alla storia e i luoghi dove essa ha avuto inizio, vengono allestiti monumenti a ricordo di Giorgio Castriota (** volgarmente ricordato come Skanderbeg), anzi in alcuni casi appellandolo con l’alias di estrazione turca, ovvero con quel nome che gli venne dato per combattere la cristianità che non gli apparteneva.

Oggi in maniera a dir poco allegra, si usa incidere date di nascita e di morte senza alcuna radice di ricerca, tuttavia duole il dato che nessuno dei paesi che ha adottato questa scelta fuori luogo orienta il suo sguardo della statua raffigurante Giorgio Castriota, figlio di Giovanni da Krujë, verso la latitudine e la longitudine dove ha iniziato la Cristiana difesa per restituire la sonante lezione ai turchi, colpevoli di aver vigliaccamente eliminato i suoi fratelli e sottomettere quella regione del nord dell’odierna Albania i legittimi discendenti

Cosa dobbiamo fare oggi per continuare a rendere solida e duratura l’esperienza che poi si è trasformata nel modello di integrazione unica nel suo genere: basterebbe lavorare facendo il mestiere per il quale si è nati e si sa eccellere, e non emulare gli antagonisti dei romani, i quali per demeritarli, le chiamavano “strade” le loro opere, ma disprezzandole semplicemente“rotte”.

 

 

 

**  Giovanni da fiore nel Libro secondo della Calabria illustrata quando parla degli arbëreshë Inquadra Giorgio Castriota definendolo: volgarmente ricordato come Skanderbeg

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La Salita della Sapienza (PERLA - V° - LUIGI GIURA DA MASCHITO)

La Salita della Sapienza (PERLA – V° – LUIGI GIURA DA MASCHITO)

Posted on 28 settembre 2019 by admin

PERLA - V° - LUIGI GIURA DA MASCHITONAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Quando il 7 Settembre del 1860 Garibaldi entrò trionfante a Napoli si prodigò, nell’immediato, a predisporre  un governo provvisorio per i necessari adempimenti al plebiscito del 21 ottobre 1860.

A tal fine, fu coadiuvato da uomini di elevato spessore morale e professionale,  esaurienti conoscitori delle emergenze che attanagliavano, il capitolato Regno Borbone.

I prescelti che rivestirono le cariche istituzionali di quel governo prodittatoriale furono: Il Prodittatore – Giorgio Pallavicino, Il Ministro dell’Interno e Polizia – Raffaele Conforti, Il Seg. di Stato degli affari Esteri – Francesco Crispi (Arberëreshë), Il Ministro di Grazia e Giustizia – Pasquale Scura (Arberëreshë), Il Ministro di Guerra e Marina – Amilcare Anguissola, Il Ministro dei Lavori Pubblici – Luigi Giura (Arberëreshë).

Riassumere il contributo che l’intera Regione storica Arbëreshë, in senso di uomini, di sapere oltre a confermare storicamente l’integrazione del popolo arbëreshë con quello italiano, richiede altri ambiti e tempi, ciò nonostante va sottolineato l’apporto dato dalle figure di Francesco Crispi, Luigi Giura e Pasquale Scura.

Tre solidi esempi, della comunità minoritaria tra le più operose della storia italiana dal XIV secolo.

Le epoche in cui vissero questi uomini, rappresentano la punta di un diadema molto più esteso, di quello che appare, la cui forza ha radici profonde; politico Francesco Crispi, magistrato Pasquale Scura, espressione della scienza esatta Luigi Giura; accomunati da uno spiccato valore morale le cui radici affondano nei valori delle famiglie arbëreshë.

In questo breve vorrei esporre le gesta dell’uomo esempio di scienza esatta: l’Ingegnere-Architetto L. Giura da Maschito, in Provincia di Potenza; poco noto, anzi direi sconosciuto sino a qualche anno addietro, anche da coloro che credono di possedere il sacro Graal della Regione storica Arbëreshë e Albanese, quest’ultima in specie rimane ancora oggi legata a personaggi e stereotipi, vetusti e impropri, emarginando le figure di pura estrazione culturale, per i quali ed attraverso i quali identificarsi.

Luigi Giura si distinse nei primi sei decenni dell’ottocento, restando imbrigliate le sue opere d’ingegneria, non al suo nome, ma a chi dominava il regno e per questo penalizzato in tutte le sue eccellenze sia come uomo e sia come luminare di scienza esatta.

Tutto ciò nonostante avesse avuto una chiara presa di posizione nei motti sino al 1848; tuttavia ancora oggi rievocare il suo spessore tecnico e artistico, mette in luce il periodo storico in cui visse  il genio, il professionista che anticipò i tempi di tutte le scuole europee, comprese la francese e l’inglese.

Spetta a noi albanofoni, e mi riferisco sia agli Arbëreshë e sia agli Albanesi dei Balcani, il compito di creare i presupposti idonei per liberare da una gabbia impropria, la figura del grande luminare  della moderna ingegneria.

Le sue opere rappresentano il vanto e i traguardi cui giunse il meridionale nel periodo che va dal 1827 al 1864, anno in cui venne a mancare, non prima di aver riservatamente anticipato, ciò che gli storici moderni, i frutti del genio di  unione tra popoli.

Le parole con cui Paolo Emilio Imbriani, Presidente del Consiglio Provinciale Napoletano, sottolineò sabato primo giorno di ottobre  del 1864, la scomparsa del nobile ingegnere, racchiudono la figura del Giura: uomo di Scienza Onesta da associare al principio più dominante della Scienza Esatta.

Era di Mercoledì quel il 14 ottobre 1795, a Maschito, piccolo centro minoritario di etnia Arbëreshë allocato nell’area del Vulture, e nessuno immaginava che iniziava una parentesi storica, che tutta l’Europa le avrebbe invidiato; Vittoria Pascale, metteva alla luce Luigi, figlio legittimo di Francesco Saverio Giura.

Le prime nozioni scolastiche il giovane maschitese le acquisisce presso i Padri del­le Scuole Pie, in quella stessa provincia lucana.

Terminato brillantemente questo primo ciclo di studi, fu affidato, allo zio materno Vincenzo a Napoli, che lo indirizzò verso le discipline scientifiche dopo aver misurato le sue attitudini, specie in scienza, matematica, meccanica e idraulica.

Il giovane arbëreshë seguiva, per sua scelta, anche i corsi di disegno e composizione nell’Accademia napoletana di Belle Arti, allocato a quel tempo nel complesso delle Mortella, completando  la sua formazione, anche in campo architettonico.

Il 4 marzo 1811 sostenuto l’esame d’idoneità nella nascente Scuola Annessa al Corpo di Ponti e Strade, fu primo all’esito finale della prova, pur partecipando come allievo esterno.

Conseguito il titolo d’ingegnere e architetto nel 1814, venne scelto a coadiuvare il Cav. Bartolomeo Grasso, ingegnere del dipartimento, che si occupava delle aree e di lagni in Terra di Lavoro della Campania settentrionale.

L’Europa in questo periodo è in fermento per l’acquisizione di nuovi sistemi tecnologici, di produzione, scambio e trasporti; anche il Regno di Napoli per non rimanere arretrato ed essere fagocitato da altre potenze, rispose con l’istituzione del Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade e l’annessa Scuola di Specializzazione, quest’ultima con il compito di fornire il naturale ricambio generazionale al corpo,

Tuttavia l’istituzione non ebbe molti consensi nel meridione, poiché, essendo gestite liberamente le terre dai principi e signori locali, non accettavano di buon grado le regole con cui gli ingegneri pianificavano gli equilibri geologici, non  riconoscendo alcuna utilità alle bonifiche, miglioramento e salvaguardia dei territori sino ad allora fuori da ogni minimale regola.

La questione non fu di semplice risoluzione e si trascinò per molti anni, furono innumerevoli gli episodi che misero in dubbio il futuro del Corpo, che, intorno al 1817 rischiò persino il fallimento, alla luce del gran numero di giudizi cui era continuamente costretto a rispondere.

La svolta avvenne quando nel 1824, la direzione fu affidata all’ufficiale Carlo Afan de Rivera, quest’ultimo oltre ad aver avuto una brillante carriera militare, aveva collaborato per molti anni nelle officine cartografiche del regno, quindi lucido ed esperto conoscitore del territorio, completata da una grande formazione nel campo della botanica.

Il militare come prima attività di rinnovamento de corpo degli ingegneri, fece proprio dell’istituto lo statuto che regolava il Corpo istituito e collaudato già in Francia.

In oltre profondamente convinto dell’utilità di confronto, con altre realtà che operavano nello stesso campo, con un budget di circa seimila ducati inviò Luigi Giura accompagnato da tre gio­vani ingegneri: Agostino Della Rocca, Federico Bausan e Michele Zecchetelli, , in Francia, in Inghilterra e nelle città degli allora stati Italiani, per confrontarsi con gruppi di lavoro e acquisire metodiche nel campo dell’industria e dell’indotto.

Giura e il suo gruppo partì da Napoli il 18 luglio 1826 per ritornarvi il 27 luglio 1827, il programma di viaggio fece capo a una moltitudine di siti, dei quali i più degno di nota sono quelli di Parigini e Londinesi.

L’ingegnere arbëreshë può ritenersi il restauratore dell’antica Scuola di applicazione di ponti e strade e l’annessi istituto  di formazione; la prima Speciale che l’Italia possa vantare e che lascio un segni indelebili nell’Europa in crescita.

Nel 1828 ebbe l’incarico dal Governo napoletano di costruire un ponte sospeso a catene di ferro sul Garigliano, l’antico confine tra regno di napoli e la chiesa romana.

Fu in Italia la prima opera di questo nuovo sistema, che evitava di realizzare paramenti murari nel letto del fiume, con il conseguente cospicuo risparmio di tempo e danaro; la novità di questo ponte è rappresentata del conge­gno del pendolo per il quale Giura salì agli onori dei progettisti europei.

Il doppio pendolo posizionato in cima al pilastro di sospensione, era una macchina capace di accogliere più forze e trasformarle da dinamiche in statiche, distribuendole esclusivamente al pilastro cui scaricava solo ed esclusivamente quello di sforzo normale mentre alle catene di ritenuta, le forze risultanti inclinate, la spartizione avveniva con qualsiasi carico applicato al tavolato di calpestio del ponte.

Ma non solo questa fu l’innovazione che consentì al Giura di riuscire in questa e impresa, infatti, egli assieme ai proprietari delle fonderia di Mongiana in Calabria mise a punto una lega che permise di realizzare le catenarie di sospensione, realizzando maglie con il metodo della trafilature, metodica ancora sconosciuta nei regni che in quei tempi descrivevano la odierna Italia.

Grazie al suo ingegno, in breve preparò la macchina per trafilare i metalli e quella indispensabile per le prove di carico dell’innovato prodotto siderurgico.

Una macchina tanto utile ma così invasiva, che durante le prove, provocava dei piccoli terremoti nella zona dei mulini, Via Cesare Rosaroll, dove era allocata, per cui, si dovette nel breve provvedere a trasferirla nella periferia della città partenopea.

Il ponte del Garigliano rappresenta il riassunto delle capacità progettuali ingegneristiche e architettoniche di Luigi Giura, un genio arbëreshë.

Dopo questa brillante impresa gli fu affidato di realizzare il ponte sul fiume Calore, sempre su catenarie, impiegando una spesa minore del previsto; altri due, poni gli furono commissionati uno a Pescara e l’altro a Eboli sul fiume Sele, in località Barritto, questi due ultimi pur se progettati nelle versione preliminare non furono mai realizzati per lungaggini  burocratiche che in quel periodo aveva preso piede e rallentavano il buon lavoro del corpo degli ingegneri Partenopei.    

L’altra grande opera realizzata da Giura fu la bonifica dell’emissario del Fucino, un condotto, realizzato da Claudio Imperatore per portare le acque del lago carsico nel fiume Liri, attraverso un cunicolo sotterraneo di circa sei chilometri.

Le opere per tenere in efficienza il condotto videro come protagonisti sin anche Traiano, Adriano, e poi Federico II di Svevia seguito da Alfonso I, ma nessuno di loro riuscì nel tentativo di realizzare un idoneo apparato che sostenesse in modo durevole le sezioni del condotto.

La realizzazione di un opera cosi antica venne sottoposta allo studio e alla genialità di Luigi Giura nel 1835, coadiuvato da valenti ingegneri del corpo di ponti e strade, attraverso una serie di rilievi e studi mirati alla conoscenza delle caratteristiche geologiche e meccaniche di quel tratto di montagna, riuscì a sostenere gli incerti terreni, fino a raggiungere l’intero sgombero del celebre traforo del monte Salviano.

Luigi Giura fornì un progetto completo, atto ad ampliare e restaurare l’emissa­rio, con tutte le particolari opere indispensabili a prosciugare il lago, anche se ciò per le vicende di burocrazia di malaffare fu possibile solamente dopo la sua morte.

E sulla base di tutti i suoi elaborati fu possibile realizzare l’opera che sino ad allora si riteneva irrealizzabile.

Nel 1839 fu promosso ispettore generale nel Corpo degli Ingegneri delle Acque e Strade e nella duplice funzione d’Ispettore e di membro del supremo Consiglio d’Arte del Corpo, prese parte in tutte le opere pubbliche di maggior rilievo, risolvendo annose pendenze con imprese e amministratori locali.

Nei motti del 1848, Luigi Giura riveste il ruolo di ministro dei lavori pubblici, per queste, sedata la rivolta da parte dei Borbone, fu arrestato e condannato alla pena capitale, l’intercessione del direttore del corpo di ponti e strade Carlo Afan de Rivera, che si rivolse al re, invitandolo a liberarlo in quanto la sua dipartita avrebbe compromesso totalmente il buon lavoro che tutto il corpo realizzava, Giura venne liberato, il fratello Rosario ebbe modo di esiliare, mentre la pena inflitta all’ingegnere, fu quella che non pote mai ambire alla guida del  leggendario Corpo di Ponti e Strade, pur avendo numeri e meriti.

Rilevante è l’episodio del 1853, quando il progetto della foce dei Regi Lagni in terra di lavoro, pubblicato negli annali della facoltà d’ingegneria, questo spinse i tecnici Francesi a recarsi nella biblioteca nazionale della città partenopea, per consultare quei volumi, alla ricerca della innovazione messe in atto dal Giura; in specie, un sistema di palificate a mare che produceva dei vortici  e consentivano alla foce del canale naturale di non arenarsi. 

Non vi fu luogo del regno, dove non si recò a esaminare strade, ponti, opere di regimentazione, bonifica, porti, non sottraendosi mai a fornire utili consigli finalizzati al buon esito e al compimento delle opere.

E al Giura che si deve la bonifica della zona detta di Fossi a Napoli e la realizzazione del primo piano regolatore, in quella stessa area, da cui partiva la ferrovia Napoli – Portici – Castellammare, oltre a progettare la stazione terminale Stabiese.

Sempre al Giura fu affidato il collaudo della stessa ferrovia Napoli – Portici, che pur essendo stata completata da tempo no si riusciva a trovare un tecnico capace di certificare che tutto fosse stato realizzato secondo i canoni progettuali, incarico che assunse e portò a buon fine in breve tempo.

A lui si deve l’opera dello zuccherificio di Sarno, interamente meccanizzato a trazione idrica, oggi ancora si conserva il condotto che muoveva la grande ruota a pale e una parte degli alberi che garantivano il movimenti dei macchinari.

La notorietà di Giura non va solo annoverata nelle sua figura di uomo di scienza, ma soprattutto come precisava Paolo Emilio Imbriani: uomo di Scienza Onesta, tal proposito va sottolineata l’amicizia che lo legava a Giacomo Leopardi a cui fu persona di riferimento.

Luigi Giura conobbe il Leopardi, la notte che  arrivò a Napoli accompagnato dal suo fedele amico Ranieri, ad ospitarli quella notte e per alcuni giorni non fu il genitore del Ranieri, che non li fece neanche entrare, lamentando al figlio sull’uscio della porta di casa, di quale anima nera che voleva portare in casa, fu Giura ad accoglierli e ospitarli sino a quando non trovo sistemazione nei quartieri Spagnoli durante il primo periodo di permanenza.

Da quella sera Luigi Giura, appellato persino in un famoso film come “il greco”, fu sempre disponibile a risolvere esigenze di ogni genere, la conferma viene anche dal luogo in cui il Leopardi viene ricordato a Napoli.

La residenza di via del Pero 2, dove il sommo poeta notoriamente viene ricordato con una lapide sula via di Capodimonte  appena dopo il museo, era una proprietà del Giura, quando la cagionevole salute non gli consenti più di salire due rampe di scale, è sempre L.G a interferire verso sua cugina F. Giura, spostando un sua inquilino a piano terra per offrire la possibilità a Leopardi di avere accessibilità agevolata al rientro a casa.

E qui che il poeta il 14 giugno 1837 venne a mancare con medici amici partenopei, che come Luigi Giura nel silenzio e nell’anonimato più assoluto gli furono sinceri amici.

Quando nel 1860, Garibaldi assunse la dittatura delle province meridionali, la capitale partenopea era molto scettica nel sostenere il voto plebiscitario, allo scopo e onde evitare sorprese, che potessero macchiare il valore di quel plebiscito, fu indicato dall’aristocrazia partenopea la figura limpida di Luigi Giura, nominato prima direttore generale dei Ponti e Strade e poi elevato a Ministro dei Lavori Pubblici.

Abituato a vivere con le opere da innalzare. non ritenne idoneo quell’incarico di Ministro che doveva tenere conto di esaminare esclusivamente burocratico, cui lui era più incline, decise di tornare a Napoli.

In seguito con evidenti problemi fisici, oltre all’età preferì ritirarsi a vita privata, non prima di essere insignito del titolo di “Ufficiale del Real Ordine Mauriziano”.

Nella capitale partenopea, tuttavia, rivestì l’incarico di architetto commissario del municipio napoletano, già sostenuto per anni; in verità prima della malattia la scelta di rientrare, aveva un significato molto forte, in quanto si era reso conto nel  periodo vissuto a Torino, che le opere e le risorse del sud migravano in altri luoghi e ogni struttura che lui considerava proprie creature venivano smantellate per migrare altrove.

Una febbre misteriosa nel giro di un mese, nonostante tutte le opportune cure mediche di allora, Luigi Giura muore, all’età di sessantanove anni.

Fu tumulato nel Cimitero Monumentale di Napoli con una solenne funzione seguita da tutta la Napoli culturale, durante la quale, dopo numerosi discorsi, furono apposte le steli realizzate dalla provincia di Potenza, in suo ricordo e di suo fratello Rosario morto esule a Nizza, ma questa è un’altra storia di eccellenza arbëreshë.

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”  (discorso - XIX° - Approssimazione per Saggezza).

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – XIX° – Approssimazione per Saggezza).

Posted on 24 settembre 2019 by admin

discorso - XIX° - Approssimazione per SaggezzaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  La frase Carmina non dant panem, tradotta letteralmente, significa “le poesie non danno pane”, identico concetto viene espresso con l’enunciato: Litterae non dant panem (“le lettere non danno pane”).

Entrambe, evidenziano la difficoltà di trovare spazio economico per quanti si dedicano a professioni artistiche o, in senso più ampio, intellettuale secondo un progetto.

I due enunciati avvantaggiano quanti privi di formazione, escludendo chi invece lo sono, sin anche dai trappèsi delle mense arcivescovili che dovrebbero accogliere tutti.

La premessa vuole evidenziare la metrica di poesie e lettere, per intercettate le fondamenta che hanno consentito di addentrarsi nella ricerca, della storia del costruito arbëreshë, senza margine di errore.

Con il discorso si vuole porre l’accento sulla semina con cui è stata studiata la minoranza arbëreshë, scientemente ignorando il GENIUS LOCI, nonostante, la storia sin dai tempi dei romani, con Servio, ricordava che “ nessun luogo è senza un genio ” (nullus locus sine genio).

Tutto ciò è avvenuto senza riguardi, lasciando al libero arbitrio oratori /cultori per una volontà politica che ancora al giorno d’oggi non ha preso consapevolezza di quanto sia stato disperso.

Lo stato di fatto ha visto impoverire di giorno in giorno la platea, allevata spregiudicatamente, senza formazione, riferendo anomale nozioni frammentariamente riportate e prive dei minimali supporti di ricerca d’analisi per una giusta continuità storica.

Il fenomeno ha radici antiche, esse s’insinua tra le infinite pieghe delle piccole rhùga, ignorandone il significato e la mitigazione eolica e solare, che fornisce la linfa per la crescita e il progredire della “Regioe storica Arbëreshë”.

La minoranza, non avendo avuto esigenza di una forma scritta e tutta la storiografia che conta lo conferma, si è sempre sostenuta alla sola forma orale, gli addetti hanno commesso due errori:

il primo realizzare una improbabile forma sciatta;

la seconda ignorare i luoghi vissuti e costruiti, i contenitori fisici da oltre cinque secoli, della consuetudinario avanzare.

Un errore storico realizzato con metodiche a dir poco bizzarre, se si considera il fatto che lo studio è stato allestito affidandosi e avendo come riferimento improbabili allestimenti mono dipartimenti.

In definitiva non si è composta una commissione di studio sulla minoranza, per poi riferire i themi,  come si è proceduto per altri fenomeni culturali e dai quali si poteva trarre vantaggio.

Analizzando come esempi, il modus operandi attuato da A. Olivetti, per la lettura e i comportamenti sociali degli abitanti, che ancora dopo la seconda guerra mondiale in pieno sviluppo economico, viveva regolarmente negli ambiti dell’architettura estrattiva dei Sassi di Matera come qui di seguito elencato;

  • Thema sull’ambiente geografico e geologico;
  • Thema del genio locale;
  • Thema etnologico;
  • Thema demografico;
  • Thema psicologico;
  • Thema economico;
  • Thema della struttura urbana;
  • Thema religioso;
  • Thema sociale;

Solo in seguito e alla luce di questi aspetti di studio radicate nel territorio, si sarebbe dovuto procedere, senza sminuire il valore del noto modello d’integrazione, tra i più solidi, del mediterraneo.

Tuttavia e nonostante ciò, tanti, anzi direi troppi addetti, privi di frammenti di “lettere e poesia” sciupano senza soluzione di continuità il patrimonio “linguistico, la  metrica del canto e la consuetudine” del trittico sociale più solido del vecchio continente.

É inutile abbarbicarsi dietro la favola del rotacismo, secondo cui tutto si modifica e muta nel tempo ogni cosa, perché questo non è vero!!!! La storia si ripete; ragione per la quale, come può trovare conferma, l’enunciato, se sono violati gli ingredienti di luogo, di cose e di elementi?

La storia delle popolazioni Arbanon, mi riferisco a quelle genti che vissero le terre ai tempi dei themati, nelle regioni identificate come: Epirus Nova e Epirus Vetus, un periodo cotanto esteso, che abbraccia una parentesi di oltre 1519 anni e non si possono riassume nelle mere capitolazioni o nella lettura di catasti o di singoli addetti che nella storia hanno saputo esporre rapporti mirati; meri episodi che non sono in grado di fornire alcuna continuità storica all’indagine esplorativa.

Mi riferisco agli Shirò, Peta, Geronimo, Sartori, Redotà e tanti altri che come loro vanno letti interpretati, circoscritti e collocati nell’ambiente secondo temi culturali per i quali vissero e divulgarono episodi locali.

Lo steso Giorgio Kastriota, osannato da arbëreshë e albanesi, come Scanderbeg è un errore storico storico di rilievo se si rievoca l’alias attribuitogli dai turchi, l’unico a rendersi conto fu Giovanni da Fiore nel libro secondo, della Calabria Illustrata, dove lo annota come Giorgio Kastriota, volgarmente denominato Scanderbeg.

Non si può essere esperti della storia solo perché ti capita tra le mani un’apprezzo che altri ti traducono e pubblicano o ti capita per caso una vecchia immagine e credi di sapere di arte sartoriale.

Lo storico è una persona saggia, che sa leggere per discernere le cose buone dalle libere interpretazioni.

Le dissertazioni di favore, hanno origine dalla storia dei romani, che per la loro indole di primeggiare, furono maestri a diffondere notizie false, per lasciare segni indelebili; le note che poi gli storici “ quelli veri” hanno saputo discernere da quelle false, ciò tuttavia, il seme era stato impiantato e da allora sia per volontà, sia per ignoranza, ha germogliato le dissertazioni che oggi leggiamo, e che superano  la verità.

Tracciare un percorso dritto e senza, parallelismi convergenti è difficile, perché non basta recarsi nell’Archivio di Napoli a raccattare documenti o recarvi nelle biblioteche a richiedere fotocopie, queste poi vanno ordinate lette e confrontate, non nel chiuso del proprio sapere, ma con esperti del settore e confrontati con le memorie della storia, ancora vive sul territorio, secondo cui “La saggezza non si riceve in dono da nessuno, bisogna scoprirla da sé dopo un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci, perché è un modo di vedere le cose.”

 

 

P.S.

Se vi recate veramente nel Grande Archivio di Napoli, nella sala di accoglienza posta a piano terra entrando a mano destra in fondo, c’è il manifesto del progetto, il plastico e alcuni elaborati grafici esposti, abbiate la compiacenza di leggere chi sono i progettisti e da oggi in poi, prima di indicarlo come paradiso del sapere siate consapevoli che; le persone comuni gli archivi li frequentano, gli altri, li fanno.

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”  (discorso - III° - Gjitonia: il luogo dei cinque sensi arbëreshë)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – III° – Gjitonia: il luogo dei cinque sensi arbëreshë)

Posted on 17 agosto 2019 by admin

GJITONIANAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’argomento qui di seguito trattato esige una premessa forte definitiva e chiara, per evitare il proliferare di continui e futuri equivoci, utili solo a sminuire l’identità di quanti vivono dal XV secolo la Regione Storica Arbëreshë.

Per questo è opportuno precisare, ripetere, affermare e diffondere che: la Gjitonia non è come il Vicinato; la Gjitonia non è un Quartiere; la Gjitonia non è un Rione; la Gjitonia non ha confini; la Gjitonia non ha nomi di persone luoghi e cose; la Gjitonia non è il vico o la strada (ruhà o hudà); la Gjitonia non è il prestito; la Gjitonia non sono tre, quattro, cinque, sei o addirittura sette porte, che affacciano in una piazzetta o una dritta via!

Gli enunciati, a dir poco banali, in precedenza elencati sono l’indicatore culturale che denota quale attenzione sia stata rivolta dalle istituzioni “tutte”, per l’analisi, la tutela, la valorizzare degli elementi caratteristici materiali e immateriali dei Katundë, in tutto, della regione storica minoritaria.

La matrice dei suddetti postulati catalogabili in: elementari, grotteschi, replicanti e gratuiti, esprime anche la qualità degli strumenti e dei titoli in possesso, adottati per la ricerca; a tal proposito è bene ricordare a questi mittenti che i temi dei modelli sociali del mediterraneo “ del nocciolo duro arbëreshë” hanno, caratteristiche più profonde, diverse e caratterizzanti.

Quando si cerca o si vorrebbe esprimere pareri con argomento Gjitonia è bene precisare cosa rappresenta per gli arbëreshë, quale ruolo ha assunto nel passato, nel presente e come recuperare gli elementi per il futuro sostenibile attingendo dalla linea di antiche prospettive; per tutto questo è opportuno avere piena consapevolezza di dover trattare dei territori attraversati, bonificati, urbanizzati e difesi per essere vissuti dagli arbër.

Molte volte, anzi direi sempre, dagli anni sessanta del secolo scorso a oggi, con la meta rivolto al parallelismo indigeno del modello sociale, sono state innestate una serie di costole anonime e prive di fondamento, da quanti notoriamente vivevano ai margini dei perimetri dei Katundë e secondo i quali: il Gijtonë è preferito al Parente.

A tal proposito e per cancellare ogni ombra di dubbio, anche in questo caso, si commette un errore grossolano, perché sfugge un dato fondamentale, il principio storico su cui si basa il modello Gjitonia Arbëreshë, da considerarsi come il laboratorio di ricerca dell’antico ceppo dinastico.

Il Parente è conferma certa dell’appartenenza, per questo ha priorità su tutto e ogni altro legame; il Gjitonë, rappresenta il laboratorio; è analisi, ricerca dell’antico ceppo parentale, motivo per il quale, quando a casa di una famiglia arbëreshë arriva uno o più parenti, le maglie sociali si restringono a dismisura, la porta di casa, sempre aperta, si chiude e diventa il luogo della famiglia allargata come lo era stato sino al XVI secolo.

Il perimetro casalingo diventa inviolabile, il vociferare ridente sfumava lentamente, la casa diventa l’intimità e il rito delle strategie, materiali e immateriali della famiglia allargata prendevano corpo e anima.

Di sovente e con molta libertà culturale si affianca la Gjitonia al Vicinato riferendo che sono la stessa cosa, questo enunciato come gli altri, nascono tutti perché quanti si sono cimentati nello studiare il tangibile e l’intangibile della regione storica arbëreshë, a ben vedere, riteneva di esaminare le trame urbane e i valori immateriali in essi contenuti senza i minimali requisiti, in base di una lingua antica priva di forma scritta.

Valgano di esempio il gran numero di conversazioni telefoniche fatte al professor Franco F.; tuttavia dopo un medio periodo di dialogo telefonico, il professore, riferì un’affermazione di una anziana signora arbëreshë, la quale definiva la gjitonia dove arriva la vista e la voce, frase pronunciata in arbëreshë naturalmente, e secondo i professore indicava il luogo dove è lunga la vista e arriva la voce, non avendo, il professore, padronanza linguistica che diversamente indicava:  dove germogliano i cinque sensi.

La non conoscenza della lingua e sue inflessioni più intime, ha tratto in errore e collocata la gjitonia tra i modelli generici mediterranei, compendio di sintesi speculari, priva dell’animo arbëreshë, tralasciando i requisiti in senso di latitudini originarie e i conseguenti parallelismi territoriali ritrovati.

Questi dati fondamentali e indispensabili hanno sopra valicato sminuendo la consuetudine degli uomini appiattendo ogni cosa, ritenendo simili le vicende locali che appartengono al genius loci, come ad esempio, l‘architettura estrattiva dei pozzi, i quartieri estrattivi verticali, gli ambiti di elevato indigeno e alti, tutti questi catalogabili secondo valori sociali dissimili, anzi oserei direi addirittura trasversali se non contrari.

Gjitonië è composto di due parole: Gjit che indica le genti o insieme di persone e tonië le vibrazioni, le tonalità prodotte da figure della stessa etnia in armonia dei cinque sensi; solo chi ha capacità linguistica e il senso di appartenenza alla consuetudine riesce a innescare valori materiali e immateriali di quest’unico sentimento.

Le esigenze di mutuo soccorso su cui si basano tutti i modelli mediterranei per la convivenza sono la parte espressamente materiale e non contemplano elementi immateriali specie identitari, che rappresemtano la differenza sostanziale tra la gjitonia e gli altri modelli di unione.

Il vicinato indigeno rappresenta il modello proto industriale, attraverso cui si creavano i presupposti di sostenibilità economica e poi solo in seguito, per consolidare il gruppo, si creavano legami matrimoniali e di commarato.

Gli arbëreshë quando trovarono dimora nelle colline del regno di Napoli arrivarono organizzati in gruppi familiari ben consolidati, il sistema proto industriale era formato da una famiglia allargata di un numero di elementi, maschi e femmine, compresi dalla dozzina alla doppia decina, questo intervallo numerico rappresentava il momento della separazione e della formazione di un nuovo gruppo familiare allargato.

Una volta che i gruppi, familiari allargati arbëreshë, giunsero nei territori come indicato dal Papa e dal Re, s’insediarono ed ebbe inizio l’intervallo del nomadismo per individuare la posizione ideale e mettere a dimora, nelle terre parallele ritrovate, il proprio codice identitario.

Nei pressi di chiese conventi o comunque presidii religiosi, ogni famiglia disegnò, circoscrivendo con elementi naturali, il proprio spazio pertinenziale, innalzando o astraendo la propria dimora.

Quelli erano i segni dei futuri rioni e avrebbero dato luogo alla toponomastica storica denominata Bregu, Kishia, Sheshi e Krojetë, le fondamenta caratterizzanti di tutti i paesi arbëreshë.

Per quanto riguarda la gjitonia perché ambito immateriale della famiglia allargata, va rilevato che i gruppi dalla fine del XV secolo sino ai primi decenni del XVI secolo rimangono coesi e legati al rigidissimo proprio sistema consuetudinario .

Ma le conseguenze della guerra dei baroni e il sistema di affidamento delle terre non consentirono più agli arbëreshë di rimanere solidamente legati a quel modello familiare allargato e cede a modelli più locali realizzando l’edilizia aggregativa in cui la prole vive rimanendo legata al modello allargato, anche se il gruppo familiare va assumendo una connotazione più di tipo urbano.

Questo processo non ha luogo nel breve termine, ma comunque disperde, negli ambiti locali il senso della famiglia allargata, ed è in questa parentesi di tempo che l’antico perimetro delineato all’indomani dell’insediarsi, viene in seguito occupato dalle successive abitazioni dei facente parte l’antico ceppo, avviando così la dispersione delle discendenze ed ecco che la ricerca del ceppo originario e il ricordo di quella perimetrazione di cui si perdono i riferimenti, diventa la gjitonia.

Il bisogno di intercettare la propria piramide dinastica inizia quindi lì dove la famiglia allargata si riunì la prima volta, quanto giunse in terra parallela ritrovata, il fuoco, che oggi trova la sua collocazione più urbana nel camino, assume il ruolo di luogo originario da dove un tempo iniziò lo sfaldamento della famiglia allargata; oggi diviene il laboratorio dove si è consapevoli di poter vivere e ritrovare quelle sensazioni antiche che identicamente si possono riverberare negli spazi senza confini.

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”  (discorso - XIV° - Rispetto)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – XIV° – Rispetto)

Posted on 13 agosto 2019 by admin

RispettoNAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Gli uomini più illustri non sono ritenuti tali perché fratelli, amici, parenti e Gjitoni usano divulgare il loro sapere, giacché, le gesta del loro lume è irradiato come la luce del sole quando segue la notte che vorrebbe negare i domani.

I fatti non cessano di esistere solo perché in troppi li ignorano, piuttosto, sopravvivono nella memoria silenziosa degli studiosi e quanto prima si presentano alla rimozione dell’immaginario collettivo, d’improvviso, chiedendo ragione dell’accaduto e del perché si è scelto di ignorarli.

Tracciare un itinerario coerente con oggetto gli uomini, i luoghi e gli eventi che hanno come protagonisti i minoritari della diaspora, è un’attività laboriosa e richiede esperienze multidisciplinari non comuni, tuttavia, ciò che più duole sono le energie che bisogna impegnare per divulgare le nozioni all’interno dei canali divulgativi locali, le cui giunte sono composte da: ndrikule, famulë e shigniagnërà.

Come oltrepassare questa cortina e stendere alla luce del sole il proprio lavoro, non è semplice, in quanto, occorre avere pazienza e attendere che si alzi il vento e demolisca i castelli di carta.

Gli stessi che da troppo tempo innalzano illustri cattedratici, pensionati e ogni sorta di provetto alchimista, tutti questi dall’alto delle proprie isole ecologiche di riciclaggio, preferiscono sotto false vesti, risalenti al 1955, riproporre come hanno fatto alla vigilia del 1999, enunciati altrui , come quelli della psicoanalista e antropologa, “la vera madre di questa ricerca”  che qui di seguito si riporta il frammento più saliente.

Vicinato: Nella complessa strutturazione urbanistica è quasi sempre  ben  delineato  nei  suoi  confini topografici, comprendendo il gruppo di case disposte intorno ad una piazzetta o cortile nel quale si svolge quasi in comune gran parte della vita dei bimbi, delle donne e,  in misura minore, degli uomini. Gli abitanti di queste case sono legati a un’infinità di piccole regole di vita comune, si aiutano a vicenda, si controllano, sanno tutto di ciascuno degli altri ed hanno in genere rapporti molto familiari e di carattere diverso da quelli che esistono tra famiglie amiche o legate da vincoli di comparaggio, parentela.”

A ben vedere tornano familiari i sostantivi, porta, affaccio, piazzetta, cortile, parentado, vicino e così via dicendo, eppure la dottoressa nel 1955 parlava di altre realtà culturali e quello che più conta non ha mai scritto, accennato e trattato gli arbëreshë in questo suo lavoro di ricerca.

Tuttavia, come per incanto, se alla parola Vicinato, nel frammento su riportato, cosi come nell’intero trattato, si sostituisce la parola Gjitonia il gioco è fatto e il discorso diventa argomento per gli arbëreshë, facile da pubblicare e diffondere ai quattro venti della loro “Nazione Arbëria”.

Lo stesso principio si può adoperare con le gesta dell’Eroe Nazionale Albanese, importato in regione storica, riverito e innalzato agli onori della storia con il volgare appellativo imposto dai turchi e sotto le armature  del Pascià  a quei tempi, toglieva le vite ai cristiani e quindi anche agli arbëreshë.

La storia, quando la si racconta deve seguire identicamente lo svolgersi degli avvenimenti, con dovizia di particolari, secondo l’ordine originario, avendo cura di leggerla senza interpretazioni a uso e consumo dei tempi che corrono o le preferenze locali.

Non si può realizzare frammenti di storia, tanto meno basta recarsi in pellegrinaggio dal “cappellaio matto” e ramazzare documenti, per ritenersi storici al fianco di mugnai e banditori.

Motivo per il quale è bene sottolineare alcune nozioni fondamentali; a nove anni Giorgio Kastriota, fu sottratto per ricatto all’affetto dei suoi genitori, i quali per non soccombere assieme alla popolazione rintanatasi nella fortezza, preferirono cedere per ricatto la discendenza ereditaria maschile, dei quali Giorgio era il più giovane, anche se all’età di soli nove anni aveva un fisico possente e secondo gli osservatori dell’epoca ne dimostrava almeno venti.

Alla morte del padre, nel 1443, per una serie di vigliacche sciagure indotte, dal pascià, tipiche dei turchi, i tre fratelli più adulti perirono, lasciando la discendenza, a Giorgio; quest’ultimo anche se per soli nove anni era cresciuto secondo le rigide regole del Kanun, non  facendosi mai  soggiogare, iniziò così come sancito in quel codice che i turchi ignoravano, perché ancora non scritto, la strada per onorare la sua famiglia. 

Altro dato interessante che viene  diffusamente ignorato dagli storici, sono le vicende guerresche che accomunano Giorgio Castriota a Vlad III di Valacchia, più noto come “Conte Dracula”, anche quest’ultimo subì le stesse angherie e appena libero divenne un acerrimo nemico dei turchi.

I due condottieri erano legati dai patti di mutuo soccorso familiare dell’ordine del Drago, vero è che Vlad III, in punto di morte affido la di lui figlia alle cure della moglie di Giorgio Castriota che viveva a Napoli, questa per onorare quel patto, fece da madre alla piccola sino all’età di maritarsi.

La scuola Sofiota l’unica ad aver avuto coerenza degli eventi storici, per tutta la regione storica diffusa, ha seminato semi di rara bellezza segnando, diversamente dai cultori delle sintesi, il periodo arbëreshë del valoroso condottiero con “Via Castriota” e nessun aggiunta volgare di estrazione turca.

Purtroppo, l’allontanamento dalle attività a stretto contatto con la terra, seguendo una illusoria meteora di benessere sociale, ha fatto si che il mestiere di contadino, sia stato accantonato, motivo per il quale, oggi distinguere quali siano i semi originari da quelli geneticamente modificati è un’arte molto difficile a cui solo un numero ristretto di addetti sanno dare risposte certe.

Tutto non è perduto, giacché il buon senso non ha smesso di scorrere nel corpo e nelle menti de “figli buoni arbëreshë” e quanto prima potremmo vedere nei campi diffusi della regione storica, i prodotti dell’antico consuetudinario, che non è avena Albanese, proposta da giullari, economisti e trebbiatrici con le rotelle sgranate, ostinandosi, dal lontano 68 del secolo scorso, a far germogliare in grano. 

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“LA SALITA DELLA SAPIENZA”  ( discorso VIII° - triade mediterranea vite, cereali e ulivo)

“LA SALITA DELLA SAPIENZA” ( discorso VIII° – triade mediterranea vite, cereali e ulivo)

Posted on 05 agosto 2019 by admin

Vino olio e legumiNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – I gruppi familiari allargati che rivitalizzarono i casali abbandonati del regno di Napoli prima durante e dopo la morte di Giorgio Castriota, avviarono la stagione degli insediamenti diffusi arbëreshë, con l’intento di assicurarsi tre fattori fondamentali: l’acqua, la sicurezza e la viabilità territoriale in armonia con la triade mediterranea.

Scelto il sito, condizionato dalla vicinanza dell’acqua (torrenti o sorgenti), si alzavano steccati per circoscrivere, l’area pertinenziale occupata dal gruppo familiare da quella di comini intenti limitrofi, iniziava cosi quel segno che avrebbe unito per sempre il territorio tipico degli arbëreshë.

L’armonia di comini intenti fra i gruppi familiari del sistema urbano diffuso, era assimilata così a quella esistente in natura fra il tutto e le sue singole parti.

In virtù di una tale corrispondenza gli arbëreshë erano portati a sentirsi organicamente inserito negli ambiti ritrovati, riconoscendosi attraverso i dettami territoriali simili a quella di origine.

Ognuno partecipa alla vita collettiva e nel consolidare il bene di ogni gruppo, poi amplificato a quelli attigui della stessa radice culturale, con la quale discute, crea attriti interni e ricomporsi fedelmente quando la propria identità era messa in discussione o in pericolo.

I Katundë in origine organizzato in piccole comunità autosufficienti, una sorta di stato indipendente, l’uno dall’altro, esso nasceva circoscrivendo porzioni di territorio allocati nei pressi di una chiesa o un presidio religioso, disponendo sistematicamente i gruppi secondo la conformazione orografica del territorio identificando i vari rioni in Kisha, Bregù, Shëshi e Shëpia.

Dopo essersi assicurato un rifugio dove vivere e dormire era indispensabile realizzare, in loco, i presupposti per il sostentamento, nonostante l’impervia orografia prevalentemente allocate all’interno di macroaree collinari, non rendeva semplice l’impresa.

La realtà cittadina si organizzava attraverso il raggruppamento di diverse unità minori, i villaggi (Katundi) che non avevano un solo centro decisionale giacché, l’autonomia di più famiglie, mirava più a un sistema policentrico.

L’assemblea cittadina, formata dalle persone più carismatiche di ogni gruppo familiare allargato, le cui decisioni partivano dal focolare del gruppo familiare e miravano all’armonia del mutuo soccorso tra i gruppi.

Oltre al centro di residenza, esistevano i territori (Haretë), la campagna, dove risiedeva periodicamente una parte rilevante della popolazione.

Trova per questo una sua validità, il termine “Kushëth”, che includere Katundë, (il paese, villaggio o casale), e il territorio, consolidando il solido rapporto tra nucleo urbano e campagna.

Dal tempo delle prime migrazioni e poi sempre in modo più pregnate, vide svilupparsi una massiccia espansione dell’agricoltura a danno dell’allevamento attraverso la realizzazione di bonifiche, liberando porzioni di terreno, dalle acque stagnate, disboscando e mettendo a coltura consistenti appezzamenti collinari, scelti preventivamente a debita distanza da quelle di pianura penalizzate dalla malaria.

I territori messi a cultura erano utilizzati in modo stabile e intensivo per lo più da contadini, con una metodologia di lavoro caparbia ma intelligente, attraverso l’utilizzo di attrezzature, integrando l’allevamento di bovini e caprini per migliorare l’efficienza produttiva dei terreni posti a coltura.

I gruppi familiari allargati erano in grado di mantenersi attraverso il consumo diretto e lo scambio dei beni prodotti, accumulando sin anche risparmi.

Haretë non erano tutte uguale, infatti, quelle prevalentemente pianeggianti o adagiate su crinali distesi erano ritenute di qualità superiore a quelle collinari più impervie; tuttavia la terra era sfruttata in modo razionale attraverso l’integrazione della “triade mediterranea” (cereali, ulivo, vite) con altre colture leguminose, allo scopo di contrastare le crisi legate al clima.

Il modello mediterraneo “cereali, ulivo e vite” rappresenta una risorsa da cui non si poteva prescindere e serviva a produrre da un lato e nello stesso momento a rinvigorire i terreni, una sorta di moto perpetuo naturale, in cui l’uomo con la sua azione consentiva alla terra di attivare quei processi naturali e garantire per secoli il parallelismo di convivenza tra uomo e natura sostenibile.

 

 

 

(Bilë e Arbëreshëvet!! gjiegjëni me veshët tuej e diovasni letir, veth këstù zeni kushë Jini;

mos jiejni the chiarturat e qenvet, cë vran Jergjin, se janë skip!)

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”   (discorso - V° - Inculturazione)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – V° – Inculturazione)

Posted on 04 agosto 2019 by admin

 

 UN VOTO ANTICO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIONAPOLI (di Atanasio Pizzi) – IL termine Inculturazione nell’antropologia culturale, tratta i processi di trasmissione della tradizione fra generazioni.

Il termine rileva i processi del passaggio della cultura da una generazione all’altra, concentrandosi sugli aspetti di socializzazione dell’individuo, attraverso l’apprendimento della lingua, l’educazione in ambito familiare, mitizzando le figure degli adulti e le regole di comportamento in ambito educativo.

L’insieme si completa con le competizioni tra quartiere, la partecipazione ai giochi, le danze tipiche, i canti, le cerimonie, oltre a memorizzare i racconti degli anziani, associati a gruppi di età, queste ultime poi rappresentano la matrice che in alcuni casi è legata associazioni occulte, di culto e iniziazione.

Alcune categorie di persone ricevono un’educazione particolare, finalizzato al ruolo poi assunto all’interno del gruppo sociale, come ad esempio gli operatori religiosi (preti, guaritori, magarë, stregoni), gli agricoltori, gli artigiani, gli artisti, tutti rispettosi dei riti e consuetudini del tramandato storico.

Questo in linea generale è anche il modus operandi seguito dalla popolazione della regione storica arbëreshë e in ognuna delle sedici macroaree di cui si compone, nonostante il disciplinare adottato non contempla alcuna forma scritta.

Alla luce di ciò sino a quando i processi scritto grafici, sono stati materialmente dedicati a cerchie di ricercatori fuori lo spazio ideale denominato Gjitonia, gli elementi linguistici, sociali, metrici e religiosi che regolavano lo scorrere d’inverni e primavere arbëreshë si sono articolate secondo processi sostenibili e in grado di mantenere unito il percorso identitario.

Quando nel corso del secolo appena trascorso, con l’accorciarsi delle distanze, l’economia in ascesa, la totale assenza nei programmi di alfabetizzazione per gli alloglotti, le reti sociali in continua evoluzione, la legge 482/99, in cui sfugge la differenza storica tra lingua Albanese tutelata e Arbëreshë discriminata, hanno minato pesantemente il disciplinare tramandato oralmente.

Questi sono solo gli elementi più evidenti a non è stata posta particolare attenzione, prevedendo che quanto prima avrebbero intaccato la sostenibilità dei passaggi di consegne identitarie tra generazioni all’interno della regione storica.

Causa fondamenta della perdita di sostenibilità culturale e identitaria è stata la mancanza di progetti specifici, atti a valorizzare all’interno della regione storica il patrimonio materiale ed immateriale evitando di demandare i principi di crescita delle nuove generazioni alla sola alfabetizzazione, sorvolando sui temi dell’antico ceppo.

Se negli anni sessanta del secolo scorso lo scorrere della vita, nelle macroarre etniche di estrazione arbëreshë, manteneva livelli d’inculturazione sostenibile, dal punto di vista linguistico, ambientale, architettonico sociale sia laico sia clericale, negli anni settanta ha inizio la deriva degenerativa che non ha mai cambiato rotta.

Il fenomeno ha prodotto una serie di manifestazioni senza alcuna formazione storico culturale faccendo apparire gli ambiti di minoranza esclusiva residenza di costumi, canti e parlate “altre”, allontanando i principi dall’ Inculturazione fra generazioni.

Oggi ai vertici della valorizzazione, tutela e divulgazione culturale non siedono le eccellenze come la tradizione indicava, ma soggetti attuatori senza identità e tanto meno parlanti l’antico idioma arbëreshë.

Queste figure “altre” divulgano appuntamenti attraverso appellativi fuori da ogni ragionevole diplomatica del vivere all’interno dei katundë di estrazione arbër.

Tuttavia ciò che penalizza e appiattisce uniformando a modelli globalizzati il senso della regione storica sono le numerosissime attività di promozione che da primavera e nel corso di tutto l’anno, innalzano vessilli territoriali mai appartenute a nessuna delle sedici macro aree.

Se immaginiamo che tutto ciò che è stato sapientemente difeso e valorizzato dai tempi dei regnanti partenopei sino al 1806, il salto degenerativo perpetrato sino giungere alle vicende odierne, per quanti della minoranza analizzano, studiano e appuntano con dovizia di particolari ogni frammento della storia;  diventato un pena indescrivibile  la continua perdita di valori e a nulla valgono le grida di dolore, che anche se fossero mute, almeno chi vive di riti bizantini dovrebbe avere gli strumenti divini per ascoltare e curare.

A tal fine volendo accennare solo le più famose manchevolezze senza scendere nei particolari, valgano di esempio queste note interrogative: Sagre di prodotti tipico(?), Gjitonia e vicinato(?), abusi edilizi per abitazioni storiche(?), Scanderbeg l’eroe Arbëreshe(???????), Valje e balli tondi della liberazione(?), quartieri / Gjitonie(?), caricature filmiche(?), abbellimento dei centri antichi(????), biblioteca delle riviste(?), musei del costume(?), la vestizione nuziale con le grazie al vento(?), l’eliminazione dei comitati di festa (?), questi accennati esempi si possono configurare come una grande frana indotta per aver estirpato troppe radici storiche, architettoniche, sociale, urbanistiche, psicologiche, geologiche, artistiche, antropologiche e cosi via discorrendo, ma comunque e nonostante tutto pur avendo consapevolezza di cosa potrebbe avvenire, non si innalza alcun presidio idoneo a rallentare l’inevitabile.

L’immaginario che ogni buon arbëreshë si auspica, è volto al ricambio generazionale composto da figure in grado di impedire che ruoli dipartimentali, istituzionali e per la promozione del territorio, siano posto nelle disponibilità di quanti sanno come fermare questa marea economica/culturale legalizzata; allontanando dai canali divulgativi e della valorizzazione ogni sorta di litirë privo di elementari titoli  di formazione locale, che in troppi casi casi millanta di conoscere storia, lingua, metrica canora, le diplomatiche della vestizione e ogni sorta di attività del consuetudinario storico delle sedici macro aree.

Allo stato urge fermare energicamente le dilaganti nozioni serrate, senza luogo, senza tempo e senza patria, appellare “Arberia” una “Regione storica” è sbagliato!!! in quanto il sostantivo è sinonimo di nazione e nessuno ha mai riconosciuto e mai avrà modo di prendere corpo, perché noi arbëreshë siamo Minoranza storica Italiana e basta.

In questi giorni recandomi nei luoghi natii ho rinvenuto dei semi di buon auspicio, alcuni chicchi di grano, conservati in un cassetto e che i miei genitori, in vita, non hanno avuto modo di utilizzare, per questo m’impegno a loro memoria di farli germogliare, sperando che diano un numero considerevole di semi in grado di emanare gli antichi sapore della tavola familiare, la stessa di tante famiglie e rappresenti l’inizio di una nuova stagione di solidi valori arbëreshë.

 

 

(Bilë e Arbëreshëvet!! gjiegjëni me veshët tuej e diovasni letir, veth këstù zeni kushë Jini;

mos jiejni the chiarturat e qenvet, cë vran Jergjin, se janë skip!)

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”   (discorso - IV° - Migrazioni)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – IV° – Migrazioni)

Posted on 31 luglio 2019 by admin

MigrazioniNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – I territori di Serbia, Kosovo, Macedonia, Albania, Epiro e Peloponneso, dell’attuale geografia politica sono stati lo scenario di rivalità tra  mussulmani e cristiani, determinando l’episodio migratorio più rilevante, dalla fine del XIII sino a tutto il XVI secolo, verso le terre parallele dell’Italia.

L’esodo per gli abitanti delle terre su citate (gli arbëreshë) è stata l’unica possibilità per tutelare la propria identità e contiene caratteristiche uniche, per tanto, bisogna porre molta attenzione nell’unificarla come movimento di masse verso terre da invadere o  mero evento per sopraffare culture a discapito di altre.

Sono numerose le migrazioni che segnano la storia del mediterraneo, solo una di queste interessa e coinvolge i parlanti arbëreshë ancora viva e perfettamente integrata, mentre le alte sono sfumate lasciando solo episodiche tracce, giacché, nate con l’intento di proporre o imporre nuovi modelli.

Se le dispute economiche e sociali sono state la principale causa ad innescare i processi di migrazione, nel caso degli arbëreshë furono ragioni in ordine: Etnico, Consuetudinario, Religioso e Sociale, a conferma di ciò valgano le statistiche storiche secondo le quali, l’Italia sin dai tempi dei greci veniva ambita non per essere conquistata e distrutta, ma per essere vissuta.

Sin anche i popoli descritti come barbari, dalla storiografia occidentale, invadevano le regioni dello stivale mediterraneo, perché climaticamente e territorialmente consentivano di realizzare strutture del tutto diverse dai sistemi organizzativi sociali e dei valori etici, oltre che religiosi, su cui le etnie in movimento, si reggevano nelle terre d’origine.

Popoli quali i Longobardi, i Goti, i Franchi, i Normanni, venutisi a stabilire in area latina, pur giungendovi con la forza delle armi, queste genti di ceppo e lingua ger­manici si assimilarono nel giro di poche generazioni alla popolazione maggioritaria circostante, questo è successo anche per gli arbëreshë che pur senza la forza delle armi durante il XIII secolo sgiunsero lungo le coste dell’anconetano a Jesi Recanati e in quelle terra dove oggi sono note per i vitigni posti a dimora dagli operosi arbëreshë.

In queste storiche terre del vino gli arbër prima furono diseredati, ritenendoli facinorosi portatori di malattie e per questo costretti persino a soggiornare a debita distanza dalle murazioni, poi riconosciute le capacità per dissodare realizzare attrezzi e mettere a dimora la terna mediterranea, s’integrarono senza lasciare alcuna traccia, ma queste sono altre storie.

Diversamente è stato per gli Arbëreshë, costretti a varcare l’Adriatico o il mare Ionio alla ricerca di una terra parallela dove non fosse minacciata la cristianità, quindi all’interno di un sistema territoriale definito “parallelo” rispettando e  mai superando le antiche arché grecaniche, riuscendo nel breve termine a produrre livelli d’inclusione con i popoli indigeni, preservando lingua, istituzioni e abitudini sociali.

Sono largamente riportate nella storiografia del mediterraneo, particolari a dir poco sintetici o addirittura elementari, quando sono trattate le numerate, numerose e allegoriche ondate migratorie, attraverso le quali agli arbër, è stata fornita la possibilità per cercare il parallelo più idoneo a impiantare la storica radice.

Essi in maniera a dir poco sintetica, sono individuati ora come drappelli accompagnati dai loro familiari e preti, ora con bauli colmi di suppellettili ori e costumi, ora come gente nuda sulle rive dello jonio  aspettando il consenso o l’interesse delle autorità della nuova terra parallela come: i d’Angiò prima, gli Aragona con re Alfonso I di Napoli e Ferdinando II, in seguito, poi rispettivamente dagli imperatori Carlo V e Filippo II, da Carlo III di Borbone, sino a Ferdinando I, oltre Papi, Re e Dogi veneziani.

Nessuno si è mai preoccupato di approfondire l’argomento e sottolineare che gli arbëreshë non erano preferiti  a caso o perché in  fuga, ma esclusivamente quali discendenti  diretti dei soldati contadino (stradioti).

Questo dato non trascurabile li rendeva indispensabili attori, per sedare con la loro presenza gli attriti economici, politici e sociali nelle epoche che videro protagonisti i regnanti, i cortigiani su citati, compresi i loro sottoposti.  

Tuttavia anche se il costante flusso di arbëreshë, il conseguente inserimento senza non poche difficoltà nella società di adozione, si svolgesse in forma legittima e giuridica­mente protetta, spesso sfugge agli storici osservatori, l’interesse che i regnanti aveva nel prediligerli rispetto agli indigeni, una disputa che si protrasse dalla fine del XV sino a tutto il XVI secolo, quando vennero presi i dovuti provvedimenti del caso.

Per comprendere cosa abbia innescato e prodotto il modello integrativo Arbëreshë, si potrebbe vagare all’infinito nelle diplomatiche della storia, tuttavia per tracciare anche in questo caso un’arché di riferimento si può, a ben vedere, risalire alla battaglia di Campo dei Merli, (Kosovo 1389) cui parteciparono gli Arbër attivamente; questo evento di giugno, segnò il dominio turco nei Balcani, ma anche l’inizio di una strenua difesa delle genti Arbër, terminata  dopo le dette migrazioni prima della fine della pressione con sconfitta degli ottomani a seguito della battaglia di Lepanto, nel 1571.

Le conseguenti repressioni della battaglia del 1389 diedero seguito al primo stanziamento di profughi albanesi in Italia meridionale attestata su una lapide nella chiesa di S. Caterina a Enna, dove è ricordato un Giacomo Matranga comandante arbër.

Analoghe ragioni indussero Alfonso d’Aragona re di Napoli, in lotta con Renato d’Angiò, a far passare in Italia Demetrio Reres e i figli Giorgio e Basilio e farli poi stabilire in Sicilia.

A questi episodi vanno aggiunte le vicende che videro protagonista Giorgio Castriota, figlio di Giovanni, in Italia, iniziate nell’agosto del 1460 e durarono circa due anni, anche se altri due viaggi a Napoli e a Roma nel 1464 e nel 1466, ebbero luogo.

La permanenza di Giorgio Castriota nelle terre del regno di Napoli consentì di delineate le linee dell’infinito arbëreshë, in altre parole, “le Arché” linee strategiche secondo le quali dovevano essere predisposti i Katundi delle genti arbëreshë.

Un dato non preso in considerazione dagli storici, non essendo protagonista una figura maschile, passata per lungo tempo poco analizzata, tratta della sottovalutata invasione o accoglienza, dirsi voglia, comunque pacifica, che si è articolata durante la permanenza della moglie, del defunto Giorgio Castriota, Marina Donica Arianiti, che dal 1468 al 1505 visse a Napoli, con il figlio Giovanni, la figlia Vojsava e la giovane figlia di Vlad II°, prima nel castello Angioino e poi in via  Santa Chiara, ospite dei regnati Napoletani.

È in questo periodo che non potendo più fare affidamento della figura del valoroso condottiero arbëreshë è consentito a molti gruppi familiari allargati, di insediarsi lungo le “archè” predisposte ai tempi della battaglia di “Terra strutta” dal valoroso condottiero, prima della sua morte.

È così che nasce la Regione storica Arbëreshë e se da un lato creava attriti con gli indigeni, dall’altro confermavano una presenza numerica non indifferente, con il fine di confermare una regione parallela, la stessa temuta dagli ottomani, specie se realizzata in tutte le caratteristiche identitarie.

Alle popolazioni della regione storica dopo la caduta di Corone, molti degli Arbëreshë e Greci, che si erano rivelati i più convinti ausiliari dell’ammiraglio della flotta cristiana Andrea Doria, ottennero dal Viceré di Napoli il permesso di lasciare su molti navigli la città riconquistata dagli Ottomani, dove la incolumità loro e delle loro famiglie venne assicurata con il trasferirsi a Napoli.

Un numero considerevole di profughi, in numero di circa ottomila, di questi poco meno di tremila preferirono trasferirsi in Sicilia in Calabria e in Basilicata, in tutto, lascati alla libera circolazione per trovare la migliore sistemazione all’interno della regione storica.

Dopo la fase dell’insediamento e definiti i contorni e le macro aree della regione storica, inizia la fase di crescita sociale e culturale, la sua esplorazione si è rivelata molto carente ogni volta che è stata utilizzata la mera visione puntuale, senza mai avere uno sguardo all’insieme regione.

Le opere condotte a vario titolo sono solo episodi che devono essere ricuciti: Rodotà, La Mantia, Schirò, Sciambra, Coco, Zangari, le dispute campanilistiche e immobiliari del collegio Corsini, le priorità culturali, garantite dalle simpatie territoriali, sono da considerare, come i filamenti di una tela scippata e vanno ricomposti con sapienza e garbo, onde evitare di sortire alle disquisizioni che hanno relegato la regione storica e i suoi uomini a non essere contemplata in nessun ambito culturale che conta e fa la storia.

Alla regione storica diffusa arbëreshë è tempo che le sia data “una storia” unica  e secondo i fatti, non per racconti;  valorizzare alcuni aspetti a discapito di altri non è più concepibile,  è ora di smettere nel considerare valorosi figure di secondo piano rispetto a quanti hanno dato se stessi, la  vita per il valore del loro lume, in favore di tutti gli arbëreshë, lasciamo al tempo di valutare pi quanti ostinatamente si cimentano a scrivere una lingua ereditata crescendo e vivendo in arbëreshë.

Le migrazioni non devono essere intese come un mero evento, per  datarlo e numerarlo, giacché,  rappresentano un insieme di cause cui è legato un solo ed unico effetto, sta alle persone di cultura comparare i due elementi e dare merito a quanti posti nelle difficoltà, cosa e come abbiano fatto a discernere la mano giusta da quella sbagliata, per emergere con dignità dal buio innescato da quanti miravano ai propri valori e non ad altro, anche se in prima fila tendevano la mano ai poveri emigranti ancora in acqua.

(bilë e Arbëreshëvet diovasni letir se zeni kushë Jini; mos jiejni the chiarturat e qenvet, se janë skip!)

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IL QUADRILATERO DELLA CULTURA STORICA ARBËRESHË (Napoli, Santa Sofia, Barile e Maschito)

IL QUADRILATERO DELLA CULTURA STORICA ARBËRESHË (Napoli, Santa Sofia, Barile e Maschito)

Posted on 21 luglio 2019 by admin

legge 482Napoli (di Atanasio Pizzi) –  Dalla metà del XVIII secolo tra Napoli e due macroaree arbëreshë, rispettivamente, in Calabria citeriore e nel volture, si crea un legame culturale tra i più consolidati, rispetto alle altre macroaree di simili radici; da allora senza soluzione di continuità rimangono solidamente unite dalla storia la capitale e tre piccoli centri arbëreshë, fornendo ingredienti di solidità intellettuale, il cui lustro trova le sue radici nel codice consuetudinario della regione storica:

Appare chiaro, che il primo degli assi culturali è il più solido, anche se gli altri non lo saranno da meno in quanto rappresentano la continuità culturale di una tela rafinatissima, che a tutt’oggi, per solidità non si consuma, essendo stata intrecciata dai telai delle Rrughe e le Gjitonie dei Katundë arbëreshë, per poi essere rifinita tra i Cardini e i Decumani della polis partenopea.

Un tessuto non stretta e lunga come una corda, ma larga e solida a modo di tela, per contenere e proteggere tutto ciò che niente e nessuno è riuscito a deteriorare per la genuinità del manufatto di tutela.

Questo racconto vuole allocare nelle giuste icone gli uomini, che per caratteristiche innate, rappresentano il genio locale, il germoglio di un’identità antica importato dalle colline dei Balcani e innestata nel meridione italiano.

Era il 10 maggio del 1734 don Carlo di Borbone, diciottenne duca di Parma e Piacenza, comandante in capo dell’armata spagnola in Italia, entra a Napoli scortato dai soldati che nei giorni precedenti avevano costretto alla resa le guarnigioni austriache asserragliate a Castel Nuovo, Castel dell’Ovo e Castel Sant’Elmo.

Il re come i potenti di quell’epoca, preferì avere oltre al classico esercito, una guardia personale composta da fedelissimi e il 15 ottobre 1737 il Vignola inviava al Senato una nota dalle terre balcaniche nella quale confermava di aver selezionato i soldati fidi alla corte di Napoli, appellandoli: battaglione Real Macedone; di questo esercito di fidati venne scelto quale  cappellano militare, il reverendo Bugliari Giuseppe, per seguire spiritualmente i soldati sia di estrazione Grecofona e sia Arbanofona.

Il reverendo originario di  Santa Sofia, un piccolo casale di origine albanese in provincia di Calabria citeriore, venne scelto sia per le capacita di esprimersi in arbereshe e in greco e sia per l’estraneità allo scenario politico della capitale partenopea.

Iniziava da questa scelta un brillante periodo culturale e scientifico, il quale, senza soluzione di continuità si articola sino al XX secolo, con figura emblematiche di alto valore, fondamentali nella scuola delle eccellenze arbëreshë, e dopo il Bugliari divenne fondamentale  Vincenzo Torelli, da Barile, paese  del Vulture in provincia di Potenza, di identica estrazione identitaria.

Il Bugliari ed il Torelli rappresentano due pietre miliari della storia culturale arbëreshë, essi aprirono la strada  a illustri come il Prof. Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Avv. Angelo Masci(?), Giorgio Ferriolo, Avv. Pasquale Scura, Avv. Vincenzo Torelli, Arch. Luigi Giura, Avv. Rosario Giura, Mons. Giuseppe Bugliari e a tante altre figure di secondo piano, di cagionevole cultura, prevalentemente scrittori in erba, le cui gesta(?) si possono misurare nei circa quaranta alfabeti, ora latini, ora greci, ora irriconoscibili e comunque tutti in onore o riverenza del papa che tirava(!!!!).

La storia letteraria, editoriale e scientifica degli arbëreshë, in questo secolo e mezzo, raggiunge l’apice nei salotti di tutta europea, mettendo in luce qualità innate che ancora oggi sono assegnati i meriti ai regnanti Borbone e per questo coperte da un alone di diffidenza; di contro gli stati generali e i dipartimenti della Regione Storica Arbëreshë, invece di adoperarsi e richiedere i titoli e pretendere, la paternità di tali eccellenze, si diletta a manifestazioni e racconti di poco conto e ostinarsi a realizzare sagre, esposizioni a ritmo di ballate e cantate in costumi tipici sostenute inconsapevolmente dal trittico mediterraneo .

Da alcuni decenni e negli ultimi anni, in modo più incisivo, si è ritenuto opportuno relegare la storia degli antichi Arbanon, il più antico governa rato dei Balcani, a vicende linguistiche dell’Albania moderna oltre a matrici clericali di dubbia radice.

Pur se consapevoli che non vi sia alcuna attinenza con quanti realizzarono nella regione storica, preferendo difendere il proprio codice identitario nel XIV secolo, con quanti inchinarono la testa e offrire la propria identità storica e la propria terra agli ottomani, dalla terra albanese partono frotte di avventurieri in cerca di gloria.

Noi che viviamo la Regione storica Arbëreshë, i discendenti del Prof. Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Avv. Angelo Masci(?), Giorgio Ferriolo, Avv. Pasquale Scura, Avv. Vincenzo Torelli, Arch. Luigi Giura, Avv. Rosario Giura, Mons. Giuseppe Bugliari, non abbiamo bisogno di altri disturbatori storici oltre alle figure “secondarie” nate qui a casa nostra di cagionevole morale, essi sono prevalentemente scrittori in erba, le cui valorose gesta si possono misurare nella vulnerabilità dei loro oltre quaranta alfabetari, ora latini, ora greci e comunque in funzione del papa che tirava.

Non abbiamo bisogno di “presidenze di potere”, “ambasciatari inconsapevoli”, “adetti culturali senza cultura”, giornalisti stravaganti e ogni genere di figura capace di cambiare titolo e colore, secondo il tempo che fa, ne tanto meno quanti irresponsabilmente mirano alle nuove generazioni le più tenere e quindi facili da modellare, queste ultime in particolar modo inconsapevoli del nostro valore identitario, vengono nelle nostre latitudini a sporcare quanto difeso con sudore e devozione.

Non abbiamo bisogno che dalla terra madre, o da altri lidi, vengano in regione storica a minare quanto di irripetibile eravamo, siamo e non smetteremo mai di essere; noi arbëreshë le scelte più dure da supportare le abbiamo portate a buon fine, in sei secoli,  portate avanti con spirito caparbio attraverso il quale siamo identificati come  modello di integrazione, per tutto ciò, non abbiamo bisogni di oratori estranei,  per renderlo noto secondo la metrica della terra d’origine.

Questa è la regione storica libera, non poniamo barriere di alcun genere a nessuno, tuttavia chi viene a sedersi nella nostra tavola, dopo che gli è stato offerto il posto di capotavola deve cogliere il senso del gesto; guai a quanti lo intendono come atto servile o di riconoscenza storica, noi arbëreshë i parenti paralleli, li accogliamo per guidarli verso un percorso di acculturazione, in quanto in sei secoli di storia, noi, le posate per stare a tavola educatamente le abbiamo sudate con il sangue dei nostri padri.

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LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHË

LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHË

Posted on 18 giugno 2019 by admin

LA STORIA DELLA REGIONE DIFFUSA ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Come sanciva nel suo discorso sugli Albanesi, impropriamente attribuito ad altra inquietante figura, il Baffi riteneva che per lo studio della storia di un popolo, non si deve andare altre una certa misura, altrimenti si perde il senso della ricerca.

In conformità a questo principio, inizio ad analizzare cosa e quanto ha prodotto il miracolo linguistico tramandato oralmente nelle regioni dell’antico regno di Napoli o delle due Sicilie.

A tal proposto  il limite del confine dell’infinito di ricerca parte ai tempi quando venne diviso in themati l’impero romano unificato, la conseguente traccia di ricerca condotta, pone ad indagine l’intreccio tra uomini,  rapporti sociali, rapporti economici, luoghi e tradizioni da tutelare.

S’inizia con l’affermare che nel VI secolo D.C. dopo  aver allocato la capitale dell’impero di Oriente ed Occidente a Costantinopoli, venne diviso il territorio unificato, in themati e le disposizioni del nuovo modello convogliava le disposizioni civili e militari, nell’elemento perno dell’Impero, ovvero, i soldati contadini (gli Stradioti).

Fare un parallelismo delle consuetudini, della famiglia stradiota e quella arbëreshë descritta nel protocollo Kanuniano, è facile, anzi oserei definirli i prodotti sociali di una sola radice.

Questo ha caratterizzato in maniera particolare genti che vivevano le terre che ebbero come scenario gli scontro tra gli eserciti musulmani da quelli cristiani

Tra questi un ruolo fondamentale lo ebbero i territori dei governarati arbër e quelli a esso appena confinanti, avendo come scontro storico la battaglia della Piana dei Merli combattuta il 15 giugno del 1389.

Essa rappresenta una pietra miliare, della via perseguita dai turchi, per conquistare Roma e l’intero occidente.

I territorio che accomunavano con simili ideali i governarati arbër, divennero il luogo ultimo per frenare il bellicoso progetto mussulmano.

Le battaglie che in queste spianate, anfratti e gole ebbero luogo, diedero lustro alle capacità innate del popolo arbër, per la difesa dei territori di pertinenza o linee da difendere, al punto tale che furono attuati accordi di mutuo soccorso,  tra la nobiltà locale Balcani e in seguito con quelle oltre Adriatico.

Ebbe così inizio un scambio di difesa in forze di uomini mezzi e armi, che da un lato garantiva una linea bel lontana dalle coste occidentali dell’adriatico e dall’altra  aiuti fondamentali per non soccombere all’invadenza turca.

Intanto nelle terre del regno di Napoli, le trame francofone, e le preoccupazioni relative d’invasione resero indispensabile predisporre nel 1448 le opportune linee di difesa in Sicilia, Calabria e Puglia, insediando gli arbër che nel contempo rassodavano e mettevano a coltura terre incolte o dismesse per la insalubrità diffusa.

Quando nel 1460 le politiche del papato e quelle francofone, resero incontrollabili gli atteggiamenti dei baroni verso il re di Napoli, fu lo stesso Giorgio Castriota (che dalla fine del 1443 aveva fatto comprendere ai turchi, il senso della famiglia Kanuniana) a gestire la situazione nella famosa battaglia di “terra strutta” e poi predisporre i presidi idonei a frenare ogni tipo di ribellione.

Nel 1468, anno della morte del valoroso condottiero, secondo gli accordi dell’Ordine già in atto; fu l’anno prima della morte del condottiero che Giorgio ebbe  in affido la figlia di Vlad III Principe di Valacchia, Donica Comneno raggiunge Napoli ospite a corte con la “bambina” e i due figli “Giovanni e Vojsava”.

Appare evidente che a questo punto caduta quella linea per la difesa dell’occidente, il limite deve arretrare e quali presupposti migliori per approfittarne della presenza della moglie e i figli di Giorgio Castriota a Napoli e accogliere famiglie arbër, al fine di predisporre un controllo serrato degli d antagonisti più efferati e disegnare aree specifiche dove far insediare gli arbëreshë, liberi per i primi cinque decenni di muoversi  nei territori del regno secondo un progetto strategico studiato a tavolino.

Nascono cosi, la linea dell’infinito calabrese,  il limitone pugliese  e la linea del fortore, a queste si aggiunsero per i principi più irriducibili, presidi  mirati, vere e proprie linee di controllo, come quella del tarantino contro gli Orsini che contavano oltre dieci agglomerati, la Sansaverinense con oltre venticinque agglomerati e quella del Sarmento altri dieci agglomerati, contro i Principi di Bisognano.

La definizione capillare delle linee di controllo, sarà trattata in uno specifico grafico che allo stato è in puntuale definizione; resta un dato inconfutabile, a ogni linea d’insediamento, corrispondono un numero considerevole di agglomerati arbëreshë, in funzione dell’ostilità dei principi verso il re .

Sta di fatto che dalla prima migrazione del 1448 sino agli albori del 1500 le disposizioni degli arbëreshë seguono una regola precisa, che non è mai casuale o lasciata al caso, perseguendo sempre  due fini complementari: il primo economico e mirava a mettere a regime territori incolti o comunque abbandonato; il secondo, creare una sorta di cortina per il controllo del territorio dei principi ribelli.

Questa disposizione delle genti arbëreshë nel territorio del regno di Napoli non viene mai dismessa, vero è che dopo la realizzazione degli atti di sottomissione e le vicende religiose mai dismesse dal papato, gli arbëreshë furono sempre tutelati nella valorizzazione del proprio patrimonio culturale, linguistico, consuetudinario e religioso, indispensabile per difendere le direttive reali a mai quelle locali.

Conferma di ciò sono le disposizioni di Carlo III, il quale una volta insediatosi a Napoli, per la sua difesa e del suo seguito istituisce il reggimento Real Macedone del Regno di Napoli, non affidandosi dell’esercito; il reggimento, la cui estrazione  di matrice arbëreshë preferiva esclusivamente elementi provenienti dalle terre balcaniche; persino il cappellano militare era di medesima discendenza, il Reverendo Giuseppe Bugliari, naturalmente arbëreshë ka Shën Sofia; ma questa è un’altra storia.

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