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LA PERCEZIONE PERFETTA

LA PERCEZIONE PERFETTA

Posted on 17 giugno 2019 by admin

LA PERCEZZIONE ERFETTANAPOLI di (Atanasio Pizzi) – L’intervento qui riportato, indaga l’humus culturale della regione storica e vuole definire il debito culturale accumulato verso i luoghi, i protagonisti e le attività utili a comporre il quadro della cultura storica e cosa ha attratto gli addetti a volgere l’interesse verso il tramonto della cultura.

Quando nell’estate del 2004 entrai nella sala consiliare del comune Sofiota ad ascoltare cosa era riferito in merito al tema “la gjitonia”; dire che rimasi stupefatto è puro eufemismo.

Appariva evidente un’impronta d’isolamento geografico e storico, lasciando il campo aperto a una storia dominata dall’approccio di una filosofia locale o attinta dalle fonti impermeabile all’esperienza dell’individualismo.

Notai da subito il profilo culturale degli oratori  e nessuno aveva consapevolezza di cosa diceva e cosa lì a pochi passi nello sheshi di “Zia Klentina Magazinitë” aveva avuto luogo non molto tempo prima a torto dei loro enunciati.

Ritenni che la mia percezione dello stato culturale fosse veritiera, oserei dire perfetta, in quanto, non vi era alcuna attinenza con la realtà, degli uomini, degli avvenimenti e delle persone; istintivamente mi sono apprestato ad uscire da quel buio culturale.

Quel pomeriggio dell’estate del 2004, fu calpestata gratuitamente, la memoria, la dignità e i trascorsi storici di tante persone di nobile morale.

Era palese che nessuno degli oratori si fosse mai guardato attorno o si era informato di cosa fosse quel luogo di incontro, ne tanto meno cimentato in studi a largo spettro o confrontato le vicende storiche che avevano visto protagonisti la Scuola Sofiota.

Si narravano episodi privati del luogo, del senso, dello spazio, del tempo e delle persone coinvolte, in poche parole si raccontavano frammenti sconnessi di un tempo mai vissuto o che trovava applicazione nei trascorsi storici esclusivamente arbëreshë.

Iniziò cosi un periodo di indagine per confrontare le mie ricerche con un numero considerevole di addetti di quelle rappresentazioni, così come di tante altre; lo specificare domande di epoca degli uomini e dell’edificato storico, nessuno erano in grado di rispondere e il più delle volte adduceva personali e campanilistiche spiegazioni, come ad esempi:

“Scuola Sofiota” era ritenuta come l’operato di un povero di prete (Gnë zop Zotë);

Il valore dello Sheshi dei “Bugliari di sopra” era associava alla cantina di Joscari;

Gjitonia abitualmente identificata come simile al vicinato;

Bagliva e di Kaliva, due elementi senza nesso;

Luigi Giura, Vincenzo Torelli, si ignorava chi fossero;

Rione e Quartiere la traduzione inconsapevole di gjitonia;

Pagliashpitë; un toponimo di paglia ;

Valje, il  ballo albanese del 24 aprile del 1476;

primavera Italo-Albanese, il buco nero degli arbëreshë per imitare le Valje;

Cavallerizzo, un’operazione umanitaria che aveva distratto molti cuktori;

Il Collegio Corsini, la perfetta operazione immobiliare;

Dare senso al ricordo di Giorgio Castriota senza doverlo appellare Scanderbeg, è un po come raccontare un episodio fantozziano;

Gli insediamenti della Regione Storica arbëreshë, troppo complicato, in quanto ancora è ignoto il vocabolo regione;

Il confini dell’infinito grecanico, il buco nell’ozono;

Il sogno perseguito dai cultore? imitare i Fratelli Grimm;

Quando ho iniziato, negli anni settanta del secolo scorso, la mia esperienza sul campo del restauro e della valutazione delle consistenze architettoniche, per il migliore rilievo; un vecchio ed esperto architetto, mi diceva sempre di essere diffidente sempre dovunque e comunque, nei confronti di quanti nella loro esperienza curriculare presentavano la propria maturità sviluppata esclusivamente nel chiuso dei dipartimenti.

Il vecchio amico, riteneva e aveva ragione, che i curriculari abitualmente, non mettevano a confronto le nozioni del chiuso, con quanto ancora del costruito storico resta indelebile all’aperto, rimanendo per questo molto indietro con la conferma dei dati.

Queste ha subito per decenni, la storia con protagonisti gli arbëreshë, le cui esaustive diplomatiche, anno trovato collocazione e dovizia di particolari nel territorio.

A questo puto si ritiene indispensabile iniziare con le dovute cautele e realizzare lo studio perfetto, che non sia solo il frutto di percezione ma confronto tra scrittografia territorio e memoria.

Ogni addetto che si occupa e si sforza di approfondire per divulgare nozioni della regione e per la regione storica, deve essere citato per i titoli che possiede e non per quelli che si vorrebbero che non avesse, per apparire superiori o più titolati; chi fa il fotografo è fotografo chi fa l’architetto è architetto, chi fa degenerare presidi lo porta sulla coscienza e così via dicendo senza mai dimenticare i titoli che sul campo hanno meritato quanti hanno lavorato per il bene comune .

È tempo di non dire più messa, in italiano/latino; identificarci nel vicinato, appellandolo gjitonia; cantare valjie, dicendo che sono balli; appellare Giorgio Castriota, con il nome di quando era il nostro nemico.

Se siamo arbëreshë un motivo storico ci deve essere, dobbiamo solo studiare e ricercare i riscontri nel territorio; non serve copiarlo nelle pieghe dei Sassi di Matera; per apparire più credibili; gli arbëreshë lo sono di natura!

Chi lo fa ed è nativo di un luogo che non trova collocazione in nessun contesto, se non risvegliare armonicamente i cinque sensi arbëreshë, può fare altro e ricercare altre cose.

Solo i prescelti sono in grado di avvenire con il cuore e con la mente, la percezione perfetta, quella unica e sola trasportata, dalle terre natie sei secoli ormai sono.

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L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORI

L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORI

Posted on 10 giugno 2019 by admin

L’INFINITO ACCANIMENTO DEI VINCITORINapoli (di Atanasio Pizzi) – La storia la scrivono i vincitori, il tempo poi lentamente consuma le spigolature e rende la visione dei fatti chiara e priva di ombre.

Gli scritti storici, tendono a giustificare i vincitori, arricchendo con dovizia di particolari gli scontri, la sopraffazione e le pene inflitte ai vinti che non terminano mai di essere oggetto di giudizio dei vincitori e i loro sottoposti.

I vinti, oltre a soccombere materialmente, sono obbligati a rinunciare ai propri principi morali, senza che alcuno produca una nota sui motivi per i quali  è stata scelta la via dello scontro.

Quanto qui di seguito viene esposto racconta di un antico e caparbio popolo, gli arbëri, i quali  facendo leva sulla solidità identitaria, certi di innestare la propria radice culturale su nuove terre parallele, sopravvalutarono, purtroppo, quanti avrebbero dovuto produrre i nuovi recinti per la difesa dell’immateriale in loro possesso.

I vinti arbëreshë dal XIV secolo, (dopo la morte del loro condottiero Giorgio Castriota, secondo quanto afferma Giovanni  Fiore da Cropani, “volgarmente denominato Scanderbeg”), furono accolti nei territori dal Re di Napoli, per rifiorirli e nel contempo controllare Roma e i baroni ribelli.

I profughi diedero avvio al loro illusorio percorso di tutela, prima abbandonando quanto di materiale possedevano, attraversarono mari e poi risalirono le chine delle colline meridionali, alla ricerca degli ambiti paralleli alla terra di origine, portando le cose immateriali più intime, compreso l’alias della medaglia a due teste, di matrice turca Scanderbeg.

Questo fu il primo grave errore subliminale sottovalutato, che ha dato la misura dell’ingenuità dei profughi, i quali, scappavano dalle loro terre per non essere sopraffatti, inneggiando al nome turcofono del condottiero da seguire.

Forti di quanto era rimasto impresso nella loro mente, s’illusero che sarebbe stato sufficiente attraversare nuovi territori e una volta bonificati quelli per vive, sarebbe iniziata la loro  parabola di pace e prosperità.

Purtroppo non è stato così, infatti, dopo un’intervallo di confronto con le genti indigene, gli antichi abitanti della odierna Albania, (gli arbërë) immaginarono che la disfatta in terra madre, ad opera dell’invasore turco, fosse terminata e la via verso la libertà di culto e di pensiero, secondo gli antichi dettami, non avrebbe più avuto chine da superare.

A ben vedere e con il seno di poi, così purtroppo non è mai stato e neanche per un battito di ciglio, in quanto, prima la deriva religiosa imposta dai latini, poi, l’ostinazione di imporre una scrittura, in seguito, l’imposizione di svuotare la metrica del canto e riempirla di poesia, hanno portato  le genti della regione storica arbëreshë, a compiere un “cerchio di tutela culturale” che li ha riportati nello stesso risultato da cui si erano illusi di sfuggire sei secoli, ormai sono.

Una vicenda paradossale che se analizzata con dovizia di particolari storici, senza alcuna forma, politica o clericale di parte, si potrebbe definire la beffa storica.

I motivi e le tappe che descrivono questa parabola illusoria, in quanto gli Arbëri miravano a quanto qui si seguito elencato:

  1. Non soccombere alla pressione di una religione dissimile dalla greco ortodossa;
  2. Non  assumere consuetudini ignote fuori dalle regole degli stradioti riassunte nel Kanun;
  3. Non parlare attingendo  in modelli scritto grafici;
  4. Seguire esclusivamente la propria metrica canora;
  5. Tutelare  i propri usi e costumi;
  6. Tutelare ambiti del costruito storico;

Non serve molta conoscenza della storia arbëreshë, per rendersi conto che questa è la realtà che non dovevamo vivere e nonostante tutto viviamo a dispetto di ogni principio per il quale fu scelto  l’esilio; ed è per questo che risulta facile segnare il punto a chiusura  dell’ironico cerchio, che poi è lo stesso punto dei calori sociali da dove eravamo partiti, a conferma di ciò si riassume  ogni cosa nelle note seguenti:

  • I profughi arbëri una volta stabilitisi nelle terre a loro assegnate, secondo uno schema ben ideato dai re Aragonesi, furono subito al centro dell’attenzione della chiesa, che per la perdita di risorse economiche, faceva leva sui riti dissimili a quelli latini e nel tempo di pochi decenni fece volgere le preghiere non più verso oriente; già alla meta del XVI secolo, di cento comunità arbëreshë, se poco più di venti sono state parzialmente graziate lo devono all’infinita crociata che Roma attende ancora di architettare.
  • Dopo questa prima fase nasce il plesso per la modellazione di prelati, per imporre lettere prima greche, poi latine, poi il mix di alfabeti che hanno fatto sorridere tutta l’Europa culturale e la grande massa degli arbëreshë che miravano al progetto di fuga, preferirono mantenere le distanze da questa blasfemia culturale.
  • Intanto le vicende culturali poste in essere spezzano molte tradizioni storiche, anche se le masse in maniera palese non avvertono materialmente nessuna ferita che si può ritenere tale; così si protrae sino a dopo la seconda guerra mondiale, quando la tendenza di caratterizzare gli ambiti costruiti, a seguito del boom economico, avvia a una deriva che nel corso di pochi decenni fa ritornare le genti della regione storica nelle stesse condizioni, cui sei secoli or sono cercarono di divincolarsi.
  • Nei fatti analizzando gli elementi materiali ed immateriali su cui oggi si regge la storica regione, si nota facilmente che sono mutate tutte le consuetudini laiche e clericali, secondo disciplinari alloctoni e non trovano ragione di essere in nessuna delle consuetudini arbëreshë.
  • La lingua imposta e proposta, mira a quella skiph di radice e metrica turca, oltretutto irrispettosa del fatto che noi arbëreshë siamo gli unici detentori della radice originaria.
  • L’inesperienza di caratterizzare gli edificati e gli ambiti urbani ha impresso  una deriva folcloristica paradossale, facendo apparire come il luogo di costumi e costumanze tipiche o riferibili alla radice turca, se poi a questo associamo le feste, le sagre, le danzate del ventre in costume, associata a sventolio di fazzoletti, il ritratto dell’harem è completo; asi vuole ribadire il concetto di “ritratto”, giacche, se si volesse riprodurre una rappresentazione filmica, la tragedia per gli arbëreshë sarebbe completa, in quanto le sonorità di tamburi, clarinetti e vocalità sono la conferma che pur essendo fuggiti e allocati lontano dalle regioni di matrice imposta, gli emissari culturali inviati dai mandamenti turchi, hanno saputo fare un ottimo lavoro di piegatura all’interno dei nostri katundë, quella piegatura culturale, consuetudinaria, metrica e religiosa da cui pensavamo di essere sfuggiti.

Complimenti ai turchi e in particolar modo a tutti gli “emissari” che pur di apparire, hanno venduto l’anima e il “buon cuore” della loro memoria.

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REGIONE STORICA ARBËRESHË E ARBËRIA: IL SACRO E IL PROFANO

Protetto: REGIONE STORICA ARBËRESHË E ARBËRIA: IL SACRO E IL PROFANO

Posted on 21 marzo 2019 by admin

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LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, ONOREVOLE SERGIO MATTARELLA,  A QUESTA MIA LETTERA

Protetto: LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, ONOREVOLE SERGIO MATTARELLA, A QUESTA MIA LETTERA

Posted on 19 marzo 2019 by admin

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REGIONE STORICA ARBËRESHË

Protetto: REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 06 marzo 2019 by admin

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VEDOVE BIANCHE.

Protetto: VEDOVE BIANCHE.

Posted on 02 marzo 2019 by admin

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DISCORSO DEL PRINCIPE GIORGIO CASTRIOTA RIVOLTO AI SUOI PARI CRISTIANI (Alessio; 2 Marzo 1444)

Protetto: DISCORSO DEL PRINCIPE GIORGIO CASTRIOTA RIVOLTO AI SUOI PARI CRISTIANI (Alessio; 2 Marzo 1444)

Posted on 27 febbraio 2019 by admin

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AVENDO AVUTO UN INVITO AD ASCOLTARE PER INTERVENIRE, VI INVIO QUANTO:

Protetto: AVENDO AVUTO UN INVITO AD ASCOLTARE PER INTERVENIRE, VI INVIO QUANTO:

Posted on 10 gennaio 2019 by admin

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LA REPUBBLICA DELLE PISCIAGLIOCCHE MILLANTA DI SOSTENERE I PRINCIPI DELLA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Protetto: LA REPUBBLICA DELLE PISCIAGLIOCCHE MILLANTA DI SOSTENERE I PRINCIPI DELLA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 15 novembre 2018 by admin

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PASQUALE BAFFI Santa Sofia d’Epiro 11 Luglio 1749 - Napoli 11 Novembre 1799

PASQUALE BAFFI Santa Sofia d’Epiro 11 Luglio 1749 – Napoli 11 Novembre 1799

Posted on 11 novembre 2018 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Nella piccola comunità di Santa Sofia d’Epiro, piccolo Katundë della Regione storica Arbëreshë , l’11 luglio 1749 nac­que Pasquale Baffa.

I genitori, Giovanni Andrea e Serafina Baffa, entrambi di origini arbëreshë vivevano nel modesto agglomerato edilizio posto a ridosso della confluenza del camminamento per l’ospizio e il palazzo arcivescovile.

Il cognome, in albanese significa fava,  baf  è uno di quelli associati alle famiglie più antiche del piccolo centro Arbëreshë.

Pasquale Baffa rappresenta l’insieme flessibile dell’ingegno ellenico, intriso della caparbietà tipica dell’indole calabrese.

Cresciuto sotto l’occhio vigile della mamma Serafina e dei gjitoni che assieme alla famiglia baffa dividevano il lavoro ed i pochi frutti delle terre sofiote.

Nei primi tempi della sua carriera scolastica fu posto alla guida e alla disciplina di uno zio paterno, dimostrandosi poco appassionato agli studi, fu questo il motivo per cui venne iscritto tra gli allievi laici del collegio italo-greco di S.B.U.

Il giovane Pasquale docile ed educato, incline a non subire soprusi e ingiustizie di alcuna sorta, nel corso di una lezione, rimproverato a torto dal suo maestro di greco, esternò le sue perplessità relativamente ad un brano tradotto, invece di avere elogi subì una strappata di orecchie, com’era in uso fare per punire gli allievi.

La reazione fu violenta e furiosa a tal punto che, la direzione del collegio ritenne opportuno di allontanato dall’istituto.

Dopo l’ingiusto episodio non si perse d’animo, continuò gli studi da privatista con tanta caparbietà e lucidità che a solo diciotto anni acquisì la maturità non solo per insegnare ma anche per divulgare nelle scuole del regno le opere di Platone.

Quando i gesuiti furono allontanati dal regno, il Baffa fu chiamato a insegnare il greco nelle scuole pubbliche Universitarie degli Studi di Salerno e di Avellino.

P.B. continuò a manifestare il grande ingegno pubblicando il 31 di luglio 1771 una lettera italiana indirizzata a quel grecista stimatissimo Bugliari, con il quale difen­deva la pronuncia del greco moderno contro i seguaci di Erasmo Rotterdam.

Nell’esodo da Napoli a Salerno, il Baffa modificò il suo cognome in “Baffi” le versioni a riguardo sono più di una, a partire dalla più banale secondo cui si volesse nascondere dietro alla “I” per la nota negativa della espulsione dal Collegio Corsini.

Studi recenti svolti a Napoli, attribuisco la sostituzione della lettera finale a una attenta analisi nella traduzione del suo cognome, che aveva più attinenza nella forma plurale che singolare, ritenere che gli studi da lui intrapresi  sulle origini del popolo albanese, avesse indotto l’illustre uomo di cultura, ad una traduzione più attenta del suo cognome.

A Salerno con le antiche scuole letterali perfeziona il suo lume, fatto di intelligenza che attingeva nelle lettre latine e greche, qui pone in essere il suo lume e per questo viene invitato ad affinare le lettere della scuola militare a quei tempi ancora a Portici peer quanto attiene il filone marittimo.

Giunge a Napoli nel 1773, chiamato a prestare la sua opera di professore nel nuovo convitto dell’Annunziatella, la cui apertura avvenne l’11 di novembre di quell’anno e, poiché non era ancora disponibile il convitto, fu ospitato negli alloggi del Salvatore.

Nella capitale partenopea spinto dai suoi ideali di libertà si iscrisse in una delle Logge di Liberi Muratori in Portici e trovato nella villa di proprietà di Niccolò Marselli sita nei pressi di Capodichino, durante una riunione, per una serie di strane coincidenze fu imprigionato il 2 di marzo 1776.

Il Baffi, passò così dal convitto alle carceri di castello dell’Ovo da cui fu scarcerato solamente il 1° di marzo 1777.

La pendenza legale nei suoi confronti ebbe soluzione solo il 28 di gennaio 1782 quando su proposta del ministro Bernardo Tanucci, che venne accolta dai sovrani, furono aboliti tutti quei giudizi a carico delle persone coinvolte nelle riunioni delle società segrete.

Amico del letterato calabrese Aracri, Grimaldi e con Pagano, il Baffi fu prescelto nel 1779 come socio dell’Accademia di scienze e belle lettere.

L’anno seguente vinse il concorso di lingua e letteratura greca di Napoli, che in quel tempo rac­coglieva gli uomini come, il Conforti, il Cirillo, il Pagano, il Serio, il Bagno, il Caputo.

La sua fama fu tale che a Napoli non vi erano uomo di cultura che non si ricercasse a conoscerlo e ad ammirare di persona questo ellenista e filologo, così come fece nel 1781 il celebre Bandini, che gli rimase legato e continuò ad essere vicino alla sua famiglia e al figlio Michele.

Nel 1785, quando aveva il suo studio legale insieme col suo parente ed amico Angelo Masci fu chiamato a interpretare il processo fatto nel1548 della badia di San Pietro di Caserta.

Diventato il 3 di gennaio 1786 uno dei tre bibliotecari della Reale Accademia delle scienze e belle lettere, seppe distinguersi e redigere il catalogo oltre a mettere in sicurezza molti manoscritti che grazie alla sua lungimiranza non finirono in mano dei predatori napoleonici.

L’operato del baffi così fondamentale per la nascente Biblioteca Nazionale nulla ricorda il sacrificio e tutto quello che fece per essa.

B. assieme agli avvocati Pietro Battiloro e Angelo Masci, raggiunse una così grande fama nel campo della giurisprudenza che il loro studio legale era ambito da chiunque avesse giudizi in pendenze agrarie.

La sua fama di esperto nella lettura ed interpretazione di vecchi manoscritti fu tale che in ogni dove del regno era richiesto la sua presenza per tradurre e interpretare gli antichi reperti.

Per lo stesso motivo nel 1787 fu mandato in Catanzaro per interpretare le pergamene utili a for­mare il patrimonio della Cassa Sacra, e contemporaneamente mise in ordine gli archivi di Mileto e di San Domenico Soriano.

Tra i più preparati soci dell’Accademia, fu scelto per conservare e tradurre i papiri greci di Ercolano, in oltre tradusse e annotò un rarissimo codice della biblioteca degli Agostiniani di San Giovanni a Carbonara.

Il suo nome era già conosciuto in Europa e ne parlavano con lode il Lalande nel suo viaggio in Italia nel 1787, annotava come in questo tempo il Baffi si occupasse ai succitati lavori.

E con uguale lode ne parlarono Nicola Show, Arnoldo Haren, Federico Munter professore di teologia in Copenaghen, e Cristoforo Harles.

Lo scrittore Orloff, nel tomo secondo delle sue Memorie su Napoli, esprime nei confronti del baffi il seguente giudizio: C’etait peut étre le plus grand elleniste de l’Europe.

Nell’anno 1792 fu incaricato di interpretare tren­ta antiche pergamene della Magione in Palermo e visitare l’Archivio di Santo Stefano del Bosco facendolo trasportare dalla Calabria nel collegio del Salvatore per poterlo avere a disposizione.

Avendo guadagnato piena stima dai regnanti di quel tempo, fu grazie a lui che il 1 febbraio 1794 il re aderì al trasferimento del collegio Corsini, che dal baffi considerava unica isola per la formazione culturale di quelle terree, in modo che il presidio avesse una sede più adeguata di quella cadente di S.B.U.

A quei tempi alla guida del collegio era il Vescovo Francesco Bugliari suo parente, anche lui come il Bellusci a Napoli durante il periodo di studi aveva frequentato Pasquale Baffi condividendone gli ideali liberali.

La scelta meditata tra i due sofioti cadde sul presidio monastico di Sant’Adriano, allocato fisicamente a poco più di un chilometro da San Demetrio, ben più lontano per quanto atteneva invece agli ideali politici, culturali e sociali.

A tal proposito va sottolineato l’aiuto legale che il Baffi diede al Vescovo Bugliari per risolvere i tanti giudizi che i mezzadri della zona sollevavano contro il patrimonio del collegio.

Nel 1796 Pasquale Baffi giunto al colmo degli onori, scelto per dirigere gli uffici più ambiti dagli intellettuali e tenuto in considerazione dai più celebri filologi  di Napoli e d’Europa, si unì in matrimonio nel Gennaio di quel anno con Teresa Caldora di nobile famiglia napoletana.

La sorella di lei, Apollonia legata al mondo culturale europeo, era così onorata e felice di tale matrimonio che inviò al cognato una lettera di cui si allega un breve brano:

E inesplicabile il contento chi provo del matrimonio che avete già stretto colla cara mia sorella Teresa …. io ben sapeva le doti che adornano la vostra persona, e perciò stimo assai fortunata mia sorella per questa sorte che ha ottenuta dal Cielo e voglio sperare che col suo virtuoso portamento sappia meritare la vostra affezione

Quando si avvicinarono gli albori della rivoluzione del 1799 la coppia aveva avuto già due figli Michele e Gabriella.

Nel dicembre del 1798 il Baffi venne chiamato ad essere il garante per gli acquisti librari per la biblioteca, mentre concludeva il catalogo della biblioteca.

Creata la repubblica in Napoli, fu uno dei rappresentanti del popolo ed eletto a preparare le nuove leggi e gli ordinamenti per la pubblica istruzione.

Ma una cosa è il pensiero politico, ben diverso e grave è prender parte a un governo come ministro.

Così quando le cose non presero la svolta che si era prevista, egli fu costretto a nascondersi e mettersi al sicuro in un paese nei dintorni di Capua, ma il desiderio di rivedere i suoi, tornò a Napoli, credendo che le tensioni si fossero  affievolite;  ma purtroppo così non era.

Il 30 di luglio, mentre si recava a casa del suo amico e parente Angelo Masci sicuro di poter riabbracciare la moglie, gli sbirri e i soldati lo arrestarono conducendolo nelle carceri.

In quel periodo la scure del carnefice abbracciando la bilancia della giustizia faceva  terrorizzare e costernare tutta la popolazione del regno.

Il Baffi strappato dalle braccia di un padre, di una mamma, di una moglie, del suo bambino Michele e della sua bambina Gabriella, fece soffocare le sue lacrime all’interno del suo cuore e della sua anima.

Il suo credo religioso fu la sua forza che lo aiutò nel periodo della sua detenzione sin anche quando fu emanata la sua condanna e infondergli tanta energia tale da rifiutarsi alla viltà del suicidio, persuaso, che l’uomo in vita è paragonabile ad una sentinella e suicidarsi sarebbe stato come disertare i propri doveri.

L’11 Novembre verso le ore 17,12 accompagnato da otto coppie di soldati preceduti da un crocifero usci dal carcere e giunse in Piazza Mercato, con pa­ziente cadenza, verso le ore 18.

La cronaca dell’esecuzione descritta nei libri della Compagnia racconta: Mori rassegnato al divino volere il paziente e si seppellì nella vicina chiesa.

Ma non fu così, perché quando fu assicurato al cappio, questo si sciolse ed il Baffi stramazzo giù dal patibolo, a questo punto il boia senza perdersi d’animo lo raggiunse ponendo fine in modo disumano alla vita dell’illustre e valoroso Sofiota.

Quel giorno a Pasquale Baffi fu aggiunto anche il titolo di martire, uomo eccelso di bassa statura fisica, viso bruno, occhi vispi ed intelligenti capace di disquisire in greco in tutte le inflessioni dialettali.

Un uomo intriso di solidi propositi senza particolari clamori, come dimostrò nel suo esilio del 1795, quando esternò una modestia senza pari e si vede chiaramente per le poche cose che inviò in stampa, preferendo aiutare e collaborare con altri, sicuro di far comunque bene con le sue immense fatiche senza mai pensare alla sua gloria.

Ci sono pochi  uomini di tale indole e nessuno ad oggi è riuscito a seguire il suo esempio ereditato dai suoi antichi avi arbëreshë, abituati a vivere e prodigarsi per il berne della comunità cosi come è largamente enunciato nel libro degli albanesi.

A quel nome e al suo sacrificio furono dedicati, i versi dell’Iliade, decimo canto:

… animus fortis

In omnibus laboribus, amatque ipsum Pallas Minerva.

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