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CENTRI ANTICHI MINORI IL LUOGO DEI CINQUE SENSI

CENTRI ANTICHI MINORI IL LUOGO DEI CINQUE SENSI

Posted on 01 maggio 2020 by admin

Gradi

NAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – La straordinaria varietà di sistemi urbani presenti nel territorio italiano, ci obbliga a tentare una definizione storica, che restituisca senso ogni qual volta, si riferisce o si annotano i “centri antichi minori”.

Quando si parla di “Borgo medioevale” o di Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio rinascimentali, bisogna essere molto precisi su quale di questi sistemi aggregativi si vuole riferire, senza fare uso comunemente ed esclusivamente dell’appellativo “ Borgo”.

I riferiti di storia non devono essere intesi come elemento per sollecitare l’immaginario collettivo, fermando il tempo all’epoca delle murazioni con merlature, fossati, ponti levatoi, a difesa del castello, giacché rappresentano “comuni narrazioni diffuse”.

I borghi dalla fine del XIV secolo non avevano più ragione di essere, in quanto, iniziarono a essere edificati i modelli aperti o diffusi, come ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggi “, identificati storicamente, in senso di luogo, tempo, ruolo, adempimenti sociali più inclini a produrre economia che guerre .

Per questo è opportuno rilevare, quali hanno le caratteristiche per risvegliare “i cinque sensi”, dove gli uomini si confrontarono e trovarono l’equilibrio per vivere in armonia con l’ambiente naturale, i propri simili, a contatto con il territorio circostante.

Riguardo al termine “centro antico” va rilevato che esso individua i fuochi, attorno ai quali hanno avuto origine e poi si sono ampliati i sistemi urbani aperti, secondo le linee guida dei “Rioni” suburbani.

Il “centro antico”, non va confuso con il “centro storico” che vuole indicare l’intero sistema edilizio, compreso quello moderno, in quanto, il termine intende, ogni ambito dove gli uomini si sono confrontati per progredire nel corso e i tempi della storia.

Così anche il termine “minore”, non deve costituire aprioristicamente un parametro qualitativo, riferito a centri, secondari o di rilievo insufficiente.

Essi si presentano notoriamente, come “Sistemi Urbani Diffusi” apparentemente disposti disordinatamente, lungo gli anfratti più reconditi delle nostre regioni, ciò nonostante non sono da considerare generici è privi di significato, in quanto, rappresentano la sintesi storica delle città moderne o delle grandi metropoli, il cui prodotto primitivo è stato sovrastato da pratiche successive, tendenti a cancellare la memoria, per un’edificazione priva di aspettative naturali.

Per questo, i centri antichi minori non devono essere intesi come, minori nella definizione generale, minori nella trattazione della storia, minori nell’edificato, minori nelle architetture, minori in senso urbanistico, minori nell’economia o addirittura memore di senso inferiore.

Essi sono così appellati perché rispettano l’ambiente e il paesaggi naturale,  non lo sovrastano o segnano con episodi costruiti variegati le linee generali di inviluppo naturale, mirano semplicemente a rispettare le tracciate dettate dalla natura.

Sono  minori perché gli uomini che li elevarono, con saggezza e ponderazione, affiancarono la natura, percorrendo la stessa rotta  nel corso dei secoli  rispettando un patto  di cooperazione e tutela, antico .

Ambiti costruiti che non contengono, né  Colossi, ne Cattedrali o Ponti proiettati verso l’alto, giacché, i componimenti di mitigazione per consentire la vita degli uomini sono composti secondo il principio di convivenza, tra natura e uomo.

Sono questi gli ingredienti che consentono la vita nel magico luogo dei cinque sensi, in specie quello mediterraneo, il più genuino e sempre un passo avanti rispetto ad altri ambiti.

I centri, per questo, vanno considerati espressione indelebile di qualità e sperimentazione dell’uomo, in quanto, la “freccia temporale” ha depositato nello spazio costruito e naturale, l’esperienza maturata in diverse epoche, in senso di patimento, di genialità locale, di confronto e credenze.

Nei sistemi urbani diffusi di tipo rinascimentale, ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio ” contengono gli elevati civili e religiosi, la cui consistenza generalmente è caratterizzata dalle pietre offerte dalla natura una ad una, per poi essere utilizzate negli elevati costruiti.

Le stesse malte che sigillano l’unione degli innumerevoli tasselli calcarei, sono espressione cromatica giacché: sabbie di torrente, argille, calce, acqua e le travature per gli orizzontamenti e le lamie inclinate sono locali rendono il costruito una parte fondamentale dell’ambiente che nel suo quadro generale non presenta punti o note stonate.

Per questo i Centri antichi minori rappresentano l’espressione della più intima ritualità, credenza e pensiero; evoluzione delle esigenze, il segno minore della necessità sociale ed economica per l’uomo, che si adopera con il ritmo dell’ingegno locale, in tutto, l’espressione genuina del Genius Loci.

I centri antichi detti “minori”, purtroppo oggi si sono trasformati in vere e proprie “purpignere” (vurvinë), dove il fatuo ha attecchito e le “carte del restauro” sono volate via con il vento; lo stesso che un tempo accarezzava questi elevati per ripulirli e sostenerli come “luogo dei cinque sensi” .

Oggi di sovente, anzi molto spesso, i centri antichi minori, sono diventati oggetto di numerosi interventi, oserei dire pericolosi, perché prevale la tutela esclusiva dell’aspetto funzionale e cromatico, senza alcuna attenzione rivolta verso le “carte del restauro”  e del consolidamento strutturale.

In altre parole si attuano atteggiamenti generali senza predisporre indagini storiche, materiche e di verifica strutturale di tutto l’isolato, quest’ultimo in specie fondamentali per queste perle di architettura, in caso di eventi naturali o indotti.

I temi citati sono alla base delle carte del restauro storico, le uniche che possono garantire la validità dell’animo, la mente e l’arte, degli esecutori; se poi ci volessimo soffermare sulle caratteristiche dei mandanti, è meglio stendere un velo pietoso e non pensare ai ricorsi della storia.

Soffermarsi a riflettere sulle azioni progettuali rivolte al patrimonio dei ‘centri storici minori’ significa, porsi almeno la domanda: cosa si voleva inventare, in più, rispetto a quanto già predisposto nelle “carte del restauro”?

Alla fin dei conti non serviva una particolare capacità intellettuale, bastava solo leggere e predisporre il progetto di restauro, consolidamento e riqualificazione, come fanno gli architetti che si occupano di questi capitoli .

Il condizionale è d’obbligo, perché, numerosi centri minori subiscono forme di degrado causato, dall’abbandono, ma ben più grave è l’incuneandosi senza rispetto, di adempimenti senza rispetto che approfittando si tratti di minore “minore” e quindi privo di forza per difendersi, compiono gesti inconsulti. 

Il risultato di tali atteggiamenti, fa perdere la purezza del “minore” che attraverso la mano della burocrazia “infligge gli accadimenti”, senza che un lamento di dolore possa essere liberato da quelle intimità della storia.

Tutto ciò appare nelle vesti che i portano i segni e i colori della perdita di quel valore irripetibile, difesa da un lamento soffocato.

Ancora troppo spesso s’interviene nei nuclei storici minori, come se questi fossero svincolati dal proprio ambiente e dal proprio valore materiale ed immateriale; pur e ben chiaro, che in realtà, il luogo è necessariamente coniugato con identità e relazione, sin da quando ha inizio la minima stabilità sostenibile.

Solo quanti hanno vissuto gli ambiti minori, prima che questi fossero contaminati, riescono a riconoscerli e intercettarne i riferimenti che accomunano elevati, ambiente naturale, uomini in armonia con lo scorrere del tempo.

Comprendere la differenza sostanziale che esiste tra il “Borgo” inteso come “luogo”del comando, fortezza da cui si dipartivano le disposizioni sociali economiche, e restrizioni legali, difesi e protetti dalla solidità delle mura, per questo ben distanti dai sudori delle attività agresti di ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio “, è già un buon inizio specie se si mira a fare “un discorso nuovo”.

Notoriamente, le genti che vivevano, con non pochi patimenti, il luogo del lavoro predisponendo strategie di mitigazione e bonifica dei territori, lavorando la terra, per renderla produttiva e salubre.

I frutti, o per meglio dire il ricavato del duro lavoro, si otteneva partendo la mattina e rientrando la sera nei “Rioni” per ottenere poco meno di quanto serviva per il sostentamento, mentre la quasi totalità delle risorse finiva nelle disponibilità dei “borgatari” tramutandosi in ricchezza.

All’imposizione di realizzare murazioni più di controllo che per la difesa, attorno alla metà del XI secolo, venne preferito costruire; prima capanne in materiali deperibili (Kalive), scaturito da un nomadismo locale per imposizioni di gabelle,  segui una definizione di ruoli che si tramuto in luoghi stanziali e quindi ebbero inizio le costruzioni riconoscibili nel modulo edilizio minimo, in muratura, i noti Katoj.

In epoca successiva, iniziarono le aggregazioni del modulo abitativo, per i modelli sociali ed economici in evoluzione e, gli stessi moduli furono ampliati nel tempo e costruite con materiali locali e con tecniche più sicure.

Quando l’insieme aggregativo non consentì più di utilizzare territorio storicamente circoscritto, i moduli abitativi, iniziarono a svilupparsi verticalmente, e per il frazionamento della discendenza si aggiunge il profferlo, aggregando volumi di parentela o di nuova acquisizione.

Una sequenza costruttiva secondo un edificato storico ben delineato, attuato in tutto i centri storici minori, che si dispongono in senso “articolato” rispettando sempre l’orografia del lotto.

Lo stesso avviene in epoca più tarda, quando dal XVIII secolo, il modulo base è aggregato in forma lineare, ripercorrendo la metrica identica nel lungo termine.

Una sequenza costruttiva diversa da come capita oggi, per un qualsiasi manufatto edilizio abitativo, che si progetta e si realizza nel tempo di un anno solare o poco meno, diversamente da come si sono sviluppati i manufatti dei centri antichi minori, in cui all’elevato di base erano aggiunti elementi costruiti secondo le esigenze delle epoche, terminando la fabbrica nel corso di poco più di quattro secoli.

Ogni azione progettuale che si aggiungeva ripristinava l’originario senso nel rispetto dell’esigenza del gruppo familiare, così com’è giunto sino a noi.

La lettura delle esigenze delle varie epoche, racconta la storia di quel territorio e dei centri antichi, motivo per il quale devono assolutamente essere indagati rispettando l’intimità costruttiva del rapporto identità/qualità.

E soprattutto nel tessuto ricadente all’interno del centro antico “minore”, che la scena urbana mette in risalto esigenze di contestualizzazione e costringe ad atteggiamenti capaci di innescare un vero processo di riqualificazione nelle soluzioni operative, nelle procedure di gestione e in quelle di controllo.

Non riconoscere e, di conseguenza, non rilevare quali siano i valori storici, estetici e materici del patrimonio architettonico dei piccoli centri, significa seguire variabili sociali, culturali ed economiche senza porsi il problema di progettare per la continuità storica del manufatto e del paesaggio.

Il fine progettuale deve seguire la linea: ieri, oggi e domani, secondo un’impronta sempre riconoscibile delle tappe sociali ed economiche, in tutto della conquista del benessere diffuso e deve diventare sfida, per la qualità del tessuto urbano, secondo le caratteristiche ritrovate.

Solo in questo modo la scena urbana può essere riconosciuta nell’identità tipica del luogo; non come singolo monumento che prevale e si distingue dal resto del paesaggio urbano.

Riconoscere i centri storici minori come modello di qualità è la finalità da perseguire, solo con temi finalizzati e concernenti la valorizzazione dell’insieme luogo, può tutelare il nostro patrimonio culturale.

Recuperare le risorse e le energie per tutelare e salvaguardare un immenso patrimonio storico dei piccoli centri, i quali altrimenti rischiano di scomparire per incuria o di essere ‘banalizzati’ o spogliati di significato, a seguito d’interventi, detti di ‘recupero’.

Ciò alla luce di adempimenti ormai abbastanza diffusa dove prevale la consapevolezza che la tutela di questo patrimonio diffuso sia un campo di semina per i figli dei re dell’architettura, gli stessi che per essere credibili si presenta non con il cane al guinzaglio ma “alberi” immaginando quello che la natura non ha mai osato proporre all’uomo.

È  altresì evidente che intervenire in ambiti cosi estesi con la metrica del restauro, richiede doverosamente di circoscrivere e identificare zone omogenee, intercettando le tipologie edilizie, i materiali utilizzati negli elevati murari, degli orizzontamenti e nelle coperture.

Un ‘indagine condotta ed eseguita con dovizia di particolari (senza essere distratti dalle irrequietezze degli alberi al guinzaglio) secondo ‘le regole dell’arte locale’, in altre parole creare una “logica del luogo” per interventi ‘strategici’ che puntano a rimuovere i fattori che hanno generato il degrado, recuperando o rinvigorendo un rapporto di ‘necessario’ tra manufatto, contesto circostante, paesaggio e uomo.

Per tanto è indispensabile che l’emergenza architettonica dei “centri antichi minori” diventi espressione di un processo più ampio di tutela e riqualificazione, esteso al paesaggio e come cerchi concentrici che partono dal tessuto urbano armonizzano il paesaggio circostante .

Recuperare il rapporto necessario al paesaggio, che corre tra edilizia storica minore, tessuto urbano e visione connettiva del paesaggio, fa la differenza nel progetto di valorizzare il patrimonio che ha iniziato pesante mente a sgretolarsi.

Leggere con attenzione la morfologia dei luoghi, analizzare con diversi livelli di lettura contesti apparentemente marginali, richiedono particolare attenzione e conoscenza del carattere storico-architettonico locale, le operazioni conoscitive non si devono trasformino in passive e acritiche catalogazioni di situazioni edilizie.

Oggi osserviamo nascere le ”città nuove” (News Town) quale esperimento abitativo di eventi naturali o indotti, partoriti deformi di sintesi e freddi presupposti urbanistico/catastali o tecnicismi storici senza alcuna formazione culturale che per questo sono incapaci di offrire l’equivalente prodotto, con le radici  localmente evoluta nel luogo naturale, imbibita nelle particolari acque.

Diversamente dalla storia dei centri antichi minori, che senza fretta, quindi molto lentamente, procedono accumunando magicamente gli elevati, le strade, gli spazi, definendo gli itinerari che s’incrociano e si mescolano, in un insieme di scambio di parole condivise; la solitudine si dimentica perché “i cinque sensi” ti riportano a casa e ciò che vedi e ciò che avverti, è il tuo luogo di appartenenza, lo scenario di luce, dove ha avuto inizio la tua storica identità.

Questo è il segno che il progettista, (senza natura al guinzaglio) ha fatto un buon lavoro; il luogo dei “centri antichi minori” ha ripreso a battere il suo tempo, in senso di odori, sapori, prospettive e suoni; la vita continua, è tempo di sedersi, davanti casa, non c’è fretta, a breve passerà chi ti riconosce e avrai modo di conversare: “in arbëreshë”.

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I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

Posted on 27 aprile 2020 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – Oggi si discute sui processi che hanno condotto la nostra società a frammentarsi, rendendo gli ambiti costruiti e il vissuto non più sostenibili; alla luce di ciò, si vuole proporre un adempimento per una soluzione urbana sia organizzativa e sia sociale, prescindendo dai risultati della ricerca in campo scientifico riguardo il Covid-19.

Questa breve trattazione vuole esporre il risultato di un progetto a lungo approfondito, per questo si ritiene possa rispondere, rinvigorendo i percorsi urbanistici, architettonici, sociali ed economici, indispensabili a ricollocare il sistema produttivo e residenziale nei centri minori collinari del meridione.

Un progetto possibile, nel medio termine, che impegna i temi del modello, che nei secoli hanno reso possibile all’uomo la continuità del genere umano, oggi tornati indispensabili, vista le emergenze, specie nei grandi centri urbani, città capoluogo e metropoli in specie.

Prima di addentrarci nel nocciolo di questo discorso, è opportuno precisare che tratteremo di Casali, piccoli centri urbani collinari, di una specifica e ben identificata fascia mediterranea, in maniera più dettagliata, i cento paesi del meridione della regione storica diffusa arbëreshë; denominati “Katundë” unitamente al relativo modello sociale/economico, noto come il “luogo indefinito dei cinque sensi”: Gjitonia.

Questi centri riedificati e ripopolati dal XV sec. offrono l’idonea sostenibilità sociale ed economica, che a suo tempo venne penalizzata dal modello “Borgo medioevale”, cosi come oggi, non hanno capacita di affrontare l’emergenza, i nuclei metropolitani, sovraccaricati da abitanti e le relative attività lavorative.

Il borgo notoriamente è catalogato tra i modelli urbanistici chiusi e riconosciuti anche come sistemi urbani monocentrici, identificati nel frenetismo delle frammentate attività, diversamente dai “Katundë diffusi” o policentrici, come gli impianti simili denominati Casale, Frazione,  Paese e Pieve, in quanto, sistemi aperti mediterranei.

Insediamenti che nascevano nelle aree agricole fuori dalle murazioni dei borghi, questi, così organizzati miravano, con l’isolamento murario a detenere il potere politico economico e giuridico dei territori circostanti oltre a essere sede mercatale; l’esatto contrario dei “casali rinascimentali”, innalzati secondo principi policentrici, più a misura dei gruppi familiari che vi trovavano dimora perché meglio articolati per le attività economiche.

Sono questi, nel corso della storia, che con semplici consuetudinari debellarono malaria, peste e ogni genere di emergenza/calamita, perche, in simbiosi con l’ambiente naturale.

Il borgo e le sue murazioni se da un lato erano in grado di difendere quanti entro di esse si asserragliavano dagli uomini, quando il nemico diventava invisibile come le emergenze sanitarie, si trasformavano in vere e proprie prigioni da cui era difficile fuggire; cosi come oggi le città e le metropoli, sono una garanzia di vita comoda, ma quando il nemico diventa invisibile si trasformano come trappole da cui è difficile poter provvedere e trovare soluzioni.

Il modello di epoca rinascimentale può essere un esempio da ripresentare con le dovute applicazioni tecnologiche, per le emergenze; emigrare e vivere a debita distanza dai Borghi (Città e Metropoli) e le loro pertinenze mercatali, arterie stradali principali, consentono di porre in essere misure adeguate per allontanare gli uomini dai pericoli invisibili.

Una diversa distribuzione di spazi privati e pubblici, sommati alle attività e direttive sociali consuetudinarie, potrebbe dare origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolo buio del Medioevo con le “città chiuse”, dando luogo all’insieme policentrico dei “rioni aperti” del Rinascimento.

I Katundë arbëreshë (Casali Paesi e Pievi) oggi sono il modello economico e sociale da riproporre, in quanto dilata le griglie sociali con parsimonia e nello stesso tempo rende ogni addetto, nodo fondamentale e indispensabile, in tutto, una società in cui la capacità individuale diventa l’elemento di una catena trainante e infinita.

Gruppi familiari allargati in cui la verifica, continua, non lasciano spazio al caso, in quanto, nessuno degli elementi può sottrarre dal portare a termine il suo ruolo, penalizza tutto l’insieme allargato, il gruppo, la fabbrica e l’economia.

Il modello gjitonia rappresenta una società, una piccola azienda a conduzione familiare allargato, ogni componente vive e produce in base alle sue capacità porta il suo contributo per la produttività finale del  gruppo di cui fa parte e trae benefici.

Il sociale è organizzato all’interno di uno spazio indefinito, filiera dove nessuno è trasversale agli altri, lo spazio comune di vicinanza, confronto è il “luogo” (Ka) shëshi, (largo) nei sistemi aggregativi articolati e diventa strada/ilvico (Huda/rrruga) in quelli lineari.

Ogni famiglia urbana ha il suo spazio fisico ben definito, delimitato e senza barriere; nessuno oltrepassa o viola i limiti consuetudinari di questi ambiti, noti come: pertinenza dell’ingresso, il profferlo o la relativa scala, (për para deresë, baliaturì, thëghëruitura e shëpishë) .

Per questo diventano luogo di relazione con il resto degli abitanti; solo la strada appartiene a tutti, qui bisogna restare per conversare, salutare o rendere rispetto agli anziani, salvo l’invito formale di avvicinarsi o entrare.

I Rioni conservano indelebili le caratteristiche abitative dei razionali ed efficienti moduli abitativi, e ognuno di essi associato indelebile all’indispensabile “orto stagionale” o per meglio dire “orto botanico”, fondamentale elemento da cui ha origine il principio alimentare del km/0.

Un microsistema sostenibile e green, che non produce rifiuto, giacché, le diversità ortofrutticole si raccolgono con ceste in vimini senza alcun tipo di altro contenitore ne cartaceo ne plastico, ogni cosa viene consumata e i resti riciclata e diventano concime in apposite fosse del citato orto.

Il modello se opportunamente tradotto, potrebbe essere fondamentale nei sistemi produttivi, attraverso la frammentazione dell’indotto industriale, tanti piccoli sezioni produttive contigue, che si mettono insieme in seguito nella grande industria globale.

Quest’ultima non più intesa come grande concentrazione metropolitana, ma come espressione produttiva diffusa tipica dei “Katundë arbëreshë”; che si è visto terminare la sua essenza di confronto tra uomo e natura.

Dare risalto alla cultura contadina, rivalutandola, in quanto fondamentale per il vivere quotidiano, come avvenne nei processi d’inurbamento, oggi non più sostenibili perche elevati sulla base  di controllo delle dinamiche  all’interno delle nuove mura; quelle del pensiero.

Oggi ritroviamo la stessa politica nei centri antichi sia delle città metropolitane e sia dei piccoli centri, ormai svuotati di significato e coesione sociale, scompaiono perche preferiti ai grandi contenitori commerciali, i dormitori senza futuro o centri direzionali.

Occorre ricongiungere famiglia,, luogo, vicinato, attività nei centri antichi non promuovendo alchimie turistiche, centri direzionali in luogo economico, quartieri per dormire, piazze e botteghe come centri commerciali, scuole in cittadelle de localizzate, un’insieme differenziato.

Servono modelli che contengono economia, cultura e confronto sociale, invece di concentrare frammenti dell’insieme città aperta distanziando gli elementi fondanti, bisogna attingere dal passato, dei centri antichi, ricollocando il modello sociale mediterraneo.

Parliamo del vicino di casa, quando non era anonimo, estraneo, turista sfuggente, ma figura fondamentale ed extra familiare, integrato, residente, e parte attiva per il futuro sostenibile del “Luogo” quello capace di avvertire i cinque sensi, per sentirsi nel contempo indispensabile fulcro, unità di misura.

Rivitalizzare “i centri antichi rinascimentali” valorizzarli, caratterizzarli nel senso identitario, è la via per avviare il processo mediterraneo, lo stesso che rese famose le terre a esso prospicienti; mete ambite nel corso della storia, non per essere conquistate e distrutte, ma preferite per essere vissute.

Il segreto è racchiuso nel concetto di Gjitonia, l’unica a garantire adeguate risposte a eventuali emergenze, ma più di ogni altra cosa, fornire opportunità di vita meno caotica, quella in misura ideale per gli uomini.

 

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DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

Posted on 24 aprile 2020 by admin

Vincenzo_TorelliNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli ambiti storici della regione diffusa arbëreshë dai tempi in cui si consolidarono  e riconosciuti dalle autorità civili clericali locali, furono sottoposti a ogni sorta di angheria, che li uniformasse nel bene o nel male agli indigeni locali secondo i relativi latinismi di credenza.

Prima il confronto con i locali, poi le lotte con i preti latini, sommati all’inutile necessità di dare una forma scritta, nel corso dei secoli hanno perennemente minato l’esistenza della storica minoranza.

Le altalenanti vicende che vedono minare nell’ordine religione, consuetudine, metrica canora e idioma, non hanno mai terminato e imperterrite, per imposizione altrui e di sovente per l’inesperienza arbëreshë hanno reso vulnerabile le diplomatiche più intime, di questo gioiello sociale mediterraneo.

Gli eventi che vedono gli arbëreshë tra il XIII e il XVIII secolo sono riferibili a una chiusura sociale che se da un lato penalizza la credenza religiosa, dall’altro rafforza gli altri elementi impenetrabile e senza lati morbidi da poter affondare.

È nel corso del mille settecento che con l’istituzione del Collegio Corsini e il conseguente desiderio di annotare il rito bizantino con esperimenti letterari e liturgici di un idioma mai scritto, che allargano pericolose brecce dove poi avviene la costante infiltrazione sperimentale:la pericolosa deriva ancora in atto.

Il collegio di Sant’Adriano in Calabria citeriore e la Capitale partenopea diventano i poli, dove in diversa misura, si attuano gli espedienti, alcune volte a favore, ma di sovente contro la difesa dell’inestimabile patrimonio immateriale.

Esiste una massima che dice: “quanti restano dimentica chi parte ricorda”, questo in effetti è quanto è stato prodotto  relativamente alla tutela dell’intera Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

Ad iniziare dalla metà del settecento e sin tutto l’ottocento si forma una classe dirigente a Napoli di radice arbëreshë e se il Baffi semina dal 1762 un seme, la pianta germoglia e nel corso di tutto l’ottocento nasce un fronte di tutela della minoranza storica solido coeso e intelligente: Lulëzuertitë Arbëreshë.

 Il fulcro diffuso, di questa nuova era, sono le stamperie, gli uffici e la residenza di Vincenzo Torelli, che vivendo da emigrato le necessità della regione storica, lega tutti gli arbëreshë che si recano a confrontarsi e proporre progetti, di sintesi editoriale, salutandoli con la storica frase da lui così compilata: jaku i sprischiur su harrua.

E chiaro il punto di vista fuori dagli ambiti della regione storica, anche se la capitale partenopea per il suo operato, mette a confronto eccellenze, in campo letterario, poetico, musicale, della scienza esatta, lo studio del territorio e le politiche di rinnovamento oltre a tanti “inventori” di una lingua scritta e per questo continuamente corretta nella capitale partenopea.

Avendo ben chiaro, luoghi e quali uomini di alto rilievo si siano confrontati, per consolidare gli elementi caratteristici della regione storica, consente di affermare con certezza che, mai più nella storia degli arbëreshë tante discipline hanno fornito un contributo di sostenibilità cosi’ solido.

Architetti, Giuristi, Magistrati, Ingegneri, Politici, Letterati, Analisti di Musica e Canto, quindi di altissima e indubbia eccellenza, hanno, tutti in egual misura, fornito la linfa ideale con cui imbibire la radice minoritaria, in tutto il XIX secolo.

A seguito di questo florido intervallo, raffigurabile in una distesa i di grano a perdita di vista d’occhio  pronto per la mietitura; non ha avuto seguito più nulla e la tutela della minoranza storica si è ristretta a orto di primavera, riservato a insoliti parlatori, musicanti e colerici di radice alloctona, sostenuti da consuetudini dell’est; le stesse che oggi non sono in grado di superare le soglie delle case arbëreshë e tanto meno alimentare i focolai, centro nevralgico della gjitonia.

È opportuno che questi figuranti della nuova era, inebriati dai vapori estivi prodotti dall’aceto letirë, scambiato per “vino Arbëreshë”, oltremodo convinti che; nenghë kindroi fare gjhë; siano lasciati al loro destino di non credenti.

Meglio dedicarsi a condividere le eccellenze storiche con quanti di buon ingegno e capacità di lettura sanno che la regione storca arbëreshë diffusa, è un modello irripetibile, la stessa che rigenera identicamente e con sempre più vigore, alla luce del enunciato: il sangue sparso non muore mai e ogni estate rinasce fiorente.

 

Gjaku i shëprishur nëng vdes e nga ver lulëzon”

 

Sara una semplice impressione ma più il tempo passa e più emergono elementi materiali e immateriali secondo cui; solo chi nasce e coltivala il suo valore aggiunto fa cose buone e segna la storia, gli altri, si perdono nei noti affluenti “torrentizi” alla sinistra del fiume Crati, poi la corrente vorticosa come dai tempi dei romani li porta lungo la piana di Sibari a macerare, prima di diventare anonimi  frammenti  al mare.

 

 

Nella Foto, Vincenzo Torelli da Maschito (PZ)

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RASHËT  THË MOTITË ARBËRESHË.  (regione storica diffusa arbëreshë)

RASHËT THË MOTITË ARBËRESHË. (regione storica diffusa arbëreshë)

Posted on 19 aprile 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI ( di Atanasio Pizzi Basile) – La lettura di numerosi prodotti editoriali o enunciati che a vario titolo corrono nei canali multimediali, apre scenari a dir poco paradossali per quanti hanno consapevolezza della emergenza culturale senza eguali, a cui urge porre rimedio predisponendo l’idoneo progetto di tutela.

Episodi, esperimenti, allegorie, alchimie, favole di varia natura sono diventate la regola di quanti seguono l’esempio di accendere la pipa con i dollari, perché esposti al contagio dei famigerati: “482-AFM2  ”.

Essi sono generati  dalla diffusa consuetudine, poi diventata legge, per innalzare l’insieme diffuso dell’idioma, l’applicazione delle consuetudini, le metrica canora scambiandola per balli, oltre ai valori di credenza bizantina, amalgamati con le ritualità dell’esoterismo.

Queste malevole attività hanno creato un vuoto culturale, uno scenario collinare senza regola, in cui non si ritrova più impronta per potersi orientare all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”:

Rashët  Thë Motitë Arbëreshë.

È palese come la trascuratezza culturale abbia sconvolto la solidissima e secolare Regione Storica, per non aver voluto elevare le idonee strutture che dovevano essere condotte da studiosi e non scambiate per perimetri religiosi, che con i loro messali speravano di tenere distante il diavolo personificato in  “482-AFM ”, lo stesso che dagli inizi degli anni settanta aveva iniziato a diffondersi.

Che le soluzioni di tutela dovessero nascere dalle favole della nonna, la stessa che preparava “sfascini” e “affascini” per poi svuotare la bacinella nel crocevia della gjitonia, nessuno poteva prevederlo visto il ricco patrimoni materiale depositato in quegli anfratti collinari.

Nonostante il meridione sia identificato, studiato, e valorizzato secondo protocolli di ricerca in campo, Abitativo, Ambientale, Economico, Fluviale, Linguistico, Paesaggistico, Sociale, ed Estrattivo, poi sottoposti al vaglio di  commissioni multidisciplinari, è spontaneo chiedere perche i presidi preposti al rispetto di ciò non hanno fatto nulla quando si è trattato della la regione storica e i suoi cento agglomerati urbani?

Cosa non ha funzionato per la Regione Storica Diffusa Arbëreshë, comunemente denominata Arberia, nonostante essa contenesse tutti i temi su citati, per i quali il disciplinare era già stato adottato in diversi casi del passato e nella piena emergenza del dopo guerra?

Parliamo comunque di un’insieme diffuso all’interno del bacino del mediterraneo, unico e irripetibili, alla cui ricerca solo l’impegno e il sacrificio di privati, fortemente boicottati e denigrati (cui va aggiunto il sacrificio di lacrime di  sangue e sudore) ha saputo rispondere.

Solo questi valorosi e unici ricercatori hanno seguito il protocollo di ricerca, come qui elencato:

  • Storia degli stradioti e l’impero con capitale Costantinopoli;
  • Storia dell’Epiro vecchia e dell’Epiro nuova, i Kalaber, poi Arbanon e oggi Arbëreshë;
  • L’ambiente geografico di residenza storica e di nuovo insediamento;
  • L’ambiente Naturale parallelo ritrovato;
  • Il sud, la storia, le inquietudini economiche e sociali;
  • Vita della comunità- inchiesta e approfondimenti etnologica;
  • Saggio sulla demografia e l’igiene;
  • Saggio psicologico e attitudini;
  • Saggio sull’economia i processi e l’evoluzione;
  • Saggio sulla struttura urbana, medioevo, rinascimento e illuminismo;
  • Saggio sull’assistenza sociale e religiosa;
  • Tavole cartografiche e bibliografia generale;

Alla  luce di questi indispensabili adempimenti com’è possibile che ancora oggi si preferisca inseguire meteore spente che hanno terminato la luminescenza, come l’attenta madre natura dispone.

Ciò nonostante si diffondono eventi con indicatore, la Gliugà, lu Tagliuru, la Dromsa, il Piretto, Le Vaglie, le Mendule, o addirittura si ricostruiscono paesi senza sapere di cosa si parli, riversando eventi materiali ed immateriali come se fossero qualità di vino denominati Rione della Mula, Vicinato del Catanzarese, Quartiere rosso o Borgo bianco del Pollino, in tutto, amalgama inebriante, vera e propria formula alchemica, senza radice.

Un sistema materiale ed immateriale, confezionato dalla nonna e consegnato il sacchetto, all’ignaro e stolto cliente, spiegava le istruzioni per la migliore efficacia del rito, come si fa oggi con i mobili di IKEA per montarli correttamente.

Figli Arbër non sono certo quanti cantano e ballano ritmi estranei o non conoscono il senso delle cose finendo per cantare “stella bella” innanzi a Santo Protettore (?????).

È appena terminato il giubileo senza che nessuno abbia raggiunto in ginocchio il paese dove, per l’identità storica civile e clericale, il Vescovo Bugliari venne ripetutamente accoltellare, perdonando i suoi carnefici, se terminato il mandato davano fine alla devastazione del paese.

Nessuno è stato mai illuminato dall’idea di una beatificazione; questa però non deve interessare per imposizione, noi che “viviamo a Napoli e badiamo alle nostre cose”.

Quando esposto, vuole essere un ritratto della “vostra Arberia” quella del consumismo e delle meteore, diversamente da come la intendono gli altri e per altri mi riferisco a quanti vivono nei radicati cinque sensi, tipici della famiglia allargata, quelli che sanno, parlano e preferiscono: “Rashët  Thë Motitë Arbëreshë”.

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DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

Posted on 17 aprile 2020 by admin

DA STATO A MANXANAaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La Kaliva dal XIII al XVII secolo, divenne la culla in cui la famiglia allargata arbëreshë, depositò le proprie radici e diede avvio al processo di frammentazione familiare per affrontare le nuove disposizioni economico e sociale, più consone nel modello di  famiglia urbana.

Il modulo abitativo di base, rappresenta, per questo, lo scrigno in cui vennero, riversate tradizione, idioma e metrica canora, i le radici attraverso le quale e per delle quali riconoscersi, senza mai perdere la memoria del  nell’originario gruppo allargato.

L’insieme aggregativo di questi elementi monocellulari in aderenza, con annesso spazio delimitato da siepe, determina la formazione dei centri storici diffusi Arbëreshë.

L’insieme o meglio l’isola edilizia, è la naturale fonte, nella quale attingere, perennemente, cosa abbia reso possibile lo sviluppa del  “rione rurale” o gruppo di moduli abitativi accostati secondo l’orografia da rispettare e nel contempo far nascere “ il focus” identitario.

Lo spazio circoscritto e occupato, risulta essere, vero e proprio stato in miniatura, all’interno del quale il gruppo familiare allargato, detiene il pieno controllo, sono proprio questi spazi delimitati ad assumere la traccia  indelebile ancora oggi individuabili, in quanto, sono stati rispettati, dalle generazioni che seguirono nel corso dei secoli, gli originari confini ereditati.

Sono questi complessi edilizi, senza soluzione di continuità muraria, a tracciare le fondamenta su cui gli esuli trovarono ispirazione per dare volume al tracciato di siepe, aggiungendo poi, gli apparati per il disimpegno altimetrico nel corso dei secoli.

I centri antichi, con questi elementi caratteristici, definiti agglomerati urbani diffusi, furono realizzati e prevalentemente abitati da esuli Arbanon; essi  rappresentano il racconto della storia, secondo un consuetudinario che non usa alcun tipo di forma scritta e per questo, restano e sono, documenti stesi al sole, dai tempi in cui il focus, venne delimitato dalla siepe, quel segno indelebile tracciato dalla famiglia allargata arbëreshë.

Dal XIII secolo, ha inizio un percorso articolato e colmo di esperimenti edificatori, spesso finiti in tragedie, per eventi naturali e indotti, comunque ogni volta caparbiamente ricostruiti, con nuova esperienza di meccanismi più sicuri.

È dalla fine  del seicento, che diventano forme edilizie sicure e non più labi, identificati come” Manzana” in arbëreshë, comunemente denominati “isolati” dagli indigeni.

Nel caso dei paesi della fascia mediterranea studio di oggetto, non nascono come veri e propri isolati edilizi ma un insieme di spazio costruito e spazio naturale aperto, quest’ultimo inteso come pertinenza indispensabile, giacché, considerata come la farmacia di casa, l’orto botanico.

Un insieme di elevati edilizio composta da più cellule raccolte secondo un sistema articolato aperto, distribuito su di un’area, le cui caratteristiche si possono definire parallele, giacché, hanno sempre le medesime radici geologiche, direttamente legate all’esposizione solare ed eolica.

La cellula tipo è radicata al processo di colonizzazione  della  campagna  dopo  l’anno  mille  e  alle  autonomie comunali.  

L’influsso della cultura architettonica urbana sul modulo originario si manifesta nel  campo delle  tecniche costruttive generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, delle celle monastiche come per certi versi avviene nei nuclei che caratterizzano le aree di insediamento.

Generalmente quelle degli esuli non sono mai regolari, in quanto, non usufruiscono di grosse aree , né si producono opere per ottenerli, questo spiega pure in nome che è attribuito all’isola: manzana

Essa non è altro che il tipico contenitore dell’acqua potabile e come quest’ultima assume le forme dell’oggetto, lo spazio che la contiene, anche l’insieme dei moduli abitativi in funzione delle superfici su cui vengono allocati si modella in diversificate forme pur avendo lo stesso modulo di base.

Ma manzana ha origine nel focus, dove si insedia la famiglia allargata; si articola attorno ad essa con gli spazi aperti definita dal recinto o stato, questo destinato alla lavorazione dei prodotti locali o di spagliatura dei prodotti agricoli, quali la canapa, le noci, le mele e così via, al deposito degli attrezzi agricoli, e spazio diffuso degli animali domestici, quali galline e l’immancabile capra della Mursia.

Il modulo si sviluppa prima a piano terra al cui interno è ubicato il focolaio, una serie di giacigli lungo le pareti, mentre al centro, padroneggia il tavolo che ha funzione di tavolo da lavoro, mensa e il luogo, “proto industriale” dei prodotti per la conservazione.

Uno spazio interno caratteristico delle costruzioni rurali, forza economica e sociale indispensabile, attraverso il quale prolifera e crescere la famiglie allargate arbëreshë, in tutto, il detto “luogo”.

Questo è lo spazio condominiale dove le famiglie si riunisce e divide senza discussioni, è il capo famiglia che decide assieme alla consorte senza pregiudizi o favoritismo, per i beni di comodo che per i ruoli assegnati non producevano alcun attrito trasversale.

Davanti all’uscio di casa un sedile rappresentava il luogo di aggregazione all’aperto il trono pubblico del capo famiglia, esso era per lo più fatto di pietre rifinito con impasto idraulico, con tetto spiovente sono i moduli abitativi ,non avevano pavimentazione in quanto i calcari sciolti una volta livellati avevano la giusta durezza e durevolezza, in un secondo momento negli spazi di risulta in fondo alla stanza, per la pendenza del tetto, indispensabile del deflusso delle acque meteoriche,  si ricavava una sorta di soppalco che serviva o da dispensa o si realizzavano giacigli per i più giovani del gruppo.

Ma il luogo aperto era anche la Gjitonia, c il luogo di ricerca del originario ceppo, che viene sottoposto alla prova dei cinque sensi, la stessa che consente di condividere lavoro, patimenti, preghiere e operato.

Tale tipo di urbanistica e architettura rurale la troviamo sparsa in modo diffuso e precisamente identico nel territori di tutta la regione storica o aree rurali dove vissero i profughi arbëreshë.

Il fenomeno di raggruppamenti diffusi agresti, di origine tardo medievale, dipendeva anche dal fatto che consentiva di sfuggire al rischio di esposizione, alla malaria, cui erano penalizzati quanti vivevano dentro le mirazioni  dei borghi.

Il vivere fuori dalle murazioni, a debita distanza dai luoghi mercatali, vicini ad una chiesa, un monastero, un castello o arteria stradale principale, consentiva di proteggersi dai pericolosi nemici invisibili e anche visibili.

Una diversa distribuzione degli insediamenti dava origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolare buio del Medioevo.

Definito lo spazio abitativo, la Kaliva, riconosciuti i valori mercatali, per accedere definire gli scambi, secondo la Bagliva o Baliva, gli arbëreshë iniziarono il duro percorso di integrazione, alcune volte seguendo le regole altre volte meno, comunque con i primi due adempimenti acquisiti avevano preso consapevolezza che la terra ritrovata aveva regole precise e andavano rispettate e seguite.

Il nuovo indicatore della cultura architettonica e urbana si manifesta nel campo delle  tecniche  costruttive  generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, anche del borgo, che comunque rappresenta un modello di ispirazione.

Nascono per questo con l’andare del tempo le scale esterne, il portico, la loggia, cioè tutta quella volumetria architettonica che si aggiunge al nucleo originario e si sviluppa in altezza quando lo stato recinto non ha più spazio da offrire, fe prende corpo il complesso architettonico delle case con profferlo.

È anche da questi modelli antichi sommati a disposizioni post terremoto del 1783 che prende spunto l’edificare palazzotti padronali, dal decennio francese, ma questo è un periodo particolare e ha bisogni di anticipazioni e premesse più articolate e di altra natura e radice.

P.S. nell’immagine la mensa ponderale del Regno di Napoli, manca l’asta dei pollici, murata dalla curia napoletana, in un sito poco distante.

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Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni.

Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni.

Posted on 15 aprile 2020 by admin

Gianni BelusciRegione Storica Arbëreshë (di Alessandro Rennis) 

 

Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni. 

Professore di alto profilo culturale, ricercatore e studioso di “Fonetica sperimentale applicata” presso l’Università della Calabria , arbëreshë originario di San Basile, in questa Pasqua di Resurrezione lascia la vita terrena e vola verso l’Eterno l’amico Gianni Belluscio,  nel compianto di quanti ne hanno apprezzato la  operosa attività e hanno potuto godere della sua amicizia. A sua perenne memoria,  quale persona gentile e sempre affettuosa, noi arbëresh lo accompagniamo  con un accorato addio, ben riassunto dai versi….

Ho vissuto un Dio, ho visto degli uomini

e i miei occhi non si cercano nemmeno più.

Ieri sono andato sulla montagna che abitò la luna

e sono tornato con il cuore colmo di tristezza

Non mi restano più che un ricordo e una chitarra infranta

Un salice piangente si spoglia e mi veste di lacrime

Cosa c’è di più triste al mondo che partire senza cantare? ( J. P. Duprey)

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POSHËTË, DRELIARTË, KA, THË, JASHËT, MBRËNDÀ, PRAPA, PËR PARA. (Santa Sofia: i luoghi, la storia)

POSHËTË, DRELIARTË, KA, THË, JASHËT, MBRËNDÀ, PRAPA, PËR PARA. (Santa Sofia: i luoghi, la storia)

Posted on 14 aprile 2020 by admin

Aglomerati primariNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il panorama urbano dei paesi della Regione storica Arbëreshë, fa riferimento a canoni delle città aperte, rinnovando i vetusti modelli medievali e per questo sono da ritenere come i pionieri per la convivenza, in età moderna, tra uomo e natura.

È con le  migrazioni dai Balcani dal XIII secolo, che nasce un nuovo strumento culturale, sociale ed economico capace di esprimere oltre che a soddisfare localmente, esigenze del vivere a stretto contatto con la natura.

Tutto è architettato, predisponendo e coordinando il luogo, nel pieno rispetto delle opportunità storiche, ambientali, sociali ed economiche.

L’azione degli arbëreshë, nello specifico, fece emergere le potenzialità del ”focus”, il luogo, esaltando le garanzie predisposte dai nuovi signori, in quelle posizioni già note agli esuli, a proposito dell’ambiente.

Un flusso di uomini e competenze di convivenza con il territorio naturale, trovò nel focus, organizzando gli ambiti, secondo arti, mestieri, omogeneità, che solo quanti erano legati alle consuetudini oralmente tramandate, sapevano le terre per trarre il maggior vantaggio, dall’ambiente in cui s’insediavano.

Territori paralleli della terra d’origine ricercate bonificate e vissute, al fine di innalzare idonei presupposti nel pieno rispetto del focus riconosciuto.

Se al tempo degli indigeni locali le stesse terre aveva avuto un mediocre rilievo, conseguito in funzione di limitati impegni racchiusi tutti e unicamente nell’interesse per lo sfruttamento agricolo e per l’uso come residenza personale, distanziando le due esigenze; con l’avvento degli arbëreshë l’impulso è diverso sia dal punto di vista organizzativo e sia per la ritrovata forma territoriale dove depositare le radici culturali, politiche ed economiche.

Allo scopo si vogliono evidenziare attraverso l’odonomastica del popolo, ancora memoria viva (inconscia), e attraverso di essa individuare come l’iniziale e semplice focus  sia stato trasformato nella contea di vaglio ancor oggi presente.

Seppure e riconoscere con amarezza che, mutatis mutandis, vale sostanzialmente anche per Santa Sofia la constatazione che : “Non  esiste città borgo e luogo costruito, che non abbia  adottato,  come  accompagnamento  alle  “escrescenze  caotiche”,  la  distruzione sistematica dei suoi caratteri di facile comprensione.

È per questo che adoperarsi a predisporre l’indagine odonomastica si segnare il modo in cui è nato e si è modellato “l’agglomerato diffuso di Santa Sofia”, ben consapevoli che univocamente e parimente non saranno scontate e le risposte, ma l’impegno e soprattutto sacrificio di ricerca renderà merito alla giustificazione dei toponimi.

Seguire e ricostruire le linee secondo cui  gli originari casali hanno sviluppo il modello, il fuoco diffuso, da cui è in seguito sono sbocciate le tipologie della propria radice storica.

Escono quale risultato indelebile e preciso da tale operazione:  i criteri in base ai quali il centro antico fu edificata, sia sfruttando le caratteristiche naturali del terreno sulla traccia dei camminamenti storici, nelle prossimità dei quali elevare e circoscrivere gli spazi indispensabili.

La regione circoscritta del recinto inteso come Mbrëndà e Jashët è andato configurandosi da spazio libero e non coperto, fino agli innalzati edilizi, disegnando così la pianta urbana che conosciamo.

Nel disegno di origine, rilevanza particolare è affidata all’arteria  Starada Grande (huda made); in quanto essa richiamare alla memoria l’azione  promozionale capace di innescare le varie attività artigianali  e  svolgere  la  funzione  di competenza da cui dipartire vicoli, elevati e piazze, il nettare primordiale  dell’assetto, urbanistico  diffuso, l’anima pulsante in cui conversono gli ingredienti dall’integrazione di esuli con gli indigeni.

Alla storia contribuiscono a dare forma non solo le vicende umane, ma anche gli spazi in cui quelle avvengono, per questo, nelle vie, strade, violi e sheshi, la storia lascia indelebilmente tracce della sua memoria e delle azioni.

Molti toponimi sono scomparsi, di essi si è persa anche la documentazione d’archivio, spezzando così la memoria di una cultura locale colma di significati preziosi, con molta probabilità gli unici in grado di dare  senso  alla  definizione  dell’immagine storica specie se vuole essere espressa in chiave etnica.

Tuttavia avendo ben chiari i riferimenti linguistici e la conformazione geologica e orografica degli ambiti addomesticati per essere vissuti, apre versanti di ricerca molto ampi pieni di momenti suggestivi.

Sicuramente le testimonianze di vita, come si è detto, della fisionomia  urbanistica del passato  possono  essere andati persi, ma rileggendo le tracce degli elevati murari e la loro consistenza materica si possono  recuperare,  rileggendo,  con  ispirazione motivata dalla ricerca; compulsando e rileggendo secondo l’antico idioma antichi riferiti sia in forma clericale o esperimenti di metrica canora abbarbicati ancora al tempo di edificazione.

Oggi nella memoria territoriale rimangono tracce dei materiali e toponimi dell’epoca  Huda Stangoitë, Ka rin reljeth, Kisha Vieter, Kambanari, essi segnano indelebilmente azzioni naturali o indotte che hanno caratterizzato lo scorrere del tempo.

Altre invece, recano le nuove denominazioni cambiate sotto la spinta di noti eventi storici, come personaggi di partito politico che non hanno nulla a che vedere con la storia di quegli ambiti, che in alcuni casi non lasciano neanche sulle lapidi la memoria di un tempo, sostenendo esclusivamente  l’informazione   usurpatrice , come a voler  nascondendola colori intensi con pastelli sbiaditi di di rotacismo analfabetici.

Essi non sono altro che un retaggio di antichi aspetti sociali della convivenza nello spazio cittadino è nascosto nella memoria, di pochissimi anziani e sta a noi attenti interpreti indirizzare il giusto valore alla nota o frammento di essa.                                                                                                                                                

Sia all’epoca di insediamento e poi subito dopo durante il confronto s’individuavano i luoghi con riferimento a episodio architettonici o di frammentazione di residenze dismesse o noto quali: la chiesa, il luogo di arrivo o il luogo promontorio;  oltre  a  particolari  pittorici,  della  devozione popolare icone oluoghi di culto in generale; elementi naturali come il pennino/pendino o/e indotte come frane, Kambanari.

Dopo i primi riconoscimenti caratteristici, segue lo sviluppo urbano e la diffusa possibilità di elevare moduli abitativi in muratura si definirono Sheshi, Rugha, Huda, assoggettando luoghi identificativi della famiglia insediata o particolari confini, come Prati o Kanlhë.

In origine era la strada stretta e articolata (Rugatë),  sulle di cui quinte si  aprivano gli usci delle case e le tipiche finestre di controllo, cosi come alcuni moduli non abitativi con attività artigianali indispensabili alle consuetudini dei componenti il rione, identificato con il suffisso “Ka”. 

La denominazione aveva origine dalle attività che si praticavano, dall’identificativo del luogo o dalla particolare categoria di persone in essa residenti (nomadi, indigeni o comunque provenienti da altri agglomerati urbani).

Nei meriti identificativi di quest’ultima categoria una nota più dettagliata va fatta, anche se comunemente si dice che la storia, “si fa solo con i documenti o in base alle testimonianze corroborate”, va fatta per tutte quelle residenze allocate a nord e a sud del “vico stella” e quindi non documentate ma notoriamente stese al sole.

Queste  abitazioni erano tutte appellate con i nomi dei paesi di provenienza dei residenti; persino la strada che delimitava l’urbe dalla campagna era denominata come: “limite dei latini”.

A completamento di questo spunto, mi pare opportuno sottolineare, l’origine del  termine  “Trapesë”  che secondo alcuni vuole indicare, il piano, tavola malsana o terreno  paludoso, tralasciando il dato storico locale che il “trappeso” è anche un’unità di misura di piccole quantità.

Non di metalli nobili quali l’oro o l’argento, li mai estratti, ma in conformità a luogo in cui le genti povere, attendevano il riversare delle poche resta della mensa arcivescovile che li rimetteva i resti della mensa.

Questa e altri toponimi, quali: Uda Ka Sanesh, Kar karegleth, Kamorchiaveshët, Ka mbanari, Shighëata, shesi Ku arvomi e altri, se opportunamente indagati e confrontati, con la storia locale sono in grado di fornire l’itinerario di sviluppo del centro antico, a cui tutto si può  accreditare ma non comunemente annoverare come Borgo Medioevale.

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QUESTO È IL TEMPO CHE IMPERTERRITO SCORRE PER LAPIDARE

QUESTO È IL TEMPO CHE IMPERTERRITO SCORRE PER LAPIDARE

Posted on 04 aprile 2020 by admin

Lapidazione20201NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – In questo breve si vuole porre l’attenzione verso l’autunno che non smette di terminare e adombra un numero considerevole di Katundë, specie in perdita di riferimenti urbanistici e architettonici, non adottando nessuna forma di  tutela, specie nella metrica degli adempimento progettuali, sia in forma pubblica e sia privata.

A tale proposito si vogliono trattare i motivi perché siano state preferite le vesti tipiche già esistenti a breve distanza dal centro, “imponendo”, sia in forma di aspetto, sia in mutazione cromatica, e sia di forza meccanica, le “volgarmente denominate Beole”.

Sarà impresa ardua, comprendere quali siano stati i dettami storico-progettuali, fiore all’occhiello, della spaccatura tra passato, presente e futuro; la stessa che ha disgregato ambiente naturale, costruito, in tutto le armonie che acuminavano gli uomini delle terre antiche dette Ka Laberi.

Identificare i pensatori erranti, gli ironici giullari, gli ignari esecutori, e gli accatastatori del “Patimenti Vulcanici”, fuori da ogni regole dell’anomala lamia; tuttavia essa si può riassumere in evento di “foglie in autunno”.

Aggredire il “Centro Antico”, con “piccone, pala e vecchie carriole” è stato come coprire gli ambiti violati con le foglie secche; agli osservatori inermi e inascoltati, non rimane altro che attendere, come accade alle anime in pena o foglie in autunno il vento.

Il risultato: un freddo e asettico scenario dove non si colgono più gli aspetti che definivano le gjitonie, (luogo dei “cinque sensi”, il riecheggiare che si è modificato, la rifrazione della luce in tutto manca il senso di stare a casa propria.

Il centro abitato un tempo parzialmente lastricato: secondo esigenze che soddisfacevano il connubio tra uomo e natura, evincono quali fossero lastricate e perché, diversamente da quelle lasciate secondo l’aspetto naturale, in base alluso in funzione degli eventi meteorici.

Selciati in pietra di cava locale dalle forme irregolari erano adagiati, su cuscinetti di terreno vegetale misto a sabbia; livellate mediante la percussione; appena data regola alla superficie, venivano ricoperti gli interstizi con terra fine, così le superfici più esposte all’ erosione erano pronte ad affrontare le intemperie, preservando un piano idonea calpestabile per agli uomini e rotabile.

Erano tante anche le scalinate con gradini dilatati ben distante tra di loro, che caratterizzavano percorsi più impervi, al fine di consentire l’uso con animali da soma o percorribili apiedi.

Se i “progettisti pensatori” avessero avuto adeguata conoscenza del territorio, avrebbero dovuto avere consapevolezza che ogni luogo ha e difende memoria, religiosa, sociale e culturale, dove gli uomini riconoscono se stessi e il gruppo gjitonale, cui appartengono.

Le piazzette, “sheshi”, le strade “uhdetë”, i vicoli “rrùgat”, i cerchi concentrici del nucleo ideali detta gjitonia; cosi come i quattro cantoni dividendi, questo storico Katundë, notoriamente riconosciuti come: il Superiore “Drelarti”, l’Inferiore “Drehjimi”, dividendi ulteriormente e trasversalmente dalle due fontane storiche, rendevano limpida e chiara, come le loro acque, la lettura del paese individuando sin anche il suo fulcro ideale di primo insediamento di approdo degli Arbëreshë.

Ridurre tutto a un semplice articolo, ha penalizzato è smarrito il senso storico dei piccoli centri antichi; le forme esili e monocromatiche delle beole, riducono in solitari elementi, la radice caratteristica degli ambiti che sei secoli di storia avevano solidarizzato.

Non vorrei aprire trattato sulle vie storiche del centro antico, anche se una parola di accenno vada  sulla strada detta “Limite dei latini”, (Limë litirë) questa in specie tra dispetti dinastici, e conquiste di potere ha spento una traccia storica di inestimabile valore, un frammento di storia irripetibile a cui oggi con la memoria ancora viva si potrebbe porre rimesio e lasciare almeno il segno di quel confine.

Terminerei con l’accennare della piazza  il luogo della battaglia finale o meglio il luogo della disfatta stesa al sole ancor oggi visibile e delle cui linee non si comprende da dove vengono e dove vogliono portare.

Senza consapevolezza è stato preferito generare linee, queste non contemplano in alcun modo una direttrice cui si può ipotizzare senso, se non quello si ignoto allo stato puro.

Si è tracciato un’asse in marmo bianco (quello che si usa nelle abitazioni popolari per le soglie delle finestre) annegato nella pavimentazione definendo l’asse stradale provinciale che per lo scorrere di veicoli di ogni genere si sono ben presto sgretolati; se a questo si aggiunge un ingombrante manufatto ottagonale(??????) (di li a poco rimossa appena il ricordo ha illuminato i posatori ) che proprio li in quel luogo da decenni aveva luogo ideale la manifestazione storica che ricorda l’inizio della stagione estiva della minoranza arbëreshë.

L’auspicio che tutti noi di buon sensi ci auguriamo è che al più presto questa lapidazione anomala sia rimossa dai vertici istituzionali o per lo meno nel breve si due legislature sia integrata e caratterizzata, non con diademi di aquile a due teste ne con lampieri, serve buon senso e conoscenza storica per dilavare tutte le cose inutili e ripristinale gli equilibri altimetrici e quelli cromatici, in grado di restituire il valore storico di ogni specifico anfratto.

Non servono Tecnici che vanno con Acacie legate al guinzagli per applicarle magari sul tetto della chiesa o sopra i profferli e fare giardini verticali a modo del “Bovario” o del “Clatrasa” di turno, con piante e fili di ferro, vogliono cambiare il senso sin anche dei balconi a modo di tirantati.

Allo stato delle cose urge ridare la dignità agli spazi, al costruito per garantire la fruibilità più consona alle persone che vivono, per fornire gli elementi idonei, in linea con quanto ereditato e renderlo  riconoscibile alle nuove generazioni; il bagaglio storico-culturale giunto con rigida continuità prima dell’intervento di vestizione fuori dal tempo e dal luogo.

L’identità di ogni popolo si conserva nel tempo, mantenendo immutato il senso globale delle cose, così come impongono le carte storiche del restauro e la conservazione, non solo le tradizioni, gli usi e i costumi, ma anche il senso del luogo, partecipa a rendere  caratteristico e genera i cinque sensi, quelli unici, capaci e in grado di riportarti a casa.

Tutto ciò che ci circonda, tutto ciò che ci accompagna nel nostro vivere quotidiano diventa una testimonianza della nostra stessa esistenza, ragion per la quale, chi si pone e promette di sostenerli e difenderli, ha il dovere di trasmettere alle generazioni future, così come le precedenti hanno, ( almeno sino agli anni sessanta del secolo scorso).

La memoria non deve andare troppo indietro nel tempo per riportarti nelle regole del tempo; vicoli i vicoli e le strade o le piazze, se non ti fanno avvertire le sensazione che il tempo conserva per te, di quale centro antico stiamo trattando? Non è che si vogliono vivere le epoche di un tempo ma almeno l’essenza cromatica e dell’uso dei materiali deve avere rispetto del luogo; oggi queste sensazioni non si riescono più a provare e neanche hanno i requisiti minimali per dare spunto all’immaginario.

Tutto il centro storico è invaso da una cementificazione verticale ed orizzontale senza rispetto, neanche verso le vegetazioni, sostituiti da gli illusori cromatismi di narranti murales o pigmentazioni delle quinte architettoniche a dir poco grottesche.

Non ultimo, ritengo si a il caso di soffermarsi, e porre l’accento sulle anomale  e indegne ristrutturazioni o edificati edilizi di nuova costruzione che dagli anni sessanta del secolo sorso interessano i centri sstorici senza alcuna adeguatezza strutturale e geologica.

Tipiche e costantemente utilizzate sono gli elementi strutturali moderni su murazioni di materiali di spogliatura risalenti al XVII secolo, questi in specie senza i minimali requisiti di indagare strutturale e di risposta del terreno sottostante.

Questi temi oltremodo interessano i centri antichi in forma strutturale e le aree di espansione in forma  geologica, in tutto rappresentano pericolose carenze strutturale e geologico senza eguali, sicuramente quando succederà non saranno in grado di rispondere ad eventuali, che si augura non abbiano mai luogo.

Invece di fare restauro conservativo finalizzati a restituire dignità formale e funzionale, si è preferito seguire la via del razionalismo abitativo moderno, figlio dell’inurbamento selvaggio, poi è legittimo chiedersi per quale fine se questi luoghi ameni non hanno partecipato alla nascita di modelli riconducibili all’industria.

Lo sforzo progettuale a dir poco inadeguato, denota l’errore di pensiero, fuori da ogni logica che vuole mantenere costante il rapporto tra ambiente naturale, costruito ed esigenza di quanti vi abitano.

La conservazione e la caratterizzazione sono gli elementi “scapestrati” con cui si è voluto trattare gli ambiti del centro storico che ha dato forma a questi luoghi, d’altronde come potevano “ gli operatori” se non consapevoli dei canoni dell’urbanistica romana e di quella greca; le sorgenti da cui gli arbëreshë attinsero, quando ancora s’identificavano “Ka Laberi, Arbëri o Arbanon”.

L’auspicio è di sensibilizzare le coscienze tutte, affinché si possa recuperare il senso e dare la dignità a quegli spazi e continuare a fornire alle nuove generazioni oltre che nozioni precise, anche luoghi dove stenderle al sole senza vergognarsi o essere scambiati per altro.

L’identità di ogni popolo si conserva nel tempo mantenendo integri non solo le tradizioni, gli usi e costumi, ma anche rispettando il senso dei luoghi, mante­nendone l’assetto formale, cromatico e di riverberazione dei sensi.

Tutto ciò che ci circonda, deve essere in grado di sostenere i nostri valori identitari, a cosa serve saper sinteticamente parlare, cantare e ballare o rievocare sacre processioni se poi gli scenari e il riecheggiare dei nostri atteggiamenti non segna e riverbera con senso finito la continuità del valore storico?

Quanti si pongono ai vertici e promettono futuri in linea con il passato, come possono farlo se sono soli e non conoscono nulla di quanto promesso?

Eppure si elevano a buoni tutori di un’identità che per trasmetterla è molto difficile: non basta vestire in stolje e stendere a terra il gonfalone per segnare luoghi; questo simbolismo è tipico di chi in suo ricordo lascia li depositano un segno di croce magari scolpita su di una “Beola”.

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IL BANDITORE (Giugno 2008) SUPPLICA

IL BANDITORE (Giugno 2008) SUPPLICA

Posted on 31 marzo 2020 by admin

IMG_2Santa Sofia d’Epiro (CS) (Redazione il Banditore, Giugno 2008) –  Negli ultimi decenni l’insieme inscindi­bile di natura e storia esistente all’interno delle comunità arbëreshë, ha subito un degrado senza prece­denti e va costantemente monitorato per evitare uno scontato destino.

La speculazione edilizia ha invaso memorie storiche e luoghi naturali; il territorio è stato aggredito nella sua morfologia e nella sua estetica.

Tutto ciò aggravato ed amplificato da un altro fattore altrettanto determinante (e forse anche più pericoloso): la caduta della qualità.

L’abusivismo è non tanto la causa, bensì la più consistente conseguenza di un decadimento del pensare e del progettare e, vorrei aggiungere, del comportamento “sociale”.

Un diverso governo del territorio potrà consentire di contrastare tale decadi­mento se non, addirittura, di recuperame gli effetti negativi.

Occorrerà ricostruire una sensibilità paesaggisti­ca che mantenga la continuità culturale delle preesistenze nell’attuale vita sociale ed economica di quei luoghi .

Tutto ciò, rivalutando lo stretto rapporto tra natura e sito in considerazione, anche, delle compa­tibilità economiche e sociali dei luoghi.

L’urbanistica non dovrà esprimersi in forma concettuale ed autonoma ma dovrà invece basarsi tanto sulle attuali esigenze quanto sul patrimonio culturale di quei luoghi Governare il territorio vuol dire indirizzare lo sviluppo, garantirne la qualità nella continuità con il passato.

Tale intento non dovrà pretendere di conservare immutabil­mente i luoghi e l’ambiente, quand’anche suggestivi, ameni, ricchi di storia e d’arte; dovrà invece consentirne la compatibilità con i naturali, continui ed inesauribili fenomeni evolutivi sociali.

I centri abitati arbëreshë, devono fare del passato, riuscendo ad aggiungere a questo, i “nuovi episodi” di una storia che si intende proseguire; ciò in delicata armonia, senza traumi o strappi e non congelandolo in una icona.

Programmare lo sviluppo è l’unico modo per evitare delle modifi­cazioni incontrollate.

Per amministra­re un territorio occorre una profon­da conoscenza della storia, sensibi­lità e capacità manageriali; occorre agire in simbiosi tra conservazione e innovazione, essere artefici di una riscrittura della scena nel più profondo rispetto del passato, saper attraversa­re i livelli intrecciati della forma storica o dell’ambiente in un’illuminante e innovativa spazialità.

Da ciò la necessità di porre in simbiosi le istanze della conservazione e quelle dell’innovazione, la realizzazione di immagini di grafici e testi dell’architet­tura urbana e rurale delle comunità arbëreshë, ove avvalendosi, della catalogazione degli elementi architet­tonici primari che caratterizzano i luoghi oggetto di studio, il rapporto tra ambiente costruito ed ambiente naturale.

La comunità arbëreshë ha conservato per molto tempo la sua identità, ma negli ultimi decenni, ha fatto si che i tipi architettonici ed urbanistici che la caratterizzavano siano andati costantemente e irreversibilmente perduti.

Considerando che la conservazione, la catalogazione degli elementi architettonici, non sono state oggetto di culto ne dal privato che dal pubblico, il fine potrebbe essere appunto, quello di allestire un Archivio e non solo riferito asetticamente alle modalità della tecnica costruttiva, ma rivolto a raccogliere, pure negli omoge­nei modi della modernità, quelle possibili tipizzazioni attraverso cui ricostruire i lineamenti specifici dei luoghi.

Arch. Atanasio Pizzi

www. a tanasiopìzzi. it

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LA STORIA DI SANTA SOFIA D’EPIRO Thë shëcuràt e Shen Sofisë

LA STORIA DI SANTA SOFIA D’EPIRO Thë shëcuràt e Shen Sofisë

Posted on 30 marzo 2020 by admin

Santa Sofia StoriaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi ) –  Premessa:

 Sono innumerevoli le illustrazioni atipiche con protagonisti gli agglomerati bonificati, ripopolati e vissuti delle genti di origine Arbanon; oggi identificati all’interno della Regione storica diffusa, come Arbëreshë.

Una popolazione “unica e irripetibile”, protagonista nel palcoscenici del vecchio continente nei territori, in dettaglio, del bacino mediterraneo, circondati o prospicienti i mari Adriatico, Jonio e Tirreno.

Natii delle terre, un tempo, dell’Epiro vecchia e dell’Epiro nuova, oggi del Meridione peninsulare e insulare italiano; storicamente sono ritenuti quale caparbio esempio dinastico, ancora oggi, capace di tramandare i proprio valori culturali e identitari in sola forma “Orale”.

Dal XIII secolo in diverse forme e metodiche a dir poco comuni, si è ostinatamente voluto imporre alle popolazioni oggi identificate come Arbëreshë, una forma scritta.

Una necessità che mai alcun individuo facente parte la minoranza, ha richiesto, lamentato o ritenuto indispensabile, ma arbitrariamente imposto, “dalle altrui genti”, secondo metriche, disciplinari alfabetari a dir poco bizzarri e comunemente applicati.

L’errore è vistoso, grossolano e paradossale: in quanto mirava a voler valorizzare la radice orale, affiancando o attribuendole una improbabile forma scritta con annesso manuale d’uso.

 Con ciò si è creato un codice metrico irripetibile, producendo un deriva di valori identitari che rifiuta categoricamente le attribuzioni associate e rese nude, senza vesti quelle intimità della minoranza, una veste pudica senza eguali.

L’incauto procedimento, ha prodotto uno strappo tra generazioni, incalcolabile e senza eguali, cui la regione storica diffusa arbëreshë, quella ancora incontaminata, non sa come arginare con adeguati mezzi, la perdita dell’antico codice.

Non si riesce ancora oggi a dare senso a quali siano state le vere ragioni secondo cui si è voluta infliggere tale pena alle genti Arbëreshë.

Atteggiamenti senza accortezza indirizzarono presunti ricercatori, tutti uniformati secondo due caratteristiche fondamentali: non aver alcuna capacità espressiva e interpretativa dell’idioma; titoli non idonei per la ricerca in campo storico, metrico, sociale e delle arti verso gli uomini e i territorio dove il Genius Loci degli Arbëreshë, aveva germogliato.

Si è proceduti sin anche dopo aver impattato violentemente con i ricorsi storici, pur di emergere quali “idoli seriali di modelli ignoti”; capitoli di luoghi mai innalzati, e catasti privi di corrispondenza sul territorio, innestando quartieri, rioni, vicinato e Gjitonie come se fossero piante da frutto che dovevano infiorare a primavera.

Come se non bastasse, si è continuato nel tracciare i corsi, i ricorsi e gli avvenimenti della storia e cosa aveva caratterizzato solo alcuni uomini, dell’ambiente naturale Arbëreshë, ritenendoli esclusivamente come episodi circoscritti, sospesi, casuali o disconnessi e senza radice comune.

La formulazione del percorso che in questo discorso sugli Arbëreshë Sofioti si vuole percorrere, segue, come la professione di architetto impone, la metrica e l’entusiasmo delle antiche genti, al tempo in cui formularono richiesta ufficiale per edificare le proprie case con materiali duraturi.

Da questo momento in avanti non più con metodi estrattivi o naturali, attraverso l’uso di materiali deperibili quali: anfratti lungo corsi d’acqua, paglia, rami secchi e argilla esposta alle intemperie, in tutto, ogni cosa che non garantiva vita lunga e solidamente innestata nel territorio.

Nei primi anni del XVI secolo, dopo aver trascorso un breve periodo di confronto e scontro con le genti indigene, i Sofioti, riconosciuti gli ambiti paralleli della terra di origine, per innestare solidamente le proprie radici, ritennero indispensabile elevare e coprire con elementi solidi e duraturi, nei quali conservare e proteggere, dalle intemperie, la propria identità materiale e immateriale.

Che cosa poteva esse più solido di una casa, con elevati in pietra, calce e arena i cui orizzontamenti ordinavano verso l’ingresso, del modulo abitativo,  sovrastando il perimetro elevato con  solide travi, robusti panconcelli, su cui stendere manufatti in laterizio, da adesso in poi capace di risponde ad ogni tipo di avversità naturale o indotta.

A seguito della concessione di stanziamento, ebbe inizio la brillante storia di del casale, poi Katundë e oggi Santa Sofia d’Epiro, per non essere confuso con i comunemente denominati “Borghi”; da quel sette di settembre, del XV secolo in avanti, il centro avrà modo di rendere il suo straordinario valore, escludendo le vicende del agosto del 1806 e dell’ultimo quarto di secolo, che sono da considerare come veri e propri cataclismi da cui ancora oggi non si riesce ad emergere.

Sono molteplici i personaggi nati in quelle solide case, gli stessi che la pongono ai vertici della Regione storica diffusa arbëreshë; eccellenza dal punto di vista sociale, religioso, culturale, scientifico e di impegno per la tutela dell’identità, non  comunemente racchiusi nelle favole, giacché i Sofioti, i “loro valori culturali” sapevano come custodirli e a chi rivolgersi per riverberarli.

Sono gli stessi che in ogni epoca forniscono, quando avvertono che sia indispensabile, l’idoneo potenziale, sia in luce di idee, sia di uomini e di raffinata dedizione, non solo entro i perimetri delle loro case, ma attraverso il principio dei “cinque sensi” con cerchi concentrici invadono gjitonie, rioni, paesi macroaree e la regione storica diffusa Arbëreshë.

Un disciplinare antico, lo stesso che in genere avviene per le capitali, i luoghi di culto meta di fedeli, in tutto, le culle dove si cerca una ragione di vita o una via per ritrovare se stessi e gli altri.

 

XVsecolo:

 

Tra il 1464 e il 1472 due di cinque casali di Bisignano, posti a guardia del confine a est, dei territori della diocesi di Rossano, Santa Sofia Terra e Pedalati furono ripopolati da esuli della diaspora in atto negli anfratti dei Balcani.

Segue………..

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