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1799 – 2019 IL LUOGO IDEALE DOVE REPRIMERE IDEALI E PROGRAMMARE “VENTENNI”

1799 – 2019 IL LUOGO IDEALE DOVE REPRIMERE IDEALI E PROGRAMMARE “VENTENNI”

Posted on 25 novembre 2020 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal primo incontro nel suo centro culturale e poi durante le conversazioni telefoniche, Gerardo  M. e lo scrivente, erano in linea sul dato che: le conseguenze subite dai giovani pensatori del 1799, non erano riferite alla ribellione popolare, ma a una nuova linea di pensiero innovativo, che andava cancellata e non doveva lasciare traccia ereditaria.

Vero è che rileggendo la storia, annotando i particolari del disciplinare adottato, verso i giovani pensatori, emerge un dato inconfutabile, in altre parole, negli immediati momenti che seguivano l’arresto, si operava a distruggere libri editi e ogni sorta di documento scritto.

Ovvero, tutto ciò che poteva avere forma o consistenza di un discorso, erano distrutti perché considerati pericoloso, al pari, anzi peggio, di chi lo possedeva o lo aveva scritto, per questo era opportuno dare subito alle fiamme l’edito, per evitare che sfuggisse.

Solo dopo si passava al processo e al conseguente afforcamento in pubblico, mentre chi nel chiuso delle proprie case e quanti li davanti a guardare, non alzava un lamento di diniego, ne prima, ne durante e ne dopo l’esecuzione.

Le vicende di bruciare gli editi e poi eliminare fisicamente gli antagonisti reali proseguono anche fuori dagli ambiti della capitale partenopea dal giugno del 99 e per diversi anni, si racconta almeno più di cinque e meno di sette.

Le ideologie dei giovani pensatori furono soffocate e chi magari vigliaccamente le ha conservate, non avendo la cultura per comprenderne il significato, le ha usate in malo modo.

Tuttavia, la metodica di bruciare il pensiero e poi eliminare fisicamente i pensatori, è finita sin anche tra le pianure e gli anfratti del regno, senza mai terminare la sua corsa, rimanendo viva imperterrita e senza epoca.

Un esempio che conferma questa regola viene anche dagli anfratti delle colline arbëreshë, dove proprio allo scadere di quegli anni, per un millantato limite di proprietà fu soppresso un Bugliari.

Le vicende poi si accavallarono venne, l’unità, le guerre e il bum economico sino ai motti della rivoluzione giovanile.

E vista ancora la divisione sociale che aleggiava tra le colline anzidette, un comitato di affari in maniera perversa immaginò di porre guida un altro omonimo, con a cuore, non la coesione sociale, ma il buon termine della sua carriera.

Ragion per cui, lo scettro passo nelle mani di un comitato d’affari, che ritenere solamente senza cultura, garbo, dignità e onore è un eufemismo che non da misura del danno prodotto, perché, ebbe inizio la stagione della moderna metodica del 1799, sopprimere le idee degli altri e poi togliere beni e benefici gli antagonisti.

Questo penare senza soluzione di continuità andò avanti sino agli inizi degli anni ottanta, stranamente, giusto un ventennio, dove al posto della svastica era stata posta la falce e il martello; il primo per tagliare risorse agli antagonisti il secondo per fare male fisicamente.

Il ventennio trascorse con una piccola parte sociale che accumulava ricchezza, la plebe che si cibava di trapesi e gli antagonisti a penare immaginando un idolo giusto.

Vennero gli anni ottanta, e festa fu, ma Emilio, Atanasio e Carletto si resero conto solo dopo i dieci minuti che seguirono lo spoglio che il nuovo era cresciuto nello “sheshi” di chi avrebbe dovuto sostituire il comitato prima citato e così fu continuità.

A subire furono gli stessi e andare avanti, se non tutti, una buona parte del citato comitato rimase sempre in piedi e comunque sempre comitato rimase.

Nulla sarebbe cambiato nei seguenti due ventenni e la deriva assunse forme e dimensioni paradossali, dove il rispetto e la tutela, divenne una leggenda, da citare davanti al camino in forma di favola ai nipoti adolescenti.

Dopo il primo ventennio e i due seguenti, di quinquennale illusione, un segno benevolo era apparso a Ovest delle colline, illudendo però nel breve di una stagione invernale quanti annotano e hanno lucida visione storica;  constatando ora come nell’ottanta, di dover riporre ago filo e ditale, nell’attesa di un quinquennio migliore per cucire, culturale, società, politica e religiosa, dilaniata e appesa al sole a perde consistenza.

Aveva tutte le caratteristiche di una nuova era, purtroppo quel bagliore scambiato per una nuova alba, non era di sole, ma un lampo di tempesta, perché  a ovest.

A ben vedere, nella stessa direzione è allocato lo “sheshi” del primo ventennio, proprio lì, dove finiva la strada che dalla piazza doveva essere la via di tutti, ma finì privata e solo per amici.

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BUARTIMË ILINË SHËGNËTH I HUDESË

BUARTIMË ILINË SHËGNËTH I HUDESË

Posted on 13 novembre 2020 by admin

Cattura.JPG839NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) -Come di sovente, nei giorni scorsi mi sono state segnalate numerose attività all’interno della regione storica arbëreshë, in senso di consuetudini, attività di confronto con la terra madre e progetti secondo i quali dovrebbero essere  rispettati i termini di tutela e valorizzazione storica tra passato, presente e futuro.

Di esse, essendo le altre  di carattere intangibile e per questo lasciano il tempo che fa,  l’osservare da tecnici un “Master Planning”, vantato dai committenti, come eccellenza, preoccupa e per questo si ritiene di precisare quanto segue.

La presentazione del modello in forma tangibile, lascia palesemente trasparire la totale inconsapevolezza di quali fossero le strategie d’indirizzo e programmazione per l’ottenimento di risultati,  questi attraverso il disegno sono prova espressiva di un procedimento che non dimostra quale fase voglia esternare in forma: preliminare, definitiva, esecutiva o cantierabile.

Astenersi nell’entrare nei meriti del grafico, in termini di scelte e di esigenze, per le quali sono stati richiesti e si è ritenuto produrre cose è un’analisi doverosa, visto che appiattisce i meriti del senso locale in forma tangibile.

In conformità di studi, condotti da oltre quattro decenni, sarebbe un errore non cercare di fornire elementi fondamentali, o meglio far almeno ruotare la direzione di quel grafico, perché l’inadeguatezza di affrancamento  si sviluppa incuneandosi in forma anonima nei valori religiosi e consuetudinari di riposo eterno.

Lavorare in ambiti minoritari dove la valorizzazione del consuetudinario della metrica e la credenza popolare, sono gli elementi fondamentali depositati in forma tangibile, alterarli, gratuitamente produce danno incalcolabile, specie se terminano la discendenza tra, passato, presente e futuro, le di cui generazioni, devono avere in eredità, adeguati aspetti tangibili da riverberare.

A tal proposito è bene ricordare che “Harj Shëgnët” il 12 giugno 1804, grazie alle direttive di Napoleone inizia a disciplinare, diventando per questo i luoghi per il ricordo degli uomini di un tempo.

Prima di allora era costume seppellire, nei sotterranei delle chiese e quando gli spazi divenivano insufficienti si sistemava in area urbana adiacente, creando per la bisogna spazi opportunamente recintati.

Dopo la Restaurazione, Legge 11 Marzo 1817 di Ferdinando I, regola nel meridione, costruzione dei luoghi dell’eterno riposo “Harj Shëgnët” e in ogni comune di qua del Faro, fece seguito il Regolamento Ministeriale  del 21 Marzo 1817.

Solo dopo una serie migliorativa, con l’atto del 14 Luglio 1841, veniva disposto ogni elemento indispensabile per accogliere secondo credenza e arte chi avrebbe riposato eternamente.

Nel 1839 nel nostro caso era presentato un progetto per“Harj Shëgnët”, rispondeva egregiamente a tutte le linee guida, sanitarie e clericali, in senso di credenza, orientamento e distanziamento, vie pedonali, spazi privati e murazioni atte a coprire l’intimità del luogo di riposo.

Dopo poco meno di duecento anni l’opera è stata continuamente menomata di ogni sua parte fondamentale avendo in eredità il senso manomesso e confuso di quel luogo di riposo, stravolto nel citato elaborato di premessa; coprendo di bare e di segni, sin anche la strada percorsa secoli or sono dai padri fondatori per scappare dagli antagonisti che li avevano condannati a morte certa.

Oggi vedere interrotta quella via proprio da un luogo di riposo di specie è palesemente un atto ironico, probabilmente, ma sotto l’aspetto dell’identità è un pezzo di storia pubblicamente e continuativamente violentata.

Non so se questa piccola nota sarà accolta con il dovuto rispetto, perché, si tratta non di prese di posizioni, politiche o di controversia gratuita, né si tratta di adempimenti espressi da alchimisti senza titolo ed esperienza.

Qui parliamo del rispetto per quanti non vivono più, espresso secondo i voleri antichi; sono i germogli che fioriscono per il ricordo; non ascoltarli e renderli propri, significano fare il prossimo “fosso”, in direzione verticale, l’unica anomalia ancora non contemplata in quel sacro perimetro, che così facendo diventa di accumulo.

Terminando questo breve, si può affermare che dall’innesto del torrente Galatrella al fiume Crati, dopo un percorso tortuoso ed impervio, giunti sul pianoro, termina la strada che alimentava la luce del Casale terra dentro “Harj Shëgnët” se oggi comunemente la si vuole sopprimere, non si fa altro che confondere la luce abbagliate, quando si nasce, con la fiammella di chi spira.

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C’ERANO UNA VOLTA

C’ERANO UNA VOLTA

Posted on 13 ottobre 2020 by admin

cera un voltaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Voglio raccontare la regione storica arbëreshë, non per come va verso l’estinzione, ma per quanto è stato realizzato dai suoi figli, al fine di renderla talmente solida da consentirle di riverberarsi identicamente sino a divenire un modello unico di solidità culturale.

Si da inizio a questo breve, seguendo una via che non da merito, ai divulgati in forma di favole, il cui  fine voleva comporre una parlata identitaria infima per unire arbëreshë e Arbanon rimasti in madrepatria, non si sa a quale titolo o scopo, se si esclude il velleitario progetto turco.

Non parlerò di ambigue figure, giullari, alchimisti e operatori culturali economici, giacché, si ritiene che non debbano apparire, ma sciogliere e imbibire le radici, come fa la neve quando spunta il sole.

Tratteremo di generi nello specifico del corpo umano, gli organi che lo compongono, l’ambiente e la natura che lo accoglieva, per renderlo parte del sistema naturale; la radice da cui si diramano le forme idiomatiche più antiche in esclusiva forma orale.

Racconteremo come essi edificarono e come depositarono, consuetudini antichissime, oggi alla base dei principi sociali più moderni, delle grandi città e metropoli.

Parleremo di Kastrijoni, l’insieme di Sheshi, il modello urbano aperto e composto di Uhda, Rruga, Shëpi, Kopshëti e Gardë, il labirinto, modellato prima dalla natura, poi dagli uomini per generare il luogo dei cinque sensi: Gjitonia. 

Inquadreremo, l’unica forma artistica arbëreshë: il costume nuziale, realizzato sulla base storica di antiche credenze identitarie greco bizantine, le stesse che con grande perizia sono racchiuse in quelle vesti di filamenti, colorati, porporati e dorati.

La figura femminile, l’emblema della crescita, nell’indossarlo durante la finzione matrimoniale religiosa e nel seguito  diventa  espressione dell’unione, una diplomatica identitaria, per la continuità generazionale.

Saranno trattate le indagini “onciarie”, in specie quelle iniziate alla fine del XVII secolo, quando la direzione generale del Regno di Napoli, si rese conto, dell’avanzare di una nuova classe che non aveva né attitudini, né capacità per amministrare e tutelare il territorio, ma produrre solo interesse privato.

Divulgheremo i modi in cui la direzione generale a Napoli aveva preso consapevolezza di ciò e dell’assistenza di una numerosa e folta schiera di “faccendieri locali” che dirottavano, risorse notevoli, per i loro personali interessi a scapito del territorio che subiva e incassava perdite che ormai non erano più trascurabili.

Così come avevano già fatto gli uomini della regione storica,  dopo i periodi di scontro e di confronto con le genti indigene, terminati alla fine del sedicesimo secolo.

Lo stesso periodo in cui anch’essi volsero lo sguardo verso il futuro, guardando, pensando e pianificando secondo le consuetudini e le regole sociali e religiose, importate dalla terra di origine e in arbëreshë.

Questo è un dato fondamentale, in quanto, nello stesso periodo in cui erano terminate le trascrizioni onciari, si dava inizio alla formazione culturale degli arbëreshë attraverso l’Istituto Corsini, prima in San Benedetto Ullano e poi espandendosi, grazie alla florida Scuola Napoletana, di estrazione bizantina, in tutto il regno e in particolare nel Vulture in Lucania e nella provincia citeriore calabrese nella sede di Sant’Adriano, sino a che  Sofiota.

Sino a quando non si metteranno in riga, rispettando senza alcun campanilismo il ruoli dei Rodotà, i Bugliari, il Baffi, i Ferriolo, i Giura, i Torelli, lo Scura, a tal proposito si vuole sottolineare, a quale traguardo si mira, quando si parla di altre figure di irrilevante spessore, nel disquisire dell’istituto Corsini quando venne affidato alla scuola Sofiota in Sant’Adriano.

Sono, San Benedetto e Sant’Adriano i due poli che dalla meta del XVII secolo, sino all’unità d’Italia creano quella solidità culturale e identitaria che non trova più eguali.

Nonostante l’intervallo è da considerare come il culmine dell’ascesa culturale degli Arbëreshë in Europa, indirettamente anche per gli Albanesi dormienti.

Oggi se dovessimo esporre cosa abbia alimentato quel glorioso periodo culturale, della regione storica, non troveremmo nessuna pubblicazione che restituisca una dignità storica, se non divagazioni campanilistiche senza senso, in altre parole una calca culturale dove si cerca di sollevare la propria bandierina più in altro possibile rispetto agli altri.

Ciò nonostante, nessuna istituzione si è mai prodigata a produrre una ricerca unitaria e condivisa relativamente, a quale fosse l’impegno preso dagli arbëreshë e per quale ragione essi si siano insediai, secondo precise arche, scontrati e confrontati con le genti indigene e i regnanti, portato a buon fine onorevolmente secondo la “BESA”fatta, persino andare oltre, suggellando la perfetta integrazione all’indomani del 1861.

Alla luce di tutti questi temi assieme ad altri non di minore importanza si vuole sottolineare che siamo giunti alla fine dell’estate Arbëreshë del 2020 e tra poco più di un mene, inizia l’inverno, la seconda delle stagioni arbëreshë.

Sono proprio questi pochi mesi che la mente degli arbëreshë, oggi come allora, assorbe tutta la forza fisica, di quanti si sentono figli di questa minoranza, per pianificare e porre in essere il futuro sostenibile della regione storica.

A questo momento di rinascita sono invitate tutte le categorie amministrative, affinché pongano in essere attività progettuali che mostrino un solido futuro per la minoranza.

Il dovere vi impone di consolidare adeguatamente, quel tragitto consuetudinario che per la sua solidità, dall’unità d’Italia ha consentito la continuità della minoranza, grazie alla Inerzia Culturale, che oggi chiede nuova energia.

Ora è giunto il tempo di cambiare e se non si predispongono le giuste misure in questi mesi, termineremo con lo smarrire quelle preziose direttive di integrazione che giacciono indifese nei vostri ambiti territoriali di macroarea; gli stessi che tutta l’Europa cerca e non può, ne capire e ne vedere, perché tramandati in consuetudini orali arbëreshë.

Oggi si dice di caratterizzare valorizzare e porre a dimora le radici del passato, le stesse che il più delle volte si millanta di conoscere e per distrarre gli spettatori si finisce di strimpellare sonorità, portati da corone, offrendo  per completare l’opera, prodotti di scarsa qualità, scambiandoli con quelli dei micro ambiti.

Si parla di costumi, si vestono ragazze, si fanno e si cercano immagini, come se questi fossero la medicina per guarire da mali o ricongiungere arti deformi, per questo è palese lo stato di fatto e sino a quando non sarà predisposto la metodica capace a rendere comprensibile i messaggi contenuti negli ambiti minoritari, continueremo irreparabilmente a disperdere quanto di più prezioso possediamo.

Oggi si va alla ricerca di foto, documenti e onciari, incapaci di proiettarli nel territorio e ricostruire la memoria perduta, sfracello generalizzato imposto, sostenuto e valorizzato pure da una grossa fetta della politica per ricevere consensi.

Fortuna vuole che chi sia partito per studiare, conserva memoria e valori culturali, perché solidamente formato in quelle fucine consuetudinarie che sino agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso funzionavano a pieno ritmo.

Ciò a fatto si che una solida generazione abbiano compreso che inchinarsi a indagare, pur ricevendo sarcasmo, non è un pegno troppo grande da sostenere, ma una risorsa intelligente a favore degli ambiti costruiti e naturali della regione storica.

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QUANDO L’INDAGINE PER LA VALORIZZAZIONE E’ IL FRUTTO DEI COMUNEMENTE;

QUANDO L’INDAGINE PER LA VALORIZZAZIONE E’ IL FRUTTO DEI COMUNEMENTE;

Posted on 01 ottobre 2020 by admin

DSC_34NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – I beni tangibili e intangibili del patrimonio culturale della minoranza storica arbëreshë, avrebbero dovuto esse considerati indistintamente, eccellenze da tutelare, dopo essere state opportunamente catalogate, nelle forme e nei luoghi dove si sono sviluppati secondo le esigenze degli uomini e del tempo.

Ciò nonostante “i detti saggi generali” hanno preferito seguire la deriva del mono tema, tralasciando progetti, in grado di predisporre strategie di sostenibilità, accomunando l’intangibile con il modello abitativo minoritario di base, in ogni loro aspetto caratterizzante.

Alla luce di ciò “i saggi” saranno ricordati, nei secoli a venire, per lo spreco di fondamenti andati dispersi o espressi senza adeguata cognizione, in specie l’esperienza abitativa; la culla, dove è stata allevata la radice identitaria della minoranza nel corso dei secoli.

Ciò nonostante la cosa che più duole si racconta nel fatto che non è stato un momento di sbandamento o di perdita della retta via, ma una scelta politica studiata a tavolino, il cui fine mirava a lasciare al libero arbitrio, la fonte primaria d’insediamento, nonostante apparisse evidente l’importanza del modulo abitativo tipo e della sua radice nel corso dei secoli.

E nonostante quest’ultimo, assieme all’ambiente naturale abbiano contribuito, in maniera fondamentale, al riverberarsi identicamente nel tempo della propria tradizione identitaria, le vicende storiche della minoranza arbëreshë, cono state considerate irrilevanti e per questo imprestato dalle genti indigene.

La deriva cosi sostenuta e voluta ha finito nel ritenere quale elemento complementare lo studio e l’analisi storica dell’architettura minore, ovvero l’ambiente costruito secondo le necessità del luogo naturale, senza porre alcuna riguardo per i valori in essi conserva o contenuti, sicuramente difficili da interpretare da comuni ricercatori, questi in specie ha  portato lo scrivente, da diversi decenni a lamentare la carenza di studio in tale disciplina o direzione dirsi voglia.

Un campo lasciato al libero arbitrio, dove a germogliare è stato la faciloneria diffusa di studiosi contemporanei senza alcun titolo specifico, i quali ritenendosi eccellenze incontrastate e forti della loro posizione politico/culturale, hanno assunto verso questa storica disciplina un atteggiamento molto soggettivo, tradottosi nel breve di un decennio, in supervalutazione delle influenze architettoniche maggiori, calettandole gratuitamente  nell’intimo del costruito Arbëreshë.

Una diffusa compagnia di non titolati della storia dell’architettura ha immaginato modelli costruiti all’interno dei centri antichi, quali manufatti realizzati nel tempo di una stagione, come avviene in epoca moderna, collocandoli e stimandoli come elementi di una circoscritta e ben definita parentesi storico edificatoria.

A tal proposito e per meglio comprendere il discorso è opportuno fare una premessa; notoriamente gli arbëreshë quando riferiscono di una casa, una dimora o manufatto architettonico in generale lo pronunzia al plurale, ad esempio, la casa di Bugliari è detto le case dei Bugliari (shëpitë e Bulërveth).

Ciò è riferibile al corso del tempo, in quanto, la casa, nata sotto forma estrattiva si era evoluta nel tempo sino a diventare prima manufatto additivo a piano terra, poi  elevato in altezza e in fine diventare espressione nobiliare, ovvero le diverse case che avevano avuto nel corso di cinque secoli una ben identificata famiglia, cambiata con le vicende sociali del tempo e dell’economia crescente secondo le dinamiche e le necessità di quel ben identificato gruppo familiare.

Genericamente oggi si rende merito al paese arbëreshë e agli ambiti dove si parla l’antica lingua ritenendo che dove questa non si riverbera più, quell’ambito è magicamente diventato indigeno, come se si fossero volatilizzati per incanto i trascorsi della storia tra uomo e ambiente costruito.

Ebbene non è così, in quanto un ambito abitato per secoli dalla minoranza, non smette di essere un luogo segnato solo perché non si parli l’antico idioma, come se fosse vera la leggenda dello Skirrò, che senza alcun rispetto o vergogna diceva, che la “sua arberia” era dove due arbëreshë si erano fermati a parlare per poi partire, in poche parole untori di territori.

Come se i membri della minoranza fossero untori seriali di territorio, per il loro modo di colloquiare spargendo saliva e chissà cosa altro, fortunatamente non è così, giacché, la stria ci da meriti più consistenti e di altra natura.

Prendendo spunto da questa volgare affermazione si può dedurre che un termine più razzista, omofobo e privo di alcuna consistenza storica e spregevole poteva essere partorito dall’inadeguatezza dell’uomo.

Egli sin dalla notte dei tempi ha avuto tempo per migliorarsi per poi prendere la china e distruggere quanto innalzato e se volessimo fare una disamina di quanto dura questo principio, ci sono grandi margini entro i quali avrebbe potuto correggere tale affermazione, tuttavia si continua imperterriti su tale deriva, e non si fa errore nel ritenere questa, la più ignobile e denigratoria affermazione che, la storia ricordi.

Gli arbëreshë hanno una tradizione di accoglienza e di principi sociali, consuetudinari che farebbe invidia alle più moderne società avanzate ideologiche e di pensiero, essi non sono un’utopia, sono realtà culturale, che si riverbera da secoli nel silenzio delle ideologie di partito, ritenendo che la magia della loro esistenza è racchiuso nel loro modo autonomi a rispettosa dello stato shëshi.

Ritenere che la regione storica arbëreshë sia fatta esclusivamente di espressione idiomatica, associata alla consuetudine alla metrica canora e alla religione greco bizantina è un errore storico senza eguali, in quanto il vetusto ed irriverente enunciato, è un prodotto alchemico studiato a tavolino, senza avere consapevolezza di luoghi, immaginando che solo i prodotti archivistici e scrittografici possano delineare il corso della storia.

L’unico e solo progetto d’indagine tiene conto degli ambiti attraversati bonificati e costruiti dagli arbëreshë, la vera espressione scrittografica, fatta di solchi colmi di sudore e sangue sulla terra dove essi fermarono per essere utili e uniti con gli indigeni.

Le case arbëreshë non sono le case kotra o le Albanesi  kulla, in quanto la prima non esiste, in quanto un mero abuso edilizio realizzato con materiali delle industrie negli anni del dopo guerra del secolo scorso; mentre la seconda è un elemento fortificato del XIX secolo, quando gli albanesi preferirono allocarsi nelle zone più a valle pianeggianti, e per difendersi realizzarono questa sorta di fortino verticale che non fa parte della storia degli insediamenti collinari.

La casa tipica degli arbëreshë è un modulo tipo che ritroviamo in tutti i cento dieci paesi che formano la regione storica, e quando di questo modulo tipo, non vi sia traccia, basta indagare abitazioni più recenti, per trovare al suoi interno la perla abitativa, come quando si separa  lo scafo di un’ostrica.

I Kastrijonì (i Paesi o Katundë, dirsi voglia, ma non Borghi) erano dunque, un’unità territoriale, con una società organizzata secondo radice antichissima, dove trovavano dimora i meccanismi istituzionali in grado di preservare tutti gli aspetti immateriali.

Sono questi ambiti a divenire vere e proprie purpignere, che dal XII secolo, sono state in grado di consentito alla radice, importata dalla terra di origine, di fiorire e riverberare quegli elementi che senza uno sheshi, senza una casa non avrebbero avuto modo di durare tanti secoli. 

Il modello in origine limitava persino di contrarre matrimoni all’interno del proprio ambito e tra gruppi esterni e comunque indigeni. 

La tutela e la valorizzazione dei Kastrijonì Arbëreshë e Albanesi, attraverso un’attenta analisi degli elementi giunti sino ai giorni nostri, è ancora in grado di fornire una traccia solida, che nessun documento è in grado di fornire.

Ciò ha fatto nascere negli ultimi anni la conseguente necessità di pervenire alla conoscenza delle tipologie in grado di offrire risposte alle vicende del passato ponendo in analisi l’edificato delle varie epoche, associandole a forme di dimore prima estrattive e poi additive.

Esse sono riscontrabili in specie negli insediamenti nell’Epiro nuova e nell’Epiro vecchia, relativamente al tardo medioevo, poi in seguito, dal XV secolo, in quelli arbëreshë del meridione italiano e di tutta la fascia del’entroterra collinare adriatico.

Le capitolazioni, che per il loro significato sono un atto di sottomissione non possono riferire della storia degli arbëreshë, ma le pietre si; tanto meno la possono rilevare i catasti onciari, questi per i presupposti secondo cui vennero realizzati a dare risposte alla questione meridionale, essa rimane viva e pietosamente frena ogni ambito del sud, diversamente dai paramenti murari che raccontano, con le loro consistenze verticali, orizzontali, inclinati e i tipici affacci, come si trasformava i paesi minoritari.

Per terminare questo breve è bene ricordare che gli storici dell’architettura sono una cosa, quanti corrono per fotografare documenti sono altra cosa, comunque risultano essere più affidabili i primi, gli unici in grado di collocare adeguatamente nel progetto della storia, cosa e chi ha vissuto quella terra.

 

P.S.  Se siete documentaristi ed esperti lettori della Regione storica arbëreshe, scrivete un libro basandovi su questa immagine: ma devono essere almeno mille pagine se siete veramente bravi.

L’immagine non sta in archivio ne in biblioteca e ne in un museo, la trovate in Via lëm letiri a Santa Sofia.

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PASHKALI I BASHITH;

PASHKALI I BASHITH;

Posted on 11 luglio 2020 by admin

01 - RaccontiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – .Un Sofiota, vero, emblema incontrastato della storia letteraria della odierna Regione storica Arbër, arche ancora oggi vive secondo il buon progetto lasciato in eredità dall’eroe Arbanon, Giorgi Castriota di Giovanni.

Santa Sofia rappresenta per questo un’icona indispensabile per la storia della minoranza e Pashkali i Bashith per le sue note, (la maggior parte carpite e rese pubbliche da fraterni traditori), rappresenta la via per la migliore applicazione delle caratteristiche linguistiche, sociali, metriche e religiose della regione storica.

Egli, con i suoi studi, in capo storico e della definizione linguistica arbëreshë, è il primo a riferire che non ci fosse alcune legame tra la lingua arbëreshë e la lingua greca, se si escludevano, chiaramente, alcuni prestiti come si usa fare nel buon vicinato territoriale.

Affermazione più certificata di questa l’intera galassia linguistica non poteva averla, dato che “Bashith” fino a prova contraria è stato la figura più titolata delle lingue greche e latine sino al giorno della sia morte l’11 Novembre del 1799.

Comunemente si enuncia, senza averne consapevolezza della sua grandiosità culturale, che non abbia scritto nulla in arbëreshë e quindi non rientra tra le eccellenze della minoranza; affermazione a dire poco bizzarra, perché se volessimo confrontare quanti hanno scritto in arbëreshë, con quanti hanno fornito linfa pura e costruttiva come il “Bashith” apriremmo il dibattito che la regione storica tiene coperto con panni a dir poco indecenti e da troppo tempo ormai.

Pashkali i Bashith in poco meno di un trentennio, è riuscito a laurearsi da solo; insegnare nell’università più antica del meridione; passare nella scuola più moderna del settecento; diventare una delle prime figure ad interessarsi della questione meridionale; creare il promo catalogo bibliotecario del meridione; diventare ministro della Repubblica “una e indivisibile” partenopea; ricevere accreditamenti e riconoscimenti dalle espressioni culturali di tutta Europa, compreso Angelo Maria Bandini.

Tutto questo mentre il suo paese, meno uno, non aveva consapevolezza di tanta luce, non rendendosi conto della sua grandezza neanche quanto il gran tour, portò letterati dall’Europa a curiosare nella stanza dove egli nacque.

Tanto lustro e tanto sapere che persino chi ebbero modo di tradirlo, scippando pochi appunti del suo sapere, fu accolto con benemerenza dal clamore e l’eccellenza dei salotto europei per quelle idee libere da imposizioni, reali e vaticane.

Una cosa è certa, chi ha seminato sapienza e sapere rimane sempre visibile agli occhi di tutti è non ha bisogno di essere annunziato, chi si è sporcato di fango per essere illuminato, attenderà inutilmente che venga la pioggia: egli non sa che l’anima non si lava con acqua.

Buon Compleanno “Pasquale Baffi” di Santa Sofia D’Epiro.

Un tuo Paesano

Atanasio Architetto Pizzi

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DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

Posted on 06 luglio 2020 by admin

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel 1975 un gruppo di studiosi dell’Associazione Internazionale per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate, si è recato in ricognizione nelle macro aree della regione storica arbëreshë alla ricerca dei centri di minoranza linguistica rilevandone i vari aspetti identitari.

L’occasione fu fondamentale per individuare previa analisi dei luoghi, un numero considerevole di nuclei urbani, i cui elementi caratteristici in forma di cultura tipica erano riconducibili alla minoranza storica arbëreshë.

A quel dato di valutazione i centri urbani, furono individuati, visto anche il poco tempo a disposizione, in numero di novanta cinque, così suddivisi: Nove in Sicilia, Cinquanta in Calabria, Sei in Basilicata, Diciannove in Puglia, Due in Campania, Uno in Abruzzo, Otto nel Molise.

Il rilevato in numero di comuni arbëreshë, del 1975, non ebbe a crescere, nonostante nuovi dipartimenti iniziarono a produrre storia, letteratura e ogni tipo di adempimento, sorvolarono sul fondamentale principio del genius loci,  favoriti oltremodo dalle leggi che dagli anni ottanta miravano alla difesa delle minoranze storiche .

Il sovrapporsi delle leggi e degli eventi produsse una sorta di anomalia numerica che invece di integrare e far crescere la consistenza numerica dei paesi, creò una sorte di “unione riservata, una sorta di borgo chiuso”, che non superava le cinque decine, il tutto stranamente proprio alla vigilia che rendeva attuativa la legge 482/99.

Il dato appare sconcertante perché, invece di aumentare di numero, per il crescente studio predisposto e proposto da molte università, il numero è stato dimezzato alla luce del solo fattore di estrazione idiomatica.  

Nonostante la presenza arbëreshë è confermata, anche in nome di Greci di Schiavoni o Slavoni, per la credenza religiosa radicata nel loro modello consuetudinario, la storia li nomina come gli addomesticatori di terre, le stesse a essere oggi il vanto della viticultura storica delle colline meridionali e dell’Italia centrale.

Più in particolare, per la loro capacità di muoversi in gruppi familiari allargati, riconosciuti come sistema autosufficiente capace di essere radicato in un qualsiasi ambito collinare e porre a regime perpetuo il trittico mediterraneo in senso generale, si continua a menzionarli e tutelarli secondo le disposizione della legge 482/99 che fa confusione perfino tra Albanesi e Arbëreshë, non citando nei suoi articoli  mai appellativo della minoranza storica italiana.

Ricerche approfondite del meridione italiano, peninsulare e insulare, alla data del maggio 2019 individuano con certezza circa il triplo dei paesi certificati, come paesi di origine arbëreshë o casali ripopolati per essere poi continuamente vissute da dinastiche che se pur hanno perso la valenza linguistica, conservano i modelli edilizi in forma urbanistica, architettonica e le consuetudini tipiche riconducibili al sociale e al regime produttivo dell’area agreste di pertinenza.

Che un centro abitato sia stato innalzato e realizzato dagli arbëreshë, non è solo legato all’espressione linguistica, la stessa che per forme di rotacismo può mutare nei secoli.

Tuttavia la minoranza storica anche in senso di regione possiede come identificativo, la metrica non intesa solamente come espressione idiomatica, ma anche in senso di consuetudini, religione e tutta la filiera di adempimenti tipici nell’insediarsi, dare spazio alla crescita edilizia, la stessa che notoriamente li rende differente dai sistemi urbani indigeni, limitrofi.

Un confronto che può essere fatto con dati storici e sociali inconfutabili, perché se le genti arbëreshë portavano con loro un tesoro identitario non scritto, è anche vero che il luogo per tutelarlo doveva rispondere a caratteristiche in grado di non compromettere quella radice solo fatta di forma idiomatica.

Non è concepibile che comunemente i paesi arbëreshë sono associati a “borghi”, quando il tempo del loro innalzamento o ripopolamento, appartiene al periodo del rinascimento e ben lontano dal buio medioevale.

I piccoli centri collinari di radice arbëreshë, oggi, li troviamo in forma di casali, castrum, civitas e un’ampia definizione di agglomerati urbani di quel meridione notoriamente caratterizzato dai bizantini, dai greci e non certo dai longobardi invasori, gli stessi abituati a rintanavano nel buio delle loro murazioni, per vivere, vita da carcerati per consuetudine.

Gli arbëreshe appartengono al periodo dei nuclei urbani aperti, sono il prototipo delle odierne luoghi senza vincoli distinzioni e classi sociali, gli stessi che la società moderna mirano a raggiungere; la stessa meta che gli arbëreshë vivono da sei secoli, in quella che si identifica regione storica diffusa arbëreshë.

Ragion per la quale ritenere che un pese arbëreshë sia legato solo a metriche di carattere linguistico vuol dire essere irriverenti verso un modello che non deve, è non può essere considerato monotematico.

Valga di esempio cosa succedeva nel 1835 a Ginestra degli Schiavi un paese notoriamente arbëreshë, oggi provincia di Benevento, già a quei tempi piegata la popolazione, da decenni alla lingua degli indigeni locali, in una nota storica del prete di estrazione latina, riferisce come gli abitanti del piccolo centro, ricordassero e santificassero alcuni appuntamenti religiosi senza attinenza con il calendario latino, ma ogni anno in date specifiche si fermavano a onorare i defunti, accendere falò o produrre manicaretti e riunirsi in conviviali manifestazioni.

Se a questo aggiungiamo il dato inconfutabile di riconoscimento rilevato in un convegno del 2017, grazie al quale sono state attestate la posizione geografica, lo sviluppo storico dal punto di vista urbanistico e architettonico l’articolazione di spazi strade e vicoli propria della casistica dei paesi arbëreshë, Ginestra degli Schiavoni ha avuto ampia certificazione che non basta perdere la consuetudine linguistica per essere riconosciuti illegittimi.

La stessa cosa si può dire di Casal di Puglia, dove notoriamente a oggi parlano la lingua arbëreshë un numero considerevole di abitanti, tuttavia non riconoscendosi negli spazi e nella distribuzione del centro antico.

Durante un convegno è stato ampiamente confermata da una ricognizione in loco e attraverso carte storiche e la toponomastica storica corrente anche in forma dei rioni kishia, Bregu, l’enigmatico Sheshi e l’insieme Katundë, con le rispettive fontane che il sito ha un’impronta tipica delle genti arbëreshë.

Se la comunità scientifica odierna si ferma all’identificativo di una popolazione storica come gli arbëreshë, solo ed esclusivamente al’intensità con cui è pronunziata una favella antica, è il caso di rivedere i progetti e magari consigliare di ritornare a sedere dietro i banchi di scuola.

Questo perché è una forma di non rispetto, verso quanti sanno fare e propongono componimenti completi, senza mai mettere da parte, il violentato e vituperato, anzi direi volutamente escluso, GENIUS LOCI ARBËRESHË.

Una minoranza storica detiene un patrimonio, colmo d’infiniti elementi caratteristici, sia in forma tangibile e sia in forma intangibile, ridurre tutto nella parlata locale come il solo emblema identificativo, offende tutte le genti che nel corso dei sei secoli di storia ha dato se stesso per tramandare l’antico modello.

Per terminare, si ritiene poco rispettoso verso i “TANTI” che hanno dato, rispetto ai “pochi” che non avendo nulla da perdere si sono nutriti di bighellone rie culturali e minare irreparabilmente uno dei quattro elementi fondativi della minoranza arbëreshë.

Si potrebbe presupporre che non sapessero, ed erano ignari del tema che calpestavano; ma se fosse vero, perché si sono prodigate a pregare che l’orticello spontaneo continuasse a dare i propri frutti, gli stessi, che  non  sanno neanche contare.

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I PARALLELI DELLA REGIONE STORICA, SONO MOLTO PIÙ SOLIDI DEI MERIDIANI DELL’ARBERIA. ( mirë se na erdhit; non basta bilia ime!)

I PARALLELI DELLA REGIONE STORICA, SONO MOLTO PIÙ SOLIDI DEI MERIDIANI DELL’ARBERIA. ( mirë se na erdhit; non basta bilia ime!)

Posted on 15 giugno 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Trattare rispettivamente, in forma di Meridiani e Paralleli la regione storica diffusa arbëreshë è un po’ come diffondere l’arte degli asini che volano, invece di studiare, con profitto e avere consapevolezza delle proprie radici su base storica.

Che cosa abbia reso solida e forte i trascorsi delle genti e la cultura della regione storica più florida dell’Italia meridionale, oserei aggiungere, anche di tutto il bacino mediterraneo; non è la via che seguono i MERIDIANI, giacché è la direzione dei PARALLELI , quella del sole quando della Grecia, inizia a illuminare uomini e territorio sino alla punta più estrema della penisola Iberica; i  veri luoghi della cultura, della storia, del sapere e della sostenibilità degli uomini.

Questo è un dato che, storici e illustri di tutte le epoche sono univocamente concordi ad affermare e sottoscrivere.

Ragion per la quale chi si affaccia da un Meridiano e in ogni dove, divagando, quello che millanta essere “il sapere” dei quadrupedi volanti, non è un bel vedere, sentire o leggere, come  diversamente si adoperano a produrre le persone di garbo e di senso che studiano e divulgano certezze.

La credenza delle genti della regione storica arbëreshë è affidata alla religione, Greco Bizantino, di estrazione Alessandrina, la più solida e duratura del mediterraneo, essa risulta essere priva di ogni      forma di esoterismi e  credenza popolare in figure di “Magare” che sparlano  di generi; quanti divulgano  ciò o sono in malafede o cercano di imitare “il gallo sopra la discarica”(*), in quanto dal pollaio sono stati estromessi.

Tanto meno si possono rievocare le vicende storiche è i patimenti delle genti arbëreshë, del periodo post industriale o dell’alba economico degli anni dopo la seconda guerra mondiale, con prodotti della cinematografia senza avere una solida base storica, affidandosi a  memorie titolate e di sana formazione intellettuale; altrimenti si termina nel seminato del banale o del faceto.

Divagare sulla bandiera identitaria non è rispettoso per tutte le figure che compongono la regione storica; il costume  non è altro che la bandiera per noi Italiani di estrazione arbëreshë,  è un atto di garbo o di buon gusto.

Sicuramente non si è consapevoli di cosa si fa, quando comunemente lo si vuole trattare o divulgare; per questo è indispensabile  sapere che esso, “il costume tipico femminile arbëreshë”, contiene i valori materiale ed immateriale concretizzati nel grande rispetto che questo popolo aveva verso tradizioni, quali: consuetudini prosperità e valori religiosi, questo valori tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, vennero posti a dimora in quello della macro area della valle Crati, lato preSila, e ancora oggi attraverso i colori, le stoffe, gli ori e le tipiche diplomatiche mantiene viva la nostra storia.

Ritenere che il patrimonio storico urbanistico e architettonico della minoranza inizia con il borgo medioevale e finisca con abitazioni, le cui essenze formali e materiche, sono frutto di abusi edilizi, ormai prescritti perché degli anni sessanta, tuttavia così facendo si banalizza quanto con sacrifici professionalità in campo di  Architettura, Ingegneri e storia dell’arte con senso di indagine mira a dare  senso, al genius loci arbëreshë.

Se a ciò si finisce pure nel ritenere che le bevande tipiche prodotto irripetibile del  mediterraneo è meno genuino dell’ importato delle amariche, si fa torto alla vite mediterranea; elemento fondamentale del trittico più ambito da tutto il globo perché equilibrio tra ambiente e natura, inarrivabile.

Per terminare, sugli uomini e le figure che hanno fatto la forza della regione storica,  la fortuna intellettuale di questo popolo; o si conoscono le pieghe della storia dell’etnia o si finisce di vinviare, segnali di fumo e o quanti/e per necessità editoriali, hanno terminato per sostituito  il cavallo del condottiero Giorgio, con la “motoguzza” così come la chiamava in arbëreshë, Maria Rosa Scorzithë.

(*) detto Partenopeo: “U gallu chi canta nhgoppà a munnezza”.

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CENTRI ANTICHI MINORI IL LUOGO DEI CINQUE SENSI

CENTRI ANTICHI MINORI IL LUOGO DEI CINQUE SENSI

Posted on 01 maggio 2020 by admin

Gradi

NAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – La straordinaria varietà di sistemi urbani presenti nel territorio italiano, ci obbliga a tentare una definizione storica, che restituisca senso ogni qual volta, si riferisce o si annotano i “centri antichi minori”.

Quando si parla di “Borgo medioevale” o di Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio rinascimentali, bisogna essere molto precisi su quale di questi sistemi aggregativi si vuole riferire, senza fare uso comunemente ed esclusivamente dell’appellativo “ Borgo”.

I riferiti di storia non devono essere intesi come elemento per sollecitare l’immaginario collettivo, fermando il tempo all’epoca delle murazioni con merlature, fossati, ponti levatoi, a difesa del castello, giacché rappresentano “comuni narrazioni diffuse”.

I borghi dalla fine del XIV secolo non avevano più ragione di essere, in quanto, iniziarono a essere edificati i modelli aperti o diffusi, come ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggi “, identificati storicamente, in senso di luogo, tempo, ruolo, adempimenti sociali più inclini a produrre economia che guerre .

Per questo è opportuno rilevare, quali hanno le caratteristiche per risvegliare “i cinque sensi”, dove gli uomini si confrontarono e trovarono l’equilibrio per vivere in armonia con l’ambiente naturale, i propri simili, a contatto con il territorio circostante.

Riguardo al termine “centro antico” va rilevato che esso individua i fuochi, attorno ai quali hanno avuto origine e poi si sono ampliati i sistemi urbani aperti, secondo le linee guida dei “Rioni” suburbani.

Il “centro antico”, non va confuso con il “centro storico” che vuole indicare l’intero sistema edilizio, compreso quello moderno, in quanto, il termine intende, ogni ambito dove gli uomini si sono confrontati per progredire nel corso e i tempi della storia.

Così anche il termine “minore”, non deve costituire aprioristicamente un parametro qualitativo, riferito a centri, secondari o di rilievo insufficiente.

Essi si presentano notoriamente, come “Sistemi Urbani Diffusi” apparentemente disposti disordinatamente, lungo gli anfratti più reconditi delle nostre regioni, ciò nonostante non sono da considerare generici è privi di significato, in quanto, rappresentano la sintesi storica delle città moderne o delle grandi metropoli, il cui prodotto primitivo è stato sovrastato da pratiche successive, tendenti a cancellare la memoria, per un’edificazione priva di aspettative naturali.

Per questo, i centri antichi minori non devono essere intesi come, minori nella definizione generale, minori nella trattazione della storia, minori nell’edificato, minori nelle architetture, minori in senso urbanistico, minori nell’economia o addirittura memore di senso inferiore.

Essi sono così appellati perché rispettano l’ambiente e il paesaggi naturale,  non lo sovrastano o segnano con episodi costruiti variegati le linee generali di inviluppo naturale, mirano semplicemente a rispettare le tracciate dettate dalla natura.

Sono  minori perché gli uomini che li elevarono, con saggezza e ponderazione, affiancarono la natura, percorrendo la stessa rotta  nel corso dei secoli  rispettando un patto  di cooperazione e tutela, antico .

Ambiti costruiti che non contengono, né  Colossi, ne Cattedrali o Ponti proiettati verso l’alto, giacché, i componimenti di mitigazione per consentire la vita degli uomini sono composti secondo il principio di convivenza, tra natura e uomo.

Sono questi gli ingredienti che consentono la vita nel magico luogo dei cinque sensi, in specie quello mediterraneo, il più genuino e sempre un passo avanti rispetto ad altri ambiti.

I centri, per questo, vanno considerati espressione indelebile di qualità e sperimentazione dell’uomo, in quanto, la “freccia temporale” ha depositato nello spazio costruito e naturale, l’esperienza maturata in diverse epoche, in senso di patimento, di genialità locale, di confronto e credenze.

Nei sistemi urbani diffusi di tipo rinascimentale, ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio ” contengono gli elevati civili e religiosi, la cui consistenza generalmente è caratterizzata dalle pietre offerte dalla natura una ad una, per poi essere utilizzate negli elevati costruiti.

Le stesse malte che sigillano l’unione degli innumerevoli tasselli calcarei, sono espressione cromatica giacché: sabbie di torrente, argille, calce, acqua e le travature per gli orizzontamenti e le lamie inclinate sono locali rendono il costruito una parte fondamentale dell’ambiente che nel suo quadro generale non presenta punti o note stonate.

Per questo i Centri antichi minori rappresentano l’espressione della più intima ritualità, credenza e pensiero; evoluzione delle esigenze, il segno minore della necessità sociale ed economica per l’uomo, che si adopera con il ritmo dell’ingegno locale, in tutto, l’espressione genuina del Genius Loci.

I centri antichi detti “minori”, purtroppo oggi si sono trasformati in vere e proprie “purpignere” (vurvinë), dove il fatuo ha attecchito e le “carte del restauro” sono volate via con il vento; lo stesso che un tempo accarezzava questi elevati per ripulirli e sostenerli come “luogo dei cinque sensi” .

Oggi di sovente, anzi molto spesso, i centri antichi minori, sono diventati oggetto di numerosi interventi, oserei dire pericolosi, perché prevale la tutela esclusiva dell’aspetto funzionale e cromatico, senza alcuna attenzione rivolta verso le “carte del restauro”  e del consolidamento strutturale.

In altre parole si attuano atteggiamenti generali senza predisporre indagini storiche, materiche e di verifica strutturale di tutto l’isolato, quest’ultimo in specie fondamentali per queste perle di architettura, in caso di eventi naturali o indotti.

I temi citati sono alla base delle carte del restauro storico, le uniche che possono garantire la validità dell’animo, la mente e l’arte, degli esecutori; se poi ci volessimo soffermare sulle caratteristiche dei mandanti, è meglio stendere un velo pietoso e non pensare ai ricorsi della storia.

Soffermarsi a riflettere sulle azioni progettuali rivolte al patrimonio dei ‘centri storici minori’ significa, porsi almeno la domanda: cosa si voleva inventare, in più, rispetto a quanto già predisposto nelle “carte del restauro”?

Alla fin dei conti non serviva una particolare capacità intellettuale, bastava solo leggere e predisporre il progetto di restauro, consolidamento e riqualificazione, come fanno gli architetti che si occupano di questi capitoli .

Il condizionale è d’obbligo, perché, numerosi centri minori subiscono forme di degrado causato, dall’abbandono, ma ben più grave è l’incuneandosi senza rispetto, di adempimenti senza rispetto che approfittando si tratti di minore “minore” e quindi privo di forza per difendersi, compiono gesti inconsulti. 

Il risultato di tali atteggiamenti, fa perdere la purezza del “minore” che attraverso la mano della burocrazia “infligge gli accadimenti”, senza che un lamento di dolore possa essere liberato da quelle intimità della storia.

Tutto ciò appare nelle vesti che i portano i segni e i colori della perdita di quel valore irripetibile, difesa da un lamento soffocato.

Ancora troppo spesso s’interviene nei nuclei storici minori, come se questi fossero svincolati dal proprio ambiente e dal proprio valore materiale ed immateriale; pur e ben chiaro, che in realtà, il luogo è necessariamente coniugato con identità e relazione, sin da quando ha inizio la minima stabilità sostenibile.

Solo quanti hanno vissuto gli ambiti minori, prima che questi fossero contaminati, riescono a riconoscerli e intercettarne i riferimenti che accomunano elevati, ambiente naturale, uomini in armonia con lo scorrere del tempo.

Comprendere la differenza sostanziale che esiste tra il “Borgo” inteso come “luogo”del comando, fortezza da cui si dipartivano le disposizioni sociali economiche, e restrizioni legali, difesi e protetti dalla solidità delle mura, per questo ben distanti dai sudori delle attività agresti di ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio “, è già un buon inizio specie se si mira a fare “un discorso nuovo”.

Notoriamente, le genti che vivevano, con non pochi patimenti, il luogo del lavoro predisponendo strategie di mitigazione e bonifica dei territori, lavorando la terra, per renderla produttiva e salubre.

I frutti, o per meglio dire il ricavato del duro lavoro, si otteneva partendo la mattina e rientrando la sera nei “Rioni” per ottenere poco meno di quanto serviva per il sostentamento, mentre la quasi totalità delle risorse finiva nelle disponibilità dei “borgatari” tramutandosi in ricchezza.

All’imposizione di realizzare murazioni più di controllo che per la difesa, attorno alla metà del XI secolo, venne preferito costruire; prima capanne in materiali deperibili (Kalive), scaturito da un nomadismo locale per imposizioni di gabelle,  segui una definizione di ruoli che si tramuto in luoghi stanziali e quindi ebbero inizio le costruzioni riconoscibili nel modulo edilizio minimo, in muratura, i noti Katoj.

In epoca successiva, iniziarono le aggregazioni del modulo abitativo, per i modelli sociali ed economici in evoluzione e, gli stessi moduli furono ampliati nel tempo e costruite con materiali locali e con tecniche più sicure.

Quando l’insieme aggregativo non consentì più di utilizzare territorio storicamente circoscritto, i moduli abitativi, iniziarono a svilupparsi verticalmente, e per il frazionamento della discendenza si aggiunge il profferlo, aggregando volumi di parentela o di nuova acquisizione.

Una sequenza costruttiva secondo un edificato storico ben delineato, attuato in tutto i centri storici minori, che si dispongono in senso “articolato” rispettando sempre l’orografia del lotto.

Lo stesso avviene in epoca più tarda, quando dal XVIII secolo, il modulo base è aggregato in forma lineare, ripercorrendo la metrica identica nel lungo termine.

Una sequenza costruttiva diversa da come capita oggi, per un qualsiasi manufatto edilizio abitativo, che si progetta e si realizza nel tempo di un anno solare o poco meno, diversamente da come si sono sviluppati i manufatti dei centri antichi minori, in cui all’elevato di base erano aggiunti elementi costruiti secondo le esigenze delle epoche, terminando la fabbrica nel corso di poco più di quattro secoli.

Ogni azione progettuale che si aggiungeva ripristinava l’originario senso nel rispetto dell’esigenza del gruppo familiare, così com’è giunto sino a noi.

La lettura delle esigenze delle varie epoche, racconta la storia di quel territorio e dei centri antichi, motivo per il quale devono assolutamente essere indagati rispettando l’intimità costruttiva del rapporto identità/qualità.

E soprattutto nel tessuto ricadente all’interno del centro antico “minore”, che la scena urbana mette in risalto esigenze di contestualizzazione e costringe ad atteggiamenti capaci di innescare un vero processo di riqualificazione nelle soluzioni operative, nelle procedure di gestione e in quelle di controllo.

Non riconoscere e, di conseguenza, non rilevare quali siano i valori storici, estetici e materici del patrimonio architettonico dei piccoli centri, significa seguire variabili sociali, culturali ed economiche senza porsi il problema di progettare per la continuità storica del manufatto e del paesaggio.

Il fine progettuale deve seguire la linea: ieri, oggi e domani, secondo un’impronta sempre riconoscibile delle tappe sociali ed economiche, in tutto della conquista del benessere diffuso e deve diventare sfida, per la qualità del tessuto urbano, secondo le caratteristiche ritrovate.

Solo in questo modo la scena urbana può essere riconosciuta nell’identità tipica del luogo; non come singolo monumento che prevale e si distingue dal resto del paesaggio urbano.

Riconoscere i centri storici minori come modello di qualità è la finalità da perseguire, solo con temi finalizzati e concernenti la valorizzazione dell’insieme luogo, può tutelare il nostro patrimonio culturale.

Recuperare le risorse e le energie per tutelare e salvaguardare un immenso patrimonio storico dei piccoli centri, i quali altrimenti rischiano di scomparire per incuria o di essere ‘banalizzati’ o spogliati di significato, a seguito d’interventi, detti di ‘recupero’.

Ciò alla luce di adempimenti ormai abbastanza diffusa dove prevale la consapevolezza che la tutela di questo patrimonio diffuso sia un campo di semina per i figli dei re dell’architettura, gli stessi che per essere credibili si presenta non con il cane al guinzaglio ma “alberi” immaginando quello che la natura non ha mai osato proporre all’uomo.

È  altresì evidente che intervenire in ambiti cosi estesi con la metrica del restauro, richiede doverosamente di circoscrivere e identificare zone omogenee, intercettando le tipologie edilizie, i materiali utilizzati negli elevati murari, degli orizzontamenti e nelle coperture.

Un ‘indagine condotta ed eseguita con dovizia di particolari (senza essere distratti dalle irrequietezze degli alberi al guinzaglio) secondo ‘le regole dell’arte locale’, in altre parole creare una “logica del luogo” per interventi ‘strategici’ che puntano a rimuovere i fattori che hanno generato il degrado, recuperando o rinvigorendo un rapporto di ‘necessario’ tra manufatto, contesto circostante, paesaggio e uomo.

Per tanto è indispensabile che l’emergenza architettonica dei “centri antichi minori” diventi espressione di un processo più ampio di tutela e riqualificazione, esteso al paesaggio e come cerchi concentrici che partono dal tessuto urbano armonizzano il paesaggio circostante .

Recuperare il rapporto necessario al paesaggio, che corre tra edilizia storica minore, tessuto urbano e visione connettiva del paesaggio, fa la differenza nel progetto di valorizzare il patrimonio che ha iniziato pesante mente a sgretolarsi.

Leggere con attenzione la morfologia dei luoghi, analizzare con diversi livelli di lettura contesti apparentemente marginali, richiedono particolare attenzione e conoscenza del carattere storico-architettonico locale, le operazioni conoscitive non si devono trasformino in passive e acritiche catalogazioni di situazioni edilizie.

Oggi osserviamo nascere le ”città nuove” (News Town) quale esperimento abitativo di eventi naturali o indotti, partoriti deformi di sintesi e freddi presupposti urbanistico/catastali o tecnicismi storici senza alcuna formazione culturale che per questo sono incapaci di offrire l’equivalente prodotto, con le radici  localmente evoluta nel luogo naturale, imbibita nelle particolari acque.

Diversamente dalla storia dei centri antichi minori, che senza fretta, quindi molto lentamente, procedono accumunando magicamente gli elevati, le strade, gli spazi, definendo gli itinerari che s’incrociano e si mescolano, in un insieme di scambio di parole condivise; la solitudine si dimentica perché “i cinque sensi” ti riportano a casa e ciò che vedi e ciò che avverti, è il tuo luogo di appartenenza, lo scenario di luce, dove ha avuto inizio la tua storica identità.

Questo è il segno che il progettista, (senza natura al guinzaglio) ha fatto un buon lavoro; il luogo dei “centri antichi minori” ha ripreso a battere il suo tempo, in senso di odori, sapori, prospettive e suoni; la vita continua, è tempo di sedersi, davanti casa, non c’è fretta, a breve passerà chi ti riconosce e avrai modo di conversare: “in arbëreshë”.

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I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

Posted on 27 aprile 2020 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – Oggi si discute sui processi che hanno condotto la nostra società a frammentarsi, rendendo gli ambiti costruiti e il vissuto non più sostenibili; alla luce di ciò, si vuole proporre un adempimento per una soluzione urbana sia organizzativa e sia sociale, prescindendo dai risultati della ricerca in campo scientifico riguardo il Covid-19.

Questa breve trattazione vuole esporre il risultato di un progetto a lungo approfondito, per questo si ritiene possa rispondere, rinvigorendo i percorsi urbanistici, architettonici, sociali ed economici, indispensabili a ricollocare il sistema produttivo e residenziale nei centri minori collinari del meridione.

Un progetto possibile, nel medio termine, che impegna i temi del modello, che nei secoli hanno reso possibile all’uomo la continuità del genere umano, oggi tornati indispensabili, vista le emergenze, specie nei grandi centri urbani, città capoluogo e metropoli in specie.

Prima di addentrarci nel nocciolo di questo discorso, è opportuno precisare che tratteremo di Casali, piccoli centri urbani collinari, di una specifica e ben identificata fascia mediterranea, in maniera più dettagliata, i cento paesi del meridione della regione storica diffusa arbëreshë; denominati “Katundë” unitamente al relativo modello sociale/economico, noto come il “luogo indefinito dei cinque sensi”: Gjitonia.

Questi centri riedificati e ripopolati dal XV sec. offrono l’idonea sostenibilità sociale ed economica, che a suo tempo venne penalizzata dal modello “Borgo medioevale”, cosi come oggi, non hanno capacita di affrontare l’emergenza, i nuclei metropolitani, sovraccaricati da abitanti e le relative attività lavorative.

Il borgo notoriamente è catalogato tra i modelli urbanistici chiusi e riconosciuti anche come sistemi urbani monocentrici, identificati nel frenetismo delle frammentate attività, diversamente dai “Katundë diffusi” o policentrici, come gli impianti simili denominati Casale, Frazione,  Paese e Pieve, in quanto, sistemi aperti mediterranei.

Insediamenti che nascevano nelle aree agricole fuori dalle murazioni dei borghi, questi, così organizzati miravano, con l’isolamento murario a detenere il potere politico economico e giuridico dei territori circostanti oltre a essere sede mercatale; l’esatto contrario dei “casali rinascimentali”, innalzati secondo principi policentrici, più a misura dei gruppi familiari che vi trovavano dimora perché meglio articolati per le attività economiche.

Sono questi, nel corso della storia, che con semplici consuetudinari debellarono malaria, peste e ogni genere di emergenza/calamita, perche, in simbiosi con l’ambiente naturale.

Il borgo e le sue murazioni se da un lato erano in grado di difendere quanti entro di esse si asserragliavano dagli uomini, quando il nemico diventava invisibile come le emergenze sanitarie, si trasformavano in vere e proprie prigioni da cui era difficile fuggire; cosi come oggi le città e le metropoli, sono una garanzia di vita comoda, ma quando il nemico diventa invisibile si trasformano come trappole da cui è difficile poter provvedere e trovare soluzioni.

Il modello di epoca rinascimentale può essere un esempio da ripresentare con le dovute applicazioni tecnologiche, per le emergenze; emigrare e vivere a debita distanza dai Borghi (Città e Metropoli) e le loro pertinenze mercatali, arterie stradali principali, consentono di porre in essere misure adeguate per allontanare gli uomini dai pericoli invisibili.

Una diversa distribuzione di spazi privati e pubblici, sommati alle attività e direttive sociali consuetudinarie, potrebbe dare origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolo buio del Medioevo con le “città chiuse”, dando luogo all’insieme policentrico dei “rioni aperti” del Rinascimento.

I Katundë arbëreshë (Casali Paesi e Pievi) oggi sono il modello economico e sociale da riproporre, in quanto dilata le griglie sociali con parsimonia e nello stesso tempo rende ogni addetto, nodo fondamentale e indispensabile, in tutto, una società in cui la capacità individuale diventa l’elemento di una catena trainante e infinita.

Gruppi familiari allargati in cui la verifica, continua, non lasciano spazio al caso, in quanto, nessuno degli elementi può sottrarre dal portare a termine il suo ruolo, penalizza tutto l’insieme allargato, il gruppo, la fabbrica e l’economia.

Il modello gjitonia rappresenta una società, una piccola azienda a conduzione familiare allargato, ogni componente vive e produce in base alle sue capacità porta il suo contributo per la produttività finale del  gruppo di cui fa parte e trae benefici.

Il sociale è organizzato all’interno di uno spazio indefinito, filiera dove nessuno è trasversale agli altri, lo spazio comune di vicinanza, confronto è il “luogo” (Ka) shëshi, (largo) nei sistemi aggregativi articolati e diventa strada/ilvico (Huda/rrruga) in quelli lineari.

Ogni famiglia urbana ha il suo spazio fisico ben definito, delimitato e senza barriere; nessuno oltrepassa o viola i limiti consuetudinari di questi ambiti, noti come: pertinenza dell’ingresso, il profferlo o la relativa scala, (për para deresë, baliaturì, thëghëruitura e shëpishë) .

Per questo diventano luogo di relazione con il resto degli abitanti; solo la strada appartiene a tutti, qui bisogna restare per conversare, salutare o rendere rispetto agli anziani, salvo l’invito formale di avvicinarsi o entrare.

I Rioni conservano indelebili le caratteristiche abitative dei razionali ed efficienti moduli abitativi, e ognuno di essi associato indelebile all’indispensabile “orto stagionale” o per meglio dire “orto botanico”, fondamentale elemento da cui ha origine il principio alimentare del km/0.

Un microsistema sostenibile e green, che non produce rifiuto, giacché, le diversità ortofrutticole si raccolgono con ceste in vimini senza alcun tipo di altro contenitore ne cartaceo ne plastico, ogni cosa viene consumata e i resti riciclata e diventano concime in apposite fosse del citato orto.

Il modello se opportunamente tradotto, potrebbe essere fondamentale nei sistemi produttivi, attraverso la frammentazione dell’indotto industriale, tanti piccoli sezioni produttive contigue, che si mettono insieme in seguito nella grande industria globale.

Quest’ultima non più intesa come grande concentrazione metropolitana, ma come espressione produttiva diffusa tipica dei “Katundë arbëreshë”; che si è visto terminare la sua essenza di confronto tra uomo e natura.

Dare risalto alla cultura contadina, rivalutandola, in quanto fondamentale per il vivere quotidiano, come avvenne nei processi d’inurbamento, oggi non più sostenibili perche elevati sulla base  di controllo delle dinamiche  all’interno delle nuove mura; quelle del pensiero.

Oggi ritroviamo la stessa politica nei centri antichi sia delle città metropolitane e sia dei piccoli centri, ormai svuotati di significato e coesione sociale, scompaiono perche preferiti ai grandi contenitori commerciali, i dormitori senza futuro o centri direzionali.

Occorre ricongiungere famiglia,, luogo, vicinato, attività nei centri antichi non promuovendo alchimie turistiche, centri direzionali in luogo economico, quartieri per dormire, piazze e botteghe come centri commerciali, scuole in cittadelle de localizzate, un’insieme differenziato.

Servono modelli che contengono economia, cultura e confronto sociale, invece di concentrare frammenti dell’insieme città aperta distanziando gli elementi fondanti, bisogna attingere dal passato, dei centri antichi, ricollocando il modello sociale mediterraneo.

Parliamo del vicino di casa, quando non era anonimo, estraneo, turista sfuggente, ma figura fondamentale ed extra familiare, integrato, residente, e parte attiva per il futuro sostenibile del “Luogo” quello capace di avvertire i cinque sensi, per sentirsi nel contempo indispensabile fulcro, unità di misura.

Rivitalizzare “i centri antichi rinascimentali” valorizzarli, caratterizzarli nel senso identitario, è la via per avviare il processo mediterraneo, lo stesso che rese famose le terre a esso prospicienti; mete ambite nel corso della storia, non per essere conquistate e distrutte, ma preferite per essere vissute.

Il segreto è racchiuso nel concetto di Gjitonia, l’unica a garantire adeguate risposte a eventuali emergenze, ma più di ogni altra cosa, fornire opportunità di vita meno caotica, quella in misura ideale per gli uomini.

 

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DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

Posted on 24 aprile 2020 by admin

Vincenzo_TorelliNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli ambiti storici della regione diffusa arbëreshë dai tempi in cui si consolidarono  e riconosciuti dalle autorità civili clericali locali, furono sottoposti a ogni sorta di angheria, che li uniformasse nel bene o nel male agli indigeni locali secondo i relativi latinismi di credenza.

Prima il confronto con i locali, poi le lotte con i preti latini, sommati all’inutile necessità di dare una forma scritta, nel corso dei secoli hanno perennemente minato l’esistenza della storica minoranza.

Le altalenanti vicende che vedono minare nell’ordine religione, consuetudine, metrica canora e idioma, non hanno mai terminato e imperterrite, per imposizione altrui e di sovente per l’inesperienza arbëreshë hanno reso vulnerabile le diplomatiche più intime, di questo gioiello sociale mediterraneo.

Gli eventi che vedono gli arbëreshë tra il XIII e il XVIII secolo sono riferibili a una chiusura sociale che se da un lato penalizza la credenza religiosa, dall’altro rafforza gli altri elementi impenetrabile e senza lati morbidi da poter affondare.

È nel corso del mille settecento che con l’istituzione del Collegio Corsini e il conseguente desiderio di annotare il rito bizantino con esperimenti letterari e liturgici di un idioma mai scritto, che allargano pericolose brecce dove poi avviene la costante infiltrazione sperimentale:la pericolosa deriva ancora in atto.

Il collegio di Sant’Adriano in Calabria citeriore e la Capitale partenopea diventano i poli, dove in diversa misura, si attuano gli espedienti, alcune volte a favore, ma di sovente contro la difesa dell’inestimabile patrimonio immateriale.

Esiste una massima che dice: “quanti restano dimentica chi parte ricorda”, questo in effetti è quanto è stato prodotto  relativamente alla tutela dell’intera Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

Ad iniziare dalla metà del settecento e sin tutto l’ottocento si forma una classe dirigente a Napoli di radice arbëreshë e se il Baffi semina dal 1762 un seme, la pianta germoglia e nel corso di tutto l’ottocento nasce un fronte di tutela della minoranza storica solido coeso e intelligente: Lulëzuertitë Arbëreshë.

 Il fulcro diffuso, di questa nuova era, sono le stamperie, gli uffici e la residenza di Vincenzo Torelli, che vivendo da emigrato le necessità della regione storica, lega tutti gli arbëreshë che si recano a confrontarsi e proporre progetti, di sintesi editoriale, salutandoli con la storica frase da lui così compilata: jaku i sprischiur su harrua.

E chiaro il punto di vista fuori dagli ambiti della regione storica, anche se la capitale partenopea per il suo operato, mette a confronto eccellenze, in campo letterario, poetico, musicale, della scienza esatta, lo studio del territorio e le politiche di rinnovamento oltre a tanti “inventori” di una lingua scritta e per questo continuamente corretta nella capitale partenopea.

Avendo ben chiaro, luoghi e quali uomini di alto rilievo si siano confrontati, per consolidare gli elementi caratteristici della regione storica, consente di affermare con certezza che, mai più nella storia degli arbëreshë tante discipline hanno fornito un contributo di sostenibilità cosi’ solido.

Architetti, Giuristi, Magistrati, Ingegneri, Politici, Letterati, Analisti di Musica e Canto, quindi di altissima e indubbia eccellenza, hanno, tutti in egual misura, fornito la linfa ideale con cui imbibire la radice minoritaria, in tutto il XIX secolo.

A seguito di questo florido intervallo, raffigurabile in una distesa i di grano a perdita di vista d’occhio  pronto per la mietitura; non ha avuto seguito più nulla e la tutela della minoranza storica si è ristretta a orto di primavera, riservato a insoliti parlatori, musicanti e colerici di radice alloctona, sostenuti da consuetudini dell’est; le stesse che oggi non sono in grado di superare le soglie delle case arbëreshë e tanto meno alimentare i focolai, centro nevralgico della gjitonia.

È opportuno che questi figuranti della nuova era, inebriati dai vapori estivi prodotti dall’aceto letirë, scambiato per “vino Arbëreshë”, oltremodo convinti che; nenghë kindroi fare gjhë; siano lasciati al loro destino di non credenti.

Meglio dedicarsi a condividere le eccellenze storiche con quanti di buon ingegno e capacità di lettura sanno che la regione storca arbëreshë diffusa, è un modello irripetibile, la stessa che rigenera identicamente e con sempre più vigore, alla luce del enunciato: il sangue sparso non muore mai e ogni estate rinasce fiorente.

 

Gjaku i shëprishur nëng vdes e nga ver lulëzon”

 

Sara una semplice impressione ma più il tempo passa e più emergono elementi materiali e immateriali secondo cui; solo chi nasce e coltivala il suo valore aggiunto fa cose buone e segna la storia, gli altri, si perdono nei noti affluenti “torrentizi” alla sinistra del fiume Crati, poi la corrente vorticosa come dai tempi dei romani li porta lungo la piana di Sibari a macerare, prima di diventare anonimi  frammenti  al mare.

 

 

Nella Foto, Vincenzo Torelli da Maschito (PZ)

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