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IL TEMPO DI TRE GENERAZIONI HA COMPROMESSO LA SOTENIBILITÀ ARBËRESHË

IL TEMPO DI TRE GENERAZIONI HA COMPROMESSO LA SOTENIBILITÀ ARBËRESHË

Posted on 27 marzo 2021 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – A seguito di un’indagine dello stato della sostenibilità, all’interno della regione storica arbëreshë, secondo le risultanze delle ultime tre generazioni, è emerso palesemente un quadro a dir poco allarmante.

Se accenniamo il dato che sino all’alba del settimo decennio del secolo appena trascorso, le generazioni crescevano pensando e dialogando secondo l’ereditato idioma attingendo dei propri genitori, cosa che non avviene più da diversi decenni.

E se solo dopo aver raggiunta l‘età scolare, si aveva la prima infarinatura in forma di dialogo e lettura della lingua italiana, adesso impera senza soluzione di continuità il calabrese diffuso, in espressione delle macro aree dei Kastrum di appartenenza marcatele.

Questo è il quadro a dir poco preoccupante, visto il gran numero di “devastatori culturali certificati e approvati” che divulgano, oltre modo, notizie della stessa matrice indigene,  privi dei minimali requisiti formativi  in diverse discipline, proponendo stereotipi senza fondamento e senso.

Che cosa sia avvenuto dagli anni settanta in avanti, sino ai giorni nostri, è un fenomeno da studiare, nonostante furono emanati leggi di tutela, risorse e componimenti per evitare l’inattesa deriva.

Quest’ultima ha prodotto una breccia incolmabile, a cui si può correre ai ripari solo producendo, stati di fatto su certezze storiche.

Per rievocare ogni cosa, richiede una larga e diffusa trattazione multi disciplinare, che in questo breve saranno accennati in forma palese e indelebile.

Se torniamo indietro con la memoria e ricordiamo tutti i buoni propositi, per i quali furono istituiti numerosi dipartimenti, leggi e istituti, con l’impegno di tutelare e sostenere gli elementi caratteristici delle minoranze storiche italiane, la cui direttiva attingeva dagli articoli tre, sei e nove della Costituzione Italiana.

Vero è che nel tempo di tre generazioni è stato smarrito ogni forma di interesse verso la storia degli ambiti costruiti, la lettura dell’architettura secondo i canoni “ARBËRESHË”, della lingua.  la  metrica, oltre  gli aspetti religiosi, che nel tempo di una benedizione, si cambiavano vesti, riti e  imprestavano asce, chiodi e martelli per distruggere statue e affiggere icone.

Tutto era depositato sotto un pietoso velo grigio, lo stesso che innesca processi di confusione alle chiare prospettive ereditate oralmente dai nostri genitori.

Sono state proprio le anomale figure battezzate dagli articoli 3 – 6 – 9 della Costituzione ad innalzarsi come guide del sapere e smarrire ogni riferimento al fine di  allevare le tre generazioni citate, abbandonate nell’odierna deriva culturale.

L’errore, commesso da istituti istituzioni e ogni sorta di privato cittadino, armato di buone intenzioni, è stato in non aver mai avuto elementi idonei a realizzare una base culturale adeguata a sostenere il prezioso protocollo identitario.

Se in qualche disciplina sia transitato un velo di cultura, l’esaltazione, cattiva consigliera ha terminato con l’invadere  altri campi di ricerca più complessi,  rendendo così  paludi  le arche colme di significato che finirono per essere idonei siti per le Anofele.

Per evitare cattivi intendimenti, parliamo del costruito storico e i valori materiali immateriali in forma sociale addomesticati e costruiti secondo precisi protocolli, entro cui sono stati depositati,  all’interno del costruito che negli spazi antistanti consuetudini, antiche di matrice religiosa e pagana.

Vero è che ancora negli anni novanta del secolo scorso, gli studiosi locali e di ambito, ritenevano il costruito storico, come prestito indigeno, non degni di nota o di essere studiati, contemplati o  considerati tema di analisi e studiato.

Intanto accadeva, nel mentre si decideva se erano icone o statue, da venerare, di presentare racconti di fratellanza per battaglie, processioni per fiere dove a primeggiare era il vino, genitori appellati come compagni, oltre  a riferire di metrica canora di genere, in forma di balli di battaglie vinte, perché sostenuti da generi, in attesa di ballare.

Sono questi gli avvenimenti, senza alcuna senso storico, a determinare le pericolose derive, attraverso le quali sono state rese irriconoscibili le cose del protocollo arbëreshë, oggi stese al sole, in sofferenza e scambiate come indigene o di matrice turca.

Se volessimo puntualizzare solo uno di questi argomenti, come non citare della storica nuvola sociale, relegata al mero affaccio dell’uscio delle case, disposti in forma circolare o linearmente su slarghi o strade, come se altri popoli o altre comunità, l’uscio delle case usavano disporlo verso luoghi senza transito, montagne inaccessibili o precipizi.

Questo e molto altro ancora è stato certificato, da un numero di addetti senza titolo, come adempimento attinti dagli indigene, ritenendo,  gli arbëreshë un popolo che viveva  in capanne disposte in ordine circolare, come gli indiani delle Americhe.

Di questi protocolli esistono cospicue trattazioni, in cui si evidenziano forme e dimensioni, mentre nelle planimetrie storiche appaiono, in forme pressoché rettangolari o addirittura triangolari secondo un misterioso trittico urbanistico, importato dalla terra di origine, in tutto un’orgia di alchimie demoniache.

Un quadro per nulla edificante, in cui primeggiano: giullari impazziti, fumosi alchimisti, spose solitarie, pronte a promettere piaceri circolari, per poi terminare in colorite espressioni d’ignote latitudini.

Se a tutto questo, aggiungiamo le gratuite note a cielo aperto di un’estate mai verde, non sostenibile, la di cui conseguenza più ovvia incute energie e risorse negative che ogni giorno compromette la solidità armonica dei “cinque sensi arbëreshë”.

Tutto questo costringe le nuove generazioni, della minoranza storica a sorbire scenari indegni e poco utili al punto tale che neanche il sommo poeta, nella peggiore delle sue tappe, sarebbe stato in grado immaginare.

Dipartimenti istituzioni di ogni ordine e grado, hanno per questo dato avvio a una stonata sinfonia di tutela cavlcando aspetti mobili e immobili, manipolandone a la metrica armonia tra ambiente naturale e uomo, perché suonavano senza rendersi conto che ancora mancava il maestro per dirigere.

Questo è l’errore fondamentale che segna le ultime tre generazioni, le quali hanno immaginato che fare parte della grande famiglia di suonatori, la “regione storica arbëreshë”senza un maestro potevano suonare musica.

Purtroppo questa usanza anomala, specie per chi non ha suonato mai musica come gli arbëreshë, attende che dalla cabina di regia sorga il sole e adombri, i noti saccenti, seguiti dalla innumerevole pletora di servitori inginocchiati.

Allo stato delle cose servono sette saggi, uno per ogni disciplina, al fine di rendere omogenea ogni cosa giusta e attinente con i luoghi vissuti dagli uomini della regione storica, senza dover attingere dalle cose Francofone, Germaniche, Latine, Grecaniche e di ogni altro popolo che non sia riferibile al Kanuniano protocollo, tramandato oralmente.

Gli arbëreshë vivono una stagione assurda, che non ha precedenti nella storia di nessun altro popolo, in quanto, ogni alchimista imita Laurent de Lavoisier, ogni bidello emulare Torelli, credersi Enrico Berti, progettare come Quaroni, tutelare come de Felice, in tutto un esercito di figure che pur di apparire spara basso, immaginando che mirare alle gambe, produca meno danno che sparare dritto al cuore della regione storica.

Nel corso di Composizione Architettonica tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, un noto professore, mio maestro, prendeva ispirazione per le sue opere, dal pittore Russo Vasilij Vasil’evič Kandinskij, ciò nonostante nessuna delle sue opere realizzate in Italia; sono tante e famose al giorno d’oggi nessuna porta il nome dell’ispitatore pittore Russo.

Questo vale anche per quando si dice del modello sociale Kanuniano denominato gjitonia, perché, invece di comprenderne il significato, la radice e il valore sociale, al fine di dare univoca esposizione , negli anni settanta del secolo scorso, si è preferito copiare il tema dalla compagna di banco, Lidia da Bari, sostituendo al soggetto del suo tema “Gjitonia” con  “Vicinato”.

Ormai le cesta che porta l’asino, dal  saggio padrone, sono: sono tornate a casa una colmo di errori senza senso; l‘altra con certezze di quanti in forma privata fanno coltura di qualità.

Quanto prima l’asino solitario giungerà alla meta e non servirà a nulla isolare gli autori del cesto la storia non fa sconti perché è lenta e imperterrita, a breve si confronteranno i contenuti; a tal proposito valga l’esempio di Fabio G., noto cantante arbëreshë, al quale durante la processione di Sant’Atanasio del due di Maggio del 2003 venne chiesto: ma a scuola quando la tua generazione frequentavi le lezioni di “Alberese” , quelle realizzate dalle istituzioni, quale beneficio ti hanno fornito:  rispose secco: Thanà nengh fijsinë si më fieth Nana; u jiam arbëreshë.

Per terminare questo breve, si ritiene sia doveroso rilevare quali siano le cose degli arbëreshë, avendo consapevolezza di non poterle tutelare solamente perché si fanno convergere  aspetti di q minoranza nella miscela alchemica dell’idioma con accenni Arbëreshë è valenze Albanese condite per la parte mancante di macinati latini e greci; altrimenti si torna indietro nel tempo all’epoca del 1835, con Torelli che redarguisce e fa tornare  il figlio del mugnaio a casa, con il macinato era anomalo.

Non basta credere di essere, bisogna saper fare l’arte dell’architetto, l’urbanista, l’antropologo, il sociologo, il ricercatore per  sommare le cose della storia e degli uomini,  per innalzarli  certi di non distruggerli.

Cosa diversa è l’apparire per moda,  sostenuta dalla luce e dal vento della natura, che per  funzione, sono in continua mutazione.

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UN PAESE ARBËRESHË (Një katundë arbëreshë)

UN PAESE ARBËRESHË (Një katundë arbëreshë)

Posted on 20 marzo 2021 by admin

indemoniatiNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Comunemente si contano e si dice che i paesi arbëreshë siano poco più di una quarantina in tutta Italia, ma questo non è vero, infatti senza avere cognizione alcuna, di cosa siano e rappresentino dal punto di vista del genius loci, al percorso caratteristico di piattaforma urbanistica, in senso di agglomerato diffuso o città aperta, si preferisce restringe la conta, rispetto a  numeri effettivi, molto più consistenti.

A tal proposito si ritiene che nulla di più errato sia stato diffuso sulla storia degli arbëreshë, da quanti hanno preferito il mono tema idiomatico per la rileva, seguendo teorie vetuste, replicate incoscientemente da quanti non ebbero cultura verso aspetti antropologici, sociali, economici, dell’architettura minore e della storia.

Un paese arbëreshë nasce perché un luogo sicuro, dove le originari genti depositarono tutti gli elementi caratterizzanti la loro storia, ambiti paralleli dove territorio uomo e natura trovano il giusto equilibri per continuare a convivere nel mutuo rispetto e crescere secondo riti e consuetudini antiche, le stesse che non temo il tempo o gli indigeni con cui si confrontano, nel reciproco rispetto, sostenibile, dei propri patrimoni identitari.

Da quando è stato avviato  un nuovo stato di fatto analitico, in tal senso, è stato possibile determinare, migrazioni, allocamenti e modelli urbani realizzati, dagli esuli provenienti dai Balcani, in un arco temporale, che conta, poco meno di un secolo, eccezioni a parte.

Nel passato sono state numerose le figure che imperterrite seguono con ostinazione, l’inadatta semina di ricerca o di analisi storica, senza mai confrontarsi con altre discipline, perché devono  difendere concetti, illustrando atti e carte di radice notarile, in loro discolpa, come se ogni episodio della vita delle genti arbëreshë, erano certificati non  dove sono avvenuti i fatti, ma a Barcellona, Berlino, Napoli, Madrid, Venezia, Parigi, Valentia, Lamezia Terme in inverno e Catanzaro Lido in estate.

Vero è che quando si tratta o si disquisisce di minoranza storica e degli ambiti attraversati, vissuti e costruiti da arbëreshë in modo particolare, non si può e non si deve prescindere dai processi d’insediamento, residenza e resilienza, delegando ogni cosa esclusivamente a quanti  provarono a scrivere grammatiche dell’Albania da quando è moderna.

Ridurre gli atti e le vicende della minoranza arbëreshë, nota come l’unica del vecchio continente a sostenere la propria storia attraverso  idiomatica metrica canora , consuetudine e il credo greco bizantino, all’esclusivo studio dell’idioma, delegando la raccolta nelle città degli atti al altre figure è riduttivo.

Questo atteggiamento alla luce dei fatti e delle risultanze non trova spiegazione in nessun manuale di ricerca, perché esclude le forme di arte ingegno e manualità, ritenuto sia  di poco conto, irrilevante e ininfluente, per la via della ricerca..

A tal fine è opportuno precisare che ogni centro antico, di estrazione sociale e culturale di radice arbanon, elevato tra la fine del XIII e tutto il XVI secolo, è il contenitore fisico entro cui è stata depositata l’identità e ogni sheshë, ovvero, il labirinto impenetrabile dove l’articolazione del costruito, le vie, descritte dalle case, l’articolazione di crescita urbana, definiscono la culla impenetrabile.

È qui che venne creato il vurvìnaro (purpignera) dove depositare i germogli della lingua, della consuetudine, della metrica e della religione portati dal cuore e dalla mente di ogni arbëreshë 6se6nza più temere le ire del tempo, di animali, di uomini e di avversari.

A tal fine è opportuno precisare che un “Paese Arbereshe” ( Katundë) si articola notoriamente, secondo i rioni storici, quali: la Chiesa, il Promontorio, lo Sheshi e il katundè; fulcro del centro antico di ogni agglomerato, alla luce di ciò, si può affermare che i nascono in ambiti baricentrici tre la montagna e la pianura, sempre a non meno di quattrocento metri, sul livello del mare.

I quartieri sono strategicamente allocati e identicamente allocati, tale che, all’interno dei perimetri citati, ha visione diffusa, rispetto a quanti salgono la china o scende la montagna, avendo, questi ultimi difficoltà a intercettare o vedere il luogo d’insediamento, se non quando si è giunti nelle immediate prossimità.

Da ciò il costruito dei centri antichi arbëreshë, quando in seguito diventa storia, rappresentano, un libro a cielo aperto che racconta vicende, delinea il corso della storia sociale, oltre a raccontare le conquiste, nel senso più ampio, avvenute nel corso dei secoli, nel regno di Napoli, poi Italia e oggi globali al resto del mondo.

Questi naturalmente sono aspetti che non possono essere analizzati o intercettati dall’esercito dei comunemente, che pur se muniti di volontà, notoriamente non possiedono alcun titolo e tantomeno formazione, al punto che possano connettere territorio, documenti, eventi, uomini e natura per generare una traccia completa e indivisibile degli avvenimenti.

Notoriamente gli arbanon, arbëri o arbëreshe, quando lasciarono le loro terre avevano, quale missione prioritaria, la tutela della propria radice materiale ed immateriale oltre il bagaglio di credenza, che rappresentava la forza più intima del loro essere; cosi come quanti rimasero nelle terre di origine, per difendere i confini.

Gli arbëreshë questa missione l’hanno portata a termine in maniera egregia con caparbietà e senza mai perdere la rotta, tuttavia come tutte le belle storia anche questa a un certo punto ha avuto la sua deriva di tutela per una errata visione dello stato di fatto.6

E dagli anni settanta del secolo scorso si è ritenuto classificarli come Albanesi, immaginandoli come una provincia dell’impero romano, in cui  la tutela era campo esclusivo per l’idioma, abbandonando il senso della radice, preferita usarla con esperimenti sino a renderla deperibile, divenuta oggi al pari di “solanacea dal sesso fluido “.

Questi accenni vogliono essere solo un accenno della deriva che attende di essere arginata, attraverso un’indagine più dettagliata e solida, che mira a far svanire l’errato principio secondo il quale,  un paese è arbëreshë solo perché quanti vivono, parlano l’antica lingua, abbandonando consuetudini, impianti urbanistici, architettura e il modello sociale, ritenuti il ratto scenografico perpetrato contro il vicinato latino.

Nulla di più sbagliato è stata espresso dalla mente umana in campo della storia, salvo quanti comunemente immaginano che parlare di ambiti specifici della minoranza storica e come raccontare cosa accadeva nei confinanti paesi latini o genericamente mediterranei, confondendo per questo ambiti intimi e privati dei gruppi familiari allargati kanuniani, con quelli di mutuo soccorso di commarato indigeno.

Per trovare una figura fuori dalla pletora di comunemente, bisogna attendere il millenovecento e cinquantaquattro, quando nasce nel rione, lëmi lëtirith, chi dopo qualche decennio inizierà a seminare il panico all’interno delle regione storica, perché dalle ideologie dal gregge che imitava e imita ancora oggi i fratelli Grimm.

È lui che avrà modo, con dovizia di particolari storici, a dover tracciare le storiche vicende che vedono gli arbëreshë protagonisti e  rendere merito al modello di integrazione più solido all’interno del mar mediterraneo.

La ricerca di approfondimento nasce per essere condotta non come un esperimento moderno alla ricerca di notorietà, ma semplice visione multidisciplinare dell’argomento senza l’ausilio di chitarra organetti tamburi o mandolini.

La ricerca nasce perché si è avuto la fortuna di essere stati allevati in un paese arbëreshë, affianco di storici sani della consuetudine, i quali per passione trasferivano un modo di essere all’interno degli ambiti arbëreshë degli anni sessanta del secolo scorso; li dove avevano mosso i primi passi i Bugliari, il Masci e il Baffi in Lëmi Litirit.

Formato sotto la guida del sapiente padre, che lo abituò ad ascoltare prima di operare verso ogni cosa, per toccarla solo dopo averne compreso il senso e il funzionamento, e solo doo di ciò adoperarsi a renderla funzionale.

Nozioni applicate sul campo, durante la formazione di scuola superiore, coadiuvato dalle menti storiche più eccelse del paese, entrare in case palazzi e Katoj, e diventare memoria di strade, luoghi e delle pene che gli ambiti subirono perché allestiti, alle esigenze anomale e fuori luogo della modernità.

Quando poi la carriera universitaria e lavorativa lo pose, per il suo sviluppato intuito al fianco di Quaroni, Cocchia, Bisogni, de Fez, de Felice, di Stefano, e tanti altri esperti nel campo del restauro e della valorizzazione dei beni materiali, tutto divenne più facile.

Torna con la mente e applica tutto il suo bagaglio di sapienza, multi disciplinare con titoli, inizia a dare una svolta alle gratuite divagazioni, che i comunemente senza titolo riferiscono verso gli aspetti antropologici, sociali e architettonici del costruito arbëreshë.

Sopporta persino che un comune cattedratico, porta al cospetto del suo luogo natio una dubbia figura, che prima è architetto poi ingegnere e poi né uno e né l’altro, la quale avrebbe dovuto spiegare le cose che in adolescenza hai visto crescere e vedere violate da amministratori senza coscienza passione e identità culturale

Un dato rimane fondamentale, non sui può, essere esperti arbëreshë perche si conosce la lingua e si arroga il diritto di miscelarla con le divagazioni albanesi; altrimenti si termina di creare confusione in numerose discipline, che una volta innescate intorbidiscono ogni materia che disciplina una specifica identità

Oggi viviamo una stagione peggiore di quanto si potesse immaginare di vivere e peggio di così nessuno avrebbe mai voluto vedere quegli ambiti ormai senza futuro nonostante, per sentito dire, fortemente acculturati.

La sostenibilità del complicato patrimonio che sostiene gli arbëreshë oggi è nelle mani e nelle disponibilità di acerbe figure, cresciute nel frastuono di musiche senza senso, per questo, mirano a produrre istallazioni a dir poco demenziali; esperti della storia locale che nella noia più totale si armano di valige di cartone, credono di poter essere ricercatori storici, se a questi sommiamo ogni sorta di inqualificabile personaggio, che si ciba delle nozioni, interpretate male, e ripetute come facevano i bambini a natale con le poesie oggi via etere, si ritiene sia giunto il tempo di riflettere e lasciare il campo a chi merita al più presto.

Prima si correrà ai ripari, più frammenti si possono ricollocare al loro posto, restituendo forma e significato alle inadatto vestito portato male e imposto all’antico e rigido protocollo arbëreshë.

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LE RADICI PROFONDE DELLA CULTURA ARBËRESHË

LE RADICI PROFONDE DELLA CULTURA ARBËRESHË

Posted on 14 marzo 2021 by admin

StoriaarberesheNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando si affronta un tema così delicato e “profondo”, come la radice dell’identità di un determinato popolo, bisogna essere opportunamente formati e avere, un bagaglio di ricerca acquisito a seguito di un caparbio percorso di ricerca.

In tutto, esperienza storica supportata con titoli e dati dati, la cui trattazione è  professionalmente rilevata, sia nell’ambiente naturale e sia in quello del costruito, nei tempi e nei modi dei protocolli che garantiscono il giusto prosegui di quanto posta a dimora.

Non basta  vestire  colori variopinti in forma idiomatica, stringendo comunemente per mano, laceri volumi trovati in archivi e biblioteche,  per ritenersi capaci di selezionare  l’humus ideale, perché così saccenti, non si offre alle radici trapiantate nei paralleli luoghi, la giusta ossigenazione, producendo pena culturale, per i futuri germogli.

Operare o delineare la storia di minoranze storiche, si deve conoscere passato, presente per essere in grado di proiettare nel futuro le reali necessità di tutela, dei parallelismi mediterranei posti tra il 18etismo e il 42esimo parallelo,  fascia in cui la radice riconosce diffusamente il suo ambiente naturale,basta solo risalire la china collinare; non serve altro specie i noti e ripetuti  adempimenti sterili in forma culturale, come da diversi decenni  operano,  verso la sostenibilità fuori terra, della radice arbëreshë.

Per questo motivo è giunto il tempo di iniziare a dare significato alla storia degli arbëreshë, dai tempi in cui errano appellati  Arbanon o Arbëri, dalla radice pura della, famiglia allargata Kanuniana, vera è unica risorsa organizzativa, consuetudinaria, in senso di scuola di tradizioni, valori, rispetto mai tanto solidi e radicati in altri popoli del mediterraneo.

La loro notorietà germoglia quando l’impero romano era tanto esteso che la capitale fu trasferita a Costantinopoli e l’impero per difendere i suoi confini inventò i famosi gruppi militari di frontiere, tra cui brillarono nelle aree balcaniche gli Stradioti, “Soldato Contadino”.

Sono loro organizzati secondo il modello di famiglia allargata Arbanon che diventano esempio di garanzina di confine, autonomamente sostenibili e nello stesso tempo garantire remunerazioni annuali  al governo centrale.

Essi rispondevano oltre modo a due domande; la prima alla sostenibilità del gruppo familiare rendendo fertili i terreni a loro disposizione; oltre a garantire una figura all’esercito di frontiera, adeguatamente formato, armato e agile cavaliere.

Sono questi uomini che ben presto renderanno famosi gli arbëreshë, nelle strategie militari, specie a seguito della battaglia dei merli, nell’odierno Kosovo.

A seguito di questa storica battaglia  fece seguito, dopo qualche anno, la stipula dell’Ordine del Drago, un patto di mutuo soccorso per quanti non potendo, da soli, battersi contro le soverchianti forze militari turche, la cui finalità mirava a ricattare i principi Arbanon, sottraendo la discendenza maschile, per terminare la conquista, senza incutere distruzioni radicali al territorio.

Tra questi faceva parte anche il principe Giovanni Castriota, cui  sostrati i quattro figli subì l’inesorabile ricatto, sino a che, Giorgio, in più piccolo dei figli diverrà, dopo una lunga serie di avvenimenti, una spina nel fianco dei turchi.

La sua strategia di conservazione, conoscendo la potenza di fuoco dei turchi lo fece diventare l’ago della bilancia che intensificò l’esodo degli esuli albanesi nelle terre parallele del meridione, da un lato; e dall’altro dispose strategie per non sgretolare le terre degli storici governatorati.

L’esodo  sempre stato florido dalle terre dei Balcani verso l’adriatico, vide prima  Venezia protagonista , dove la richiesta in garzoni di bottega a riscatto vedeva preferire gli arbanon per il forte attaccamento ai patti stabiliti; poi in seguito nelle coste delle Marche come bonificatori eccellenti per porre a dimora il trittico mediterraneo, che ancora oggi caratterizza quelle colline.

Tuttavia, Giorgio Castriota, volgarmente denominato Scanderbeg (*), dalla battaglia di Terra Strutta nei pressi di Greci (AV) e le innumerevoli partecipazioni dirette e indirette a favore dei casati Aragonesi, gli stessi facente parte del patto di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, divenne lo stratega che disegnò  le arche di allocamento che diedero modo di occupare agli arbëreshë, secondo un progetto strategico studiato a tavolino, quando a Napoli fu ospite del re Aragonese.

Se escludiamo alcuni aiuti militari che i principi albanesi offrirono ai regnanti del meridione, al papato, a Venezia e le restanti insule bizantine, il vero esodo degli Arbanon verso il meridione, dal 18etismo e il 42esimo parallelo,  iniziato dopo la battaglia di Terra Strutta, intensificandosi dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota, nelle odierne sete regioni meridionali, secondo arche facente parte di una strategia di controllo a favore sempre degli aragonesi, poi dismessa, escludendo qualche eccezione, solo dopo l’Unità d’Italia.

La stessa strategia che vede accolta a Napoli  nel 1469 la moglie dell’eroe Arbanon e dopo qualche decenni grazie alle direttive degli esuli insediati, porre fine alla congiura dei baroni di simpatia francofona.

Questa ultima nota è la conferma che  i cento e nove paesi che si andavano innalzando, sarebbero stati una garanzia in forma militare e rimanere viva secondo il modello consuetudinari originale, una  forza che radicava la sua difesa nella  lingua parlata non scritta, impenetrabile e un credo religioso in linea, per discendenza, a quello di Roma.

 

“Sono trascorsi i venti minuti, si continua nel prossimo intervento”.

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UNA STORIA AI MARGINI DEL CENTRO ANTICO (Ka Kisja Vieter)

UNA STORIA AI MARGINI DEL CENTRO ANTICO (Ka Kisja Vieter)

Posted on 05 marzo 2021 by admin

Elio Formosa 1948NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – I prodigiosi eventi in continua evoluzione, che vorrebbero valorizzare ambiti e manufatti secondo le disposizioni dei Beni Culturali, sfuggono al controllo degli organi preposti, notoriamente pronti ad accogliere le allegorie della manovalanza locale, presa in prestito dalle attività agricole, silvicole e pastorali, in tempo di maggese.

Se in Italia, i Beni Culturali iniziano a essere tutelati in Toscana nel 1571, affinando ancor di più la tutela nel 1602, obbligando la popolazione a munirsi di licenza, rilasciata da giusta commissione Ducale.

Da quell’epoca un susseguirsi di leggi si affina sino decreto lgs. n. 42/2004 per i Beni Culturali e Paesaggistici e per la prima volta si giunge a dare una definizione di bene culturale, con due provvedimenti a tal fine, rispettivamente, in materia di beni culturali e di beni paesaggistici, nel 2008.

Predisponendo leggi per ogni elemento materiale, immateriale e ambientale con specifico interesse artistico, storico, archeologico, archivistico, bibliografico, etnoantropologico, nonché un interesse quali testimonianze aventi valore di civiltà.

Tuttavia per essere riconosciuti e tutelati dalla legge sui beni culturali, devono essere dichiarati tali, con giusto atto di notifica della dichiarazione d’interesse culturale storico-artistico.

Questo iter ha seguito anche il manufatto architettonico, che segna ancora oggi, l’estremo più a nord del piccolo centro antico posto lungo la strada grande e nonostante sia stato un solido riferimento per la storia e gli uomini  vissuti e formati grazie ad esso, l’apparire a oggi del luogo lascia a dir poco amareggiati.

Un complesso considerato povero, sottovalutando e abbandonato nelle mani dei meno adatti, che in poco più di cinque decenni è stato condotto verso una china vergognosa, in quanto  è stato dilapidato sia il valore storico e architettonico, oltre l’insieme di funzioni, lasciando nella memoria locale, esclusivamente il suo identificativo toponomastico Ka Kisja Vieter, l’evidenza sottolinea  quanto  poco rispetto è stato rivolto alla fabbrica e al luogo  e al suo senso in forma generale.

La chiesa, nel IX secolo, quando fu edificata, divenne anche campo di sepoltura cristiano, dove la maggior parte della popolazione trovava il riposo eterno, nell’ipogeo, attraverso due botole, la prima allocata davanti alla porta principale e l’altra nei pressi dell’altare, in complesso sotterraneo, esclusiva di  battezzati e cittadini illustri; di contro  la  prossimità esterna verso nord fuori da costruito, era il luogo dove trovava sepoltura, il ceto medio, i forestieri, le persone uccise, i suicida, gli adulteri, i ladri , i pagani, i laici di grande santità.

Senza entrare in dettagli storici e architettonici che renderebbero la vicenda a dir poco paradossale, andrebbe quantomeno ripristinano il senso e il valore dell’insieme chiesa ipogeo e campo per il riposo, oggi fuori da ogni logica di buon senso o rispetto, sia dal punto di vista religioso e sia di quello della memoria di quanti hanno fondato e fornito le solide basi culturali e religiose della popolazione che oggi vive il centro storico.

Avere nel proprio territorio un presidio religioso, il quale, senza soluzione di continuità ha consentito di pregare secondo credenze indivisibili, senza mai perdere la direzione, del IX secolo sino a oggi, dovrebbe esse un valore aggiunto, fosse solo per il dato inconfutabile che ha visto, prima soldati bizantini e poi dal XV secolo esuli dall’Epiro vecchia ed Epiro nuova, gli Arbëreshë pregare sempre con la stessa favela e melodia.

Nonostante le ingerenze e i numerosi tentativi dei Vescovi Latini, dopo il concilio di Trento, la chiesa ha sempre elevato inni greci e arbëreshë, sempre rivolti verso la madre della chiesa di Costantinopoli.

Descrivere  oggi cosa rappresenta il complesso è complicato e molto difficile, in quanto dal punto di vista della credenza è stato persa la memoria del luogo, intatto esclusivamente il nome che lo lega alla santa madre.

Dal punto di vista architettonico non appare nulla se si esclude l‘orientamento del manufatto, il quale rimaneggiato nella totalità dei suoi elementi murali verticali orizzontali e inclinati, conserva tratti di muratura che andrebbe indagato per poi predisporre le misure idonee per la loro ricollocazione.

Planimetricamente è stato stravolto l’intero impianto distributivo, reso unico ambiente con l’abside rialzata, si può supporre che per l’economia con cui fu approntato il progetto degli anni cinquanta del secolo scorso, sotto la lamia del pavimento si conservino ancora le fondamenta e gli innesti che componevano la distribuzione in terna del sacro volume.

Allo stato dei fatti e degli avvenimenti susseguitisi oggi restituiscono un quadro desolante e adir poco irrispettoso delle cose divine e del ricordo dei morti.

L’ingresso principale ha perso la sua prospettava dalla vecchia strada grande; la gradinata di penitenza è stata chiusa lasciando il posto a un pino che impedisce al sole di segnare il tempo delle sacre funzioni, il volume ha assunto forme e dimensioni di un deposito e quello che più duole lo storico luogo del riposo è diventato capo di ulivo, una miscellanea di eccessi che non trova ne spiegazioni e ne commenti per il poco valore che si è dato allo storico presidio.

Oggi rimane solo qualche foto, le descrizioni di memoria, descrivendo il quadro in forme e allocamento degli elevati della chiesa, l’antica forma e le linee generali del suo contorno.

Avviare un ‘indagine conoscitiva del luogo e produrre un progetto finalizzato al rispetto delle carte del restauro, deve essere l’impegno di tutte le figure istituzionali e non, del centro abitato, escludendo ogni sorta di maestro d’ascia che possa ulteriormente stravolgere ancor di più un emblema storico locale che appartiene non solo ai residenti del piccolo casale arbëreshë, ma è un tassello indelebile del patrimonio dell’umanità.

P.S.    –     La foto fa parte dell’archivio fotografico del prof. Elio Formosa

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IL GJITONICIDIO ARBËRESHË

Protetto: IL GJITONICIDIO ARBËRESHË

Posted on 21 febbraio 2021 by admin

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LA CHIESA DI SANTA SOFIA

LA CHIESA DI SANTA SOFIA

Posted on 11 febbraio 2021 by admin

Elio FormosaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Dal VII secolo, il territorio dell’odierna Italia, aveva terminato di essere un continuo territoriale di pertinenza geopolitica romana; e il confine a sud divenne il corso dei fiumi Crati e Savuto, dalle coste del Tirreno di Amantea sino a quella Joniche dalla Sibaritide (4).

Per la difesa trovarono dimora numerosi distaccamenti di soldati: Longobardi nel versante nord, a sud i Bizantini, in specie lungo la strada di costa che da Rossano conduceva verso Bisignano e Cosenza.

I soldati preposti al controllo in sicurezza, si disponevano lungo il camminamento Rossano Cosenza, risalendo i greti degli affluenti storici del Crati, da sud.

Questi per difendersi anche dagli avversari naturali invisibili,  giunsero in quei promontorio altimetrici, che nel caso di Santa Sofia, divide la depressione dove scorre il torrente Galatrella e il vallone del Duca.

Lungo lo storico camminamento, iniziarono a costruire i presidi abitativo e  religiosi monocellulari, per questo il camminamento da Rossano a Cosenza fu interessato dal fenomeno d’insediamento; prova ne è altri il costruito nei pressi della via “Caminora” a Sant’Adriano, anch’esso di credenza bizantina, orientata verso la Grande Madre Chiesa di Costantinopoli.

Tra le diocesi di Cosenza, Rossano e della Calabria in maniera diffusa; non si commette errore, nel citare la Chiesa di Bisignano, di S. Sofia e altre in Acri, Luzzi, Rose, San Demetrio e San Cosmo.

Ciò è confermato oltre che dalla credenza ancora viva, in queste località, anche dal commercio tra i Greci di Costantinopoli, e la diocesi di Bisignano, le cui testimonianze oltre che nelle chiese, si collocano nell’abbondanza dei prestiti idiomatici ancora in uso nella macro area.

Tornando alla Chiesa elevata in Santa Sofia Terra, essa caratterizza il toponimo locale dalla sua edificazione, riportando a riferimenti religiosi della capitale Costantinopoli e dal IX secolo in avanti, il luogo da Casale Terra di Bisignano assunse l’appellativo di “Santa Sofia Casale di Bisignano”.

I suoi abitanti professarono quindi il rito bizantino dalla fondazione e la chiesa compare in un documento censuale, tra i possedimenti, citato come “tenimentum ecclesiae Sanctae Sophiae.” (2)

Nota, come Chiesa Vecchia di Santa Sofia d’Epiro (Kisja Vieter in arbëreshë; essa, si sviluppa su pianta rettangolare con l’area dell’altare a una quota rialzata rispetto la navata; i lati corti: a est l’abside e il coro; a ovest l’ingresso principale, (la porta degli uomini) e a sud la piccola porta definita l’accesso alle donne.

Gli apparati murari realizzati con pietre di fiume alettati su malta di calce sabbia torrentizia e argilla, la stessa che ordinava anche il continuo murario come intonaco.

Il tetto composto nella parte strutturale da rudimentali capriate, sosteneva la travatura secondaria di collegamento su cui era depositata la lamia di copertura (3).

Se la campana è rimasta la stessa, diversamente lo è per il campanile e la consistenza della fabbrica che ha mutato nel corso dei secoli la forma, disposizione e l’allocamento del campanile; in origine si elevava con un corpo addossato alla parete nord, all’esterno e nella linea che divide altare con la navata.

Il fronte opposto, a ovest più sicuro per quanto attiene all’aspetto geologico, a seguito di numerosi eventi tellurici, consentì, di aggiungere al volume uno novo; senza ricostruire la parete crollata per la qualità del paramento murario, furono realizzati archi e colonne per consentire il continuo murario e l’accesso alla nuova navata al resto della chiesa; innalzando alla testa di questa sul fronte ovest il nuovo campanile  (Foto 01).

L’ingresso principale, immette direttamente nella navata (5-6), mentre quella laterale conteneva rispettivamente, il fonte battesimale, la porta delle donne e gli altari dedicati alla Santa Madre e alla Madonna del Carmine; sul fronte nord della navata erano allocate piccole nicchie per altre devozioni, la cui consistenza e caratteristiche di rifinitura sono andate perse nel corso dei continui lavori di manomissione.

L’’interno, si presentava scarsamente illuminato, a tal proposito va rilevato che la finestra, sopra l’ingresso, quando illuminava la navata, segnava il termine della divina liturgia, cosi come quella alla testa dell’absidale indicava l’inizio.

Superato il varco di accesso, a mano destra era il fonte battesimale, l’elemento lapideo, scampato a diversi crolli, in fine fortemente danneggiato è stato utilizzato come materiale di spoglio.

Dal settembre (1471 la chiesa diventa il luogo di approdo anche degli esuli Arbanon, (oggi Arbëreshë) proveniente dalle terre sparse dell’Epiro secondo le divisioni dell’impero con capitale Costantinopoli (1). 

Questi rispettosi dei principi religiosi, si insediarono nelle prossimità della chiesa realizzando i tipici rioni in consistenza di capanne, secondo il protocollo d’insediamento importato dalla terre citate; e furono proprio gli arbëreshë da quel tempo ad integrare al malandato presidio religioso, quanto citato sopra.

Da ciò si deduce che la Chiesa dagli inizi del XV e sino alla meta del XVII secolo, ospitò anche il patrono Sant’Atanasio l’Alessandrino (7).

Giunti gli Arbëreshë nel Casale, sotto la guida dell’effige Alessandrina, trovato l’antico manufatto, intitolato alla Grande Madre di Costantinopoli, considerarono come un segno divino l’emblema religioso,  ritenendo il luogo como la terra promessa.

La chiesa nel passato era anche nota per il suo ipogeo, dove la popolazione trovava sepoltura nella chiesa, mentre nel terreno posto nel lato nord, trovavano cristiana sepoltura, forestieri, persone uccise,  suicida, adulteri,  ladri e pagani, tutto ciò sino nell’Agosto del 1726, quando alla, ecclesiae Sanctae Sophiae, venne sostituita da uno più moderno intitolato a S. Atanasio, al centro del paese.

La chiesa dalla metà del XVIII secolo, fu lasciata al suo lento e inesorabile destino, ormai fuori dal centro urbano, usata solo nel periodo di settembre, poco più di quindici giorni l’anno, per i festeggiamenti della Madre Santa.

In oltre, dal 1839, impedita la funzione di storico ipogeo, per disposizioni regie, che venne allestito, proprio in quel pianoro dove i soldati Bizantini giunsero nel IX secolo.

In fine, il 23 Febbraio del 1957 avviata la procedura di recupero, visto il suo precario stato strutturale, fu unificando tutta la superficie interna sotto una impropria carena rovesciata cementizia (5-6)

Alla luce di ciò nella chiesa di Santa Sofia, da oltre un millennio è celebrata la divina liturgia di S. Giovanni Crisostomo in greco.

Prima dai soldati Bizantini per difendere il confine storico, poi dagli Arbëreshë a seguito della caduta di Costantinopoli, un percorso identitario che senza soluzione di continuità utilizza la stessa chiesa e lo stesso rito greco.

Per dare merito di ciò, dal 17 al 20 settembre 2019, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, con la Sua storica visita nella Diocesi di Lungro, ha voluto premiare l’amore degli Arbëreshë verso la Madre Chiesa di Costantinopoli.

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TRE PECCATI INCONSAPEVOLMENTE DIFESI DELLA NOSTRA STORIA: BORGHI ARBËRESHË, ARBËRIA E SCANDERBEG

TRE PECCATI INCONSAPEVOLMENTE DIFESI DELLA NOSTRA STORIA: BORGHI ARBËRESHË, ARBËRIA E SCANDERBEG

Posted on 24 gennaio 2021 by admin

AVENDO AVUTO UN INVITO AD ASCOLTARE PER INTERVENIRE, VI INVIO QUANTONAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il patrimonio culturale arbëreshë, notoriamente tramandato attraverso la forma orale e la consuetudini d’ambito, dagli anni settanta del secolo scorso è stato scosso dalle nuove generazioni che hanno intrapreso, a loro dire, la via dei discorsi nuovi.

Questa è stata l’epoca che ha prodotto la “nuova alba culturale” dove i pittori pur di vedere al loro seguito, generi che sognano bagliori di luce, ne fanno di tutti i colori, escluso, quelli più opportuni o a tema pittorico.

Le manifestazioni di pigmentazione, così attuate, sono drammaticamente penose e variopinte senza alcun senso per il proseguimento del protocollo identitario; per questo, urgono misure preventive atte ad arginare le soverchianti  folgori.

Ormai viviamo una stagione di confusione totale, basti solo porre l’accento sulle innumerevoli manifestazioni prive di senso e di garbo, generalmente aperte al grido di Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg e tanta altre diavolerie che è vergogna citare, perché si usa vestirsi a mo variopinto con cui disegnare a terra  ruote, cerchi e ridde, immaginando di stupire gli spettatori che allibiti si danno a gambe.

Tutte manifestazioni che lasciano il tempo che trovano e non interessano a nessuno, se non i comuni praticanti, che nel vedersi abbagliati dai riflettori della ribalta, pensano di aver fatto festa, senza rendersi conto di  bruciare quanto non gli appartiene.

A tal proposito e senza dubbio alcuno, dei tre componimenti: Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg, è bene rilevare, che nessuno di essi trova allocazione nella storia, neanche in forma di ombra, per la popolazione minoritaria che oggi vive la REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË.

Questa deve ricevere rispetto da tutti, sin anche, chi travestito da pifferaio, saltimbanco e ogni genere d’inadatto alchimista, crede di poter disporre a suo piacimento del patrimonio che non ci appartiene, perché ricevuto per consegnarlo alle nuove generazioni, per questo più rimane puro e intatto dalla sua origine storica e più ha durevolezza nei secoli.

Nello specifico iniziamo a porre l’accento, con forza e senza sorta di dubbio alcuno, che la denominazione “Borgo” non ha alcuna attinenza storica, urbanistica, architettonica, sociale, economica culturale, sia di tempo, sia di luogo, sia di uomini;  i paesi arbëreshë sono Katundë, il parente stretto di Castrum, Paese, Casale e rappresentano storicamente l’inizio dei processi urbanistici delle città aperte, oggi metropolitane.

A proposito del concetto di Arberia, per com’è inteso, vorrebbe essere uno stato, con i suoi abitanti, un proprio governo, una propria autonomia, con proprie leggi e comunque si giri e si osservi il concetto, nulla del genere esiste, in quanto gli arbëreshë sono una minoranza storica italiana, verso la quale lo stato offre tutte le tutele di rispetto dovuto a quanti hanno saputo integrarsi e proteggere il territorio con lo stesso senso degli indigeni, gli stessi che li accolsero sei secoli or sono.

Relativamente all’appellativo con cui viene soprannominato Giorgio Castriota di Giovanni, (volgarmente denominato Scanderbeg) bisogna stare molto attenti nell’utilizzare o il nome o l’alias.

Perché l’eroe con intelligente astuzia, per evitare che il suo popolo e le terre di quest’ultimo fossero cancellate dal ricordo degli uomini, realizzo uno degli stratagemmi che la storia ancora stenta a comprendere e valorizzare.

Egli per questo resosi conto che non aveva possibilità di prevalere sui cani turchi, operò la strategia seguente, grazie al patto di mutuo soccorso che il padre Giovanni aveva con Il re di Napoli, Vlad I, i Principi dell’allora Epiro nova e Vecchia, trovando il modo di lasciare un messaggio indelebile, irriconoscibile ai turchi, e unisse quanti vivevano le terre oggi denominate Albania e nel frattempo, salvare lingua consuetudini, metrica e religione nelle terre del meridione allora regno di Napoli.

Alla luce di ciò, quando si fa uso del suo nome, bisogna guardarsi attorno per comprendere cosa pronunziare, per questo se state in terra d’Albania gridate con forza, ai quattro venti, l’appellativo “Skanderbeg”, lo slogan nato per unire e risvegliare antichi legami in senso di confini territoriali.

Tuttavia se vi dovreste trovare, per caso, negli sheshi o ambiti della regione storica, il luogo dove la lingua, le consuetudini, la religione, fa vibrare i cinque sensi Arbëreshë, per non cadere nel banale è d’obbligo usare solo ed esclusivamente Giorgio Castriota il valoroso figlio di Giovanni; null’altro.

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APPELLO AI SINDACI E ALLE ASSOCIAZIONI DELLA REGIONE STORICA ARBËRESHË

APPELLO AI SINDACI E ALLE ASSOCIAZIONI DELLA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 01 gennaio 2021 by admin

ESSERE DI PIÙ, SOLO PER FARE IL CARNEVALE DI PIETRANTONIO NON È DIGNITOSO.

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Mi rivolgo a tutti voi perché siete l’unica forza, assieme a un numero ristretto di saggi, che potrebbero preservare e dare continuità storica al protocollo identitario più solido del mediterraneo, diventato meta di comuni protagonisti.

Sono ormai due decenni che agli arbëreshë si vedono servito a colazione, a pranzo, a merenda e cena, tutti i giorni, comprese le feste comandate, pietanze a dir poco paradossali, proposte come la panacea per evitare il declino culturale.

Ad assumere il ruolo di cuoco, comunemente, sono quanti nelle vita non hanno avuto accortezza nel preparare adeguatamente il proprio processo di scolarizzazione, da ciò immaginano che per fare pietanza bastasse miscelare, alla bene meglio, una serie di ingredienti per meritarsi la ” Stella Michelin”.

Purtroppo non è così, sia per le stelle e sia per essere  annotati,  in quella istituzioni globale,  per i beni materiali e immateriali, a cui si giunge solo se capaci di allestire pietanze irripetibili .

Sino a quando la lingua, le consuetudini, la metrica, la religione molte volte stravolte per essere imposte, non saranno storicizzate univocamente, tale che si possano analizzare, secondo protocolli certificati, unici e indivisibile, in radice, materiale e immateriale, tutto sarà mero  protagonismo utile solamente a sminuire il canto del gallo che non ha la forza del monte “Athos” su cui salire e si  accontenta dei cumuli di prossimità per il riciclo.

Ecco perché sindaci e i pochi esperti sono diventati l’unica risorsa che può e deve, riportare agli antichi splendori, il senso della Regione storica Arbëreshë, essa non ha bisogno di verifica, non ha bisogno di essere formata, deve solo ed esclusivamente depositata stesa, per epurare dalle sue 240 pieghe, le muffe che la pigmentano impropriamente.

Quanti sino a oggi sono stati alla ribalta inutilmente e senza alcuna coerenza è facile individuarli, sono il nostro male, e non basta che usino parole e adempimenti  anglosassoni, turkofoni, germanofoni per ritenersi i conservatori del sacro Graal, in quanto dai veli pietosi di cui si coprono, si scorge che si tratta di semplice contenitore di aceto riversato.

Faccio appello ai sindaci e agli organi istituzionali, che urge individuare competenti esperti nelle varie discipline di’indagine, non attraverso “forme dipartimentali curricolari”, ma sperando nell’acume politico, che sappia distinguere il gruppo di lavoro multi disciplinare  in grado di ridare senso all’antico modello consuetudinario arbëreshë, in un numero di figure che non superino le dita di una mano per evitare incroci in numero di due.

Si vuole comunque precisare che in tutte le civiltà dell’antichità, anche gli arbëreshë, sono storia di uomini e non devono essere sempre considerati come il popolo: ignudi in riva al mare, con le mani proiettate verso il cielo si lamentava in lingua ignota; e come tutti i popoli della storia predisporre metodiche di studio indirizzate verso l’edificato storico e le vicende di di equilibrio messe in atto nel èieno rispetto tra esigenze dell’uomo e ritmi dell’ambiente naturale.

Gli arbëreshë non sono esclusiva espressione linguistica, essi sono i portatori sani di un modello sociale inestimabile,  indagare per comprenderne i significati, è il dovere che hanno quanti si sentono tali; per questo è irrevocabile  predisporre misure idonee per leggere senza preferenza alcuna verso  gli elementi tangibili ed intangibili che caratterizzano la minoranza e l’ambiente naturale che li ha da sempre coadiuvati.

Un arbëreshë non è più lo stesso se perde la sua radice, quella che gli ha storicamente permesso  di realizzare il proprio micro cosmo ideale in cui attraverso la bonifica e il costruito storico, i rapporto sociali tra simili, all’interno dei centri antichi, in armonia con gli indigeni e l’ambiente naturale vive ancora oggi.

Tutte le i generi che vedono o sentono gli arbëreshë: parla minore, ballata che descrivendo forme  circolari perché è sempre Pasqua, minimizza la minoranza e tutti gli illustri che per essa e le terre dove vissero diedero la vita, ad iniziare dal noto eroe Giorgio di Giovanni Kastriota.

Si Kastriota! come Kastrum e non Borgatari, o Borgo, diffusamente si individuano gli oltre cento agglomerati urbani facente parte la regione storica, perché costruiti  secondo il disciplinare tipico della famiglia allargata, la stessa di estrazione Kanuniana,  caratterizzante queste antiche popolazioni.

Per confermare ciò basta che vi rechiate a Cavallerizzo in Provincia di Cosenza, a Ginestra in provincia di Benevento, a Casal Nuovo in provincia di Foggia, questi solo per citarne alcuni dei più caratteristici di questo fenomeno sociale; qui dove per necessita pure se nessun riecheggiare si manifesta, i “Veri arbëreshë”, avvertono magicamente di esser nel proprio “Sheshi”, ed ecco il miracoloso, calore del costruito storico che ti avvolge e i cinque sensi che riscaldano il cuore e la mente.

 

“AUGURI A TUTTI E BUON 2021 “L’ANNO DELLA STELLA COMETA”

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GJITONIA: MEMORIA DEI CINQUE SENSI, ZËMERA I SHESHIT ARBËRESHË

GJITONIA: MEMORIA DEI CINQUE SENSI, ZËMERA I SHESHIT ARBËRESHË

Posted on 22 dicembre 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Se l’idioma e la consuetudine seguono senza soluzione di continuità la metrica del canto, questo diviene il mezzo attraverso il quale la storia arbëreshë imita il cuore quando ripetere i battiti per far vivere l’uomo.

Questa è il principio su cui si basa l’esistenza di un popolo tra i più enigmatici del mediterraneo, prima nella loro terra di origine a est delle rive dell’Adriatico, identificati nel corso della storia come:  Kalbanon, Arbëri e Arbanon e dal XIII secolo anche nelle terre a ovest dello Jonio e dell’Adriatico, con il nome di Arbëreshë.

I due modelli Arbëri  con  radici equipollenti, nati e innestati poi in territori paralleli; i primi  a misurarsi con i popoli che di li a poco iniziarono a piegarli; i secondi, per non seguire questa sorte emigrarono, garantiti dall’essere lasciati vivere con il proprio patrimonio identitario.

Di queste  popolazione, “comunemente inquadrata esclusivamente linguistica”, si fa un gran discutere della più caparbia, ovvero gli Arbëreshë, la risorsa da valorizzare, in forma di parlata, associata  addirittura a una forma scritta, necessità di cui ancora oggi non si comprende l’esigenza, nonostante resti apparecchiata una vivace e coloratissima trattazione, a dir poco paradossale e della quale nessuno si assume l’onere di essere madrina o padrino; nel contempo prende il largo, il comunemente, libero pensatore,  fantasmagorico e colorato, divulgatore di fatti, luoghi e  cose senza senso.

In poche parole un teatrino ineguagliabile, del quale la cultura in senso generale cerca di coprire con veli pietosi, lasciando apparire così, gli arbëreshë al pari di una generica minoranza che evidenzia la propria radice ballando e volteggiando con fazzoletti, legati ai polsi, mentre gli uomini divertiti stanno a guardare che arrivi il tempo del pasto.

Nessun ripensamento ha avuto ragione nel convincere  che gli arbëreshë  sono solo una lingua diversa, sin anche quando furono emanate leggi, che dovevano tutelare esclusivamente questo aspetto “maritato” a un ambito urbano, denominando impropriamente (Gjitonia come il Vicinato) per  accennare anche agli ambiti urbani come un patto di prestito deformato, coperto con veli pietosi senza rilevanza.

E fu così che i numerosi elementi caratteristici e caratterizzanti, raccolto più per necessità e  non perché parte fondamentale della tradizione, innestando sin anche, elementi, provenienti da anfratti mai attraversati o vissuti dagli arbëreshë.

Purtroppo, tutti gli istituti il cui protocollo seguiva imperterrito questa rotta, hanno terminato la loro corsa in malo modo e i risultati stanno stesi alla luce del sole, con la speranza che vaporizzino, non offrendo così  appiglio alcuno dove asciugare i fazzoletti di lacrime  amare legate al polso.

Se oggi, una fiammella è stata accesa per la minoranza storica arbëreshë e illumina le consuetudini, la metrica secondo la forza del magico modello che la sostiene, lo si deve a pochi esperti, mentre dalla parte dei comunemente,  nessuno ha avuto il buon senso  di chiedere scusa a quanti hanno individuato le essenze nella loro originaria forza.

Dati di fatto concreti contenuti chiaramente nella prima migrazione, da cui emerge palesemente che si disposero secondo arche prestabilite e prevalentemente marchiate della religione greca bizantina, (confusa per ortodossa),  rotta non casuale, e fortemente controllata anzi, si direbbe proprio un accanimento terapeutico, inferto per far apparire tutto come “arco di ponte” in favore della romana religione.

L’esigenza di produrre questo breve nasce, con la certezza “matematica” che gli ambiti e le caratteristiche delle genti arbëreshë, non sono esclusiva espressione idiomatica, ma soprattutto espressione di luogo, ambiente naturale e vissuto secondo un disciplinare antico, battito del tempo regolato delle stagioni e le procedure ad esse legate per rendere possibile la convivenza tra arbëreshë e natura già nota.

Gli ambiti così organizzati sono riconducibili alla Regione storica Arbëreshë, insieme indissolubile non per l’espressione idiomatica che pur se mantiene la sua radice, si frammenta quando si riverberata tra i numerosi anfratti simili; per questo complementare a elementi identificativi forti, sia in forma materiale e sia in concetti immateriali, quali avvenimenti, gestualità, suoni, comportamenti, ritualità e scelta di ambiti naturali paralleli, tutti in egual misura bonificati edificati per poter essere mantenuti secondo adempimenti in spazi liberi e in spazi edificati.

Sono proprio questi ultimi a essere considerati le culle, le purpignere entro cui i valori, in forma di labirinto del gruppo familiare allargato,  sono depositati e certamente non  alla portata culturale di quanti si sono mossi senza un progetto preliminare da seguire.

Secondo le ricerche storicamente riconosciute come brillanti, solo con una base come quella appena accennata si sarebbe potuto dare seguito a livelli superiori, a cui dare seguito alla lettura degli elementi e comprendere il significato linguistico di radice e non il comunemente indifferenziato della terra di origine.

Tutto questo non per dividere il significato di due specie, ma trovare la radice, rispetto ad altre anomale che non sono simili neanche nella forma di sviluppo, in tutto, creare presupposti idonei di spagliatura capaci a restituire la bianca farina per fare il pane, non è certo preferire la crusca come hanno fatto nelle regioni dove per volontà dei conquistatori si buttava il bianco prodotto secondo volere dei conquistatori.

A tal fine è bene precisare che sino a quando si perderà tempo a classificare favole, parabole o parlate locali, non si produrrà nulla di solido, in quanto l’unico componimento scritto che nessuno ha mai composto avrebbero dovuto fare riferimento esclusivamente:

“agli appellativi del corpo umano e lo spazio costruito e agreste che li circondava e garantiva la vita in origine”.

L’elenco alfabetico dei vocaboli  espressi in italiano, era l’unica isola da trovare, poi da qui ripartire seguendo le favole, così come fecero gli ispiratori fratelli Grimm per la lingua tedesca nel 1871, tassativamente e senza confusione alcuna, prima il corpo umano e gli ambiti di crescita e poi le favole.

Che l’Arbëreshë non sia solo una mera espressione linguistica, lo dimostra la non esistenza di un paese appartenente al ceppo identitario a cui non siano legati i quattro elementi fondamentali per l’insediamento, ovvero: un presidio religioso “kishia”;  luogo di avvistamento,” Brègù”; una trama urbana denominata “sheshi”, il labirinto; identificato come “Katundë” .

Oltre cento paesi, che ancora oggi, conservano questa trama urbana, nella quale depositarono, o meglio costruirono il micro clima ideale per allevare, consuetudini, metrica e attività uniche, non in forma di gioielli o altro a cui si potesse dare un valore commerciale, ma semplicemente, creare presupposti paralleli senza i quali il valore dell’identità arbëreshë, non si sarebbe riverbera per secoli identicamente.

Un’identità, non è mera espressione linguistica come disinformate sedi, prive di alcuna formazione, se non titoli equipollenti, si sono cimentati a definire mono tema, immaginando che annaffiare con forme di scrittura liquida, avrebbero sostento la crescita, sotto il sole, che si sa, fa sempre evaporare ogni cosa.

Un incauto adempimento che se opportunamente, progettato, come poi tutte per tutte i popoli anti chi si è proceduto, iniziando per protocollo dagli elementi materiali, ovvero i contenitori fisici dell’espressione linguistica regolata esclusivamente dallo scorre re del tempo e le stagioni.

Per concludere, possiamo affermare che quanti hanno immaginato di fissare per tutelare la cultura o il senso generale della minoranza storica più solida del mediterraneo, affidandosi solo allo studio o espressione linguistica di questo popolo hanno fatto un catastrofico errore, giacché, se la lingua in vari modi esprime un modo di destare curiosità e interesse, le risorse solide sono conservate nelle architettura, nell’urbanistica e nelle regole non scritte, a tutti note, per convivere e progredire nella più solida e leale rapporto tra ambiente naturale, ambiente costruito e generi arbëreshë.

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RESILIENZA: VITAMINA STORICA DEI CENTRI ANTICHI

Protetto: RESILIENZA: VITAMINA STORICA DEI CENTRI ANTICHI

Posted on 06 dicembre 2020 by admin

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