NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Non esiste una frase più abusata come “le migrazioni degli arbëreshe”, spesso chiamata in causa per nobilitare atti che poco hanno più della mera numerazione, di avvenimenti senza ragione di senso, tempo e luogo.
Questa è la costante che si ritrova ogni qual volta, si narrano i trascorsi in terra ritrovata della Regione storica Arbëreshë dal XIV secolo nel meridione italiana.
Un insieme di avvenimenti approvato nelle sedi più alte ed altre, dopo un processo di assemblaggio formale, avviato in assenza di adeguate competenze, se non in forma di scriba ostinati, i pellegrini che di porta in porta elemosina favole, per poi lasciare, nel miglior dei casi, perplessi quanti aprono ad ascoltare quelle parole ignote.
Secoli di lavoro, durante i quali si è più volte ripetuto il rituale dei “stake holder arbër ” (il palo cui assicurare la scommessa dell’idioma scritto arbër), per dare forma alla grammatica greco/latina, contornata di Italica, Francofona, Germanica, Ispanica macedonia linguistica.
Ne è venuto fuori un componimento, impaginato alla bene meglio, povero di info-grafiche, articolato esclusivamente lungo le rive; dell’idioma, da un lato e della musica dall’altro, attraverso i quali si è cercato di arginare la cultura, in forma di riecheggi musicali, di cui resta ancora ignoto il significato e il termine del fare tutela.
Si parla e si narra del periodo greco o romano per passare da Hora, Civitas a Borgo senza avere la minima cautela sul dato che gli Arber hanno un loro sostantivo per identificare i centri abitati, senza il bisogno di prestiti, perché identificano il loro costruito con: “Katundë”.
Si parla del tempo prima e durante i trascorsi Bizantini, per poi volteggiare sulle migrazione dal XIV al XVII secolo, senza avere consapevolezza che tra un periodo e l’altro passano secoli di vissuto, senza che mai un’accenno a qualche avvenimento preparatorio venga fato.
A tal fine e prima di addentrarci nelle vicende storiche che hanno segnato il tempo degli arbër, è bene precisare che ogni cosa sarà valutata e osservata con gli elementi di cautela specifici. ovvero, l’idioma, la metrica del canto, le consuetudini in forma di genio locale e le credenze, in tutto, la formazione sociale dell’epoca cui si fa riferimento, di volta in volta, senza saltare secoli.
Le terre dove gli Arbër si stanziarono furono luogo di conquista, di numerose popolazioni, queste non vi giungevano per distruggerle e reprimere gli indigeni, ma conquistarle e viverci, motivo questo, tutte le popolazioni che vi approdarono, nel meridione italiano, depositarono elementi caratteristici e caratterizzanti i luoghi con elementi di provenienza.
A questo punto è bene precisare, con certezza, che la migrazione tra la sponda a est dell’Adriatico verso quella posta ad ovest è un fenomeno latente che dura da millenni, tuttavia se si deve citare una che abbia senso per le popolazioni arbër essa si articola tra il 1468 sino al 1502.
Questa ha origine quando il principe Giorgio Castriota muore e la sua consorte per trovare un porto sicuro dove vivere, nel ricorso del consorte, approda ben accolta a Napoli, dove vive sino al 1502.
È questo intervallo che le genti Arbër armati dei principi di tutela più profondi verso i valori identitari, in precedenza citati, preferisce seguire la principessa Donica e allocandosi lungo le arche del regno partenopeo, dove porre in essere la difesa delle cose identitarie, con volontà di convivenza, che nel medio periodo sfocia nel modello di integrazione, più longevo e solido della storia del mediterraneo.
Altre migrazioni latenti vi furono in sovrapposizione a quanti del 1468 sino al 1502 si stabilirono nel meridione, ma riferite ad altri avvenimenti e cosa fondamentale non fanno parte di quella scelta storica di seguire la principessa Donica Arianiti Comneno.
I fatti succedutisi, dopo la migrazione storica furono di scontro, confronto, terminando nella conviviale integrazione che sino al secolo scorso ha difeso con forza i valori identitari, senza mai perdere la retta via, anzi nel XVIII secolo aggiunse il valore di costume da sposa, nelle macro area della Sila greca e dopo questo storico intervallo, con l’unità d’Italia è iniziata la china che di giorno in giorno disperde cose, valori e orientamento.
Conferma di ciò è, la legge 482/99, la quale risulta essere completamente sbagliata, in quanto non porta nel suo enunciato esplicativo alcun riferimento alle cose proprie agli “Arbër o Arbëreshë, proponendo nei fatti la tutela della lingua “Albanese” quella che si parla oltre Adriatico che è altra cosa, in quando quest’ultima ha subito influenze diverse e seguito un itinerario di sottomissione, lo stesso dal quaele gli Arbër del 1468 cercarono di fuggire.
Prova di ciò, nella citata legge all’Art.2, testualmente riporta: “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princípi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni Albanesi……….”
In tutto, la legge 482/99, non contemplando la seconda parte dell’articolo 3, ovvero l’adoperarsi a correggere gli errori e non fa alcun richiamo all’Art. 9 fondamentale.
Ciò ha prodotto effetti interpretativi, dimostratisi poi nel tempo come veri e propri colpi di ariete nelle attività del vivere comune e dei costumi; nel scuole trasformandole in presidio di lingua ignota; nei centri antichi consumandone le disposizione delle cose e dei segni.
Se consideriamo che gli assi viari (Rruàthë) dei centri antichi, resi carrabili, oltre i luoghi ameni della memoria, ritenuti strumenti utili per condurre da un posto ad un altro e non per avvicinare le cose e le persone.
Se aggiungiamo l’aver violato il costruito, gli elevati e gli spazio comuni, cancellandone forma e senso, richiamandoli come obiettivi di agenda sicura per i canali turistici, il ventagli del delle cose fatte è completo per evitare il respiro nel risalire la faticosa china Arbër del nuovo millennio, ma a generare tempesta che allontana il senso dalle cose dalla retta via.
Un esercizio proposto come pregevole, per progetti speciali, che a ben vedere, le azione possiedono un denominatore comune: non sviluppano nulla che abbia continuità con il passata consolidato con presente, per futuri solidi e fatti di cose genuine.
A questo punto sulle strategie, attuate, è opportuno tornare indietro con la memoria e precisare che le vicende che legano i processi d’integrazione nella regione storica arbëreshe, ricordano un consistente numero d’illustri, pochi mediocri e uno da dimenticare, da non rievocare in alcun modo, perché spregevole, vile e dir poco più di Caino.
Anche perché l’emulazione del personaggio malevolo è più facile di quanti con senso, garbo e intelligenza, hanno saputo dare alla Regione storica Arbër, quella notorietà di cui rimangono ancora intrise gli ambienti del sapere, perché avevano come fine il rispetto degli uomini e di tutti i generi che vi nacquero, senza denigrare disprezzare o escludere nessuno.
La forza vera della famiglia allargata Arbër, è contenuta nei valori non scritti del Kanun, ovvero, tutti partecipano al bene comune e coralmente senza distinzioni di genere capacita e forza lavoro e ogni facente parte deve dare il meglio di se, senza invadere per arroganza o convinzione propria, le arti dove altrui uomini sono migliori, altrimenti si fa il segno che marchia la fine.
P.S.
Una nota riferita al periodo che ci apprestiamo ad affrontare; il Martedì di Pasqua non è la giornata dei balli coreutici, delle ridde o la raffigurazione delle battaglie vinte da Giorgio Castriota, in quanto è storicamente comprovato che esse siano denominate “Valje” ovvero, le giornate di inizio estate, che va da marzo a Maggio: “Vera e Arbreshëvet” il cui messaggio vuole ribadire l’integrazione sostenibile in atto, tra ospiti arbër e ospitanti indigeni.
I balli tipici raffigurano “l’abbraccio” rivolto alle genti indigene; nei meriti è bene precisare che: due uomini aprono il semicerchio, le donne lo descrivono e altri due uomini lo chiudono, tra uomini e tra donne non vi è contatto fisico in quanto sono uniti da fazzoletti tenuti in mano; gli uomini rappresentano la forza delle braccia e delle mani all’estremo di un ipotetico corpo, gli uomini; il corpo vero e proprio è rappresentato dalle donne, le generatrici la finezza delle cose del corpo umano.
I canti in elevati di genere, sono la conferma che un idioma, la cui metrica vive coralmente e uniscono i generi, vantando con i vestiti tipici femminili che con garbo e movenze raffinate, mai estreme e volgari, la propria identità, con il proprio costruito storico in forma di Rruha, Kishia e Shëpi i luoghi dell’opera integrativa e culla della propria identità.