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BREVE STORIA DEI  KATUNDË ARBËRESHË

BREVE STORIA DEI KATUNDË ARBËRESHË

Posted on 23 marzo 2020 by admin

Breve storiaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La storia ci insegna che spesso ogni cosa buona è stata distrutta per essere in seguito faticosamente ritrovata e raffermata; questo travaglio ha interessato anche i Katundë arbëreshë, il cui costruito storico, oltre alle vicende li avvenute, sono state distintamente compromesse, oggi spetta allo spirito di buon senso di quanti vivono, questa pena riaffermare e rendere giustizia al principio storico citato.

La minoranza storica definita dall’odierna letteratura come, Arbëreshë affonda le sue origini nella costituzione dei themati, quando la capitale dell’Impero era Costantinopoli.

Nota  l’estensione  dell’impero, i themi di confine rappresentavano la linea più delicata del nuovo sistema, ovvero, la cui gestione dei confini, non più come ai tempi Roma capitale, fu realizzata secondo un nuovo modello territoriale,  in cui, per tenere ben difeso e saldo il confine territoriale, venne istituita la figura dello stradiota, “il soldato contadino” secondo un antichissimo modello di radice  centro europea.

È in questo periodo della storia, che si può ritenere, senza perdere il senso del discorso, sia messo in evidenza e affinato il gruppo familiare allargato, che poi ritroviamo riassunto nelle pagine Kanuniane.

Gruppi familiari allargati fedeli al governo centrale, il quale affida consistenti porzioni di territori di confine e non solo, da difendere e nello stesso tempo  coltivare e rendere produttivi, la metodica trovò forte applicazione anche nelle storia  della solida Venezia e in seguito nel corso dei secoli, in numerosi frangenti, il modello, venne applicato con le stesse dinastie,  prevalentemente erano di origine Balcanica, avendo come risultato sempre la difesa di territori in continua disputa.

Ed è su questi brevi accenni storici che si deve indagare, dalla fine del medio evo e l’inizio della storia moderna, per estrapolare cosa sia avvenuto e caratterizzato unitariamente gli agglomerati urbani della Regione storica diffusa Arbëreshë, dal resto dei paralleli, terrestri, che attraversano da est a ovest il mediterraneo.

Oltre cento paesi, uniti dallo stesso idioma, posizione altimetrica, geografica, toponomastica, consuetudine e religione, nascono e senza soluzione di continuità progrediscono sino ad oggi, se si esclude un esempio malamente interpretato da istituzioni e tecnici.

Tuttavia, focalizzando ulteriormente , con brevi accenni, l’aspetto religioso, in specie almeno fino al concilio di Trento, le politiche ecclesiali, sono state imposte secondo prerogative romane attraverso rotacismi religiosi, poi dal 1742 con l’istituzione del Collegio Corsini, che doveva lanciare aperto il solido balcone clericale, da cui liberare una treccia di “matrimonio” con l’ortodossia più radicale orientale.

Nonostante tutto ciò gli arbëreshë hanno tenuto solide le proprie radici, con sacrifici e patimenti immani, proprio come i soldati stradiotti facevano in quelle battaglie, quando nei confini resistevano agli invasori in soprannumero, solitari ed imperterriti, nel mentre i rinforzi delle truppe bizantine giungessero a regolare i conti con i malevoli invasori.

Tornando alla storia del nostro Katundë arbëreshë va sottolineato che dopo un periodo medio breve di confronto e scontro iniziarono a edificare le prime case in muratura, prima modeste e riferendosi al solo territorio di pertinenza, il recinto, la casa e  l’orto botanico, solidamente ed esclusivamente abitato e usato dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici. da lavoro e trasporto.

È in questo spazio circoscritto che avviene il miracolo di gjitonia con il passaggio della famiglia allargata, in urbana e poi, per così dire, “sinteticamente metropolitana”.

Il modello sociale cambia la sua funzione in relazione ai processi economici e che si sviluppano dal XV al XVIII secolo, quando i moduli abitativi quadrangolari a piano terra associano un paiano superiore prima e poi in seguito per le disponibilità della famiglia urbana, associano i famosi profferli per distinguere e godere dei frazionamenti ulteriori.

Il terremoto del 1783, detta nuove regole di edificazione e consente grazie all’acquisizione di terreno sino ad allora della chiesa, ed ecco che nasce una nuova forma sociale che consente di innalzare i noti palazzotti nobiliari con segni dell’architettura del rinascimento.

Fino a questo tempo gli arbëreshë sono stati lasciati operare secondo il proprio essere e le proprie leggi sociali, di confronto linguistico e religioso, è solo dopo l’unità d’Italia che ha luogo la deriva che oggi irreparabilmente viviamo e cui si dovrebbe prendere provvedimento.

In caso di emergenza oggi si chiederebbe l’intervento della P.C.N. ma è meglio che gli arbërehsë facciano da soli e diano mandato alla persona più emblematica del proprio gruppo familiare come facevano ai tempi degli stradioti; visto come abitualmente si muovono, gli emergenziali nazionali, i quali, magari  “udendo di deriva storica”, e traducendo tutto in acqua e terreni sciolti in movimento,  si presentano  come hanno già fatto, con una carovana di camion e portano i soliti tubi tubi,  negli ambiti arbëreshë; terminando per fare guai peggiori di quelli che abbiamo gia; d’altronde per loro una volta intervenuti  devono trascorrere i quattro decenni istituzionali per non pagare pena.

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UNITI PER UNA SOLA E INDIVISIBILE PARLATA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË

UNITI PER UNA SOLA E INDIVISIBILE PARLATA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË

Posted on 21 marzo 2020 by admin

L'uomoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Facciamo le cose per bene, almeno per una volta, invece di andar per cantine  a riversare vino che per la poca accortezza manuale, diventi aceto, come dicevano le eccellenze del passato, G. S., o E. F..

Cerchiamo di iniziare non dal basso e ne dal l’alto ma dalla vita terrena, ovvero da dove si sarebbe dovuto iniziare tanto tempo addietro, ovvero, l’identificazione del corpo umano, solo in questo modo la lingua Arbanon, poi Arbër e oggi Arbëreshë, come avvenuto per unificare idiomi di nazioni con superfici consistenti e che non avevano una regola unitaria, ha avuto inizio  identificando il  corpo umano di quanti storicamente condividevano quei territori.

Non si vuole inventare nulla di nuovo, ma semplicemente attingere una metodica basilare, come hanno fatto gruppi etnico di aree ben più estese della regione storica meridionale,in cui,  descrive e riconosce se stesso  ha funzionato e dopo secoli sono solidamente coesi e si riconoscono in quel dato di radice.

Altro dato fondamentale è rappresentato dall’edificato storico della sua dimora primitiva o modulo di base e i suoi elementi costitutivi r distributivi, per passare in seguito ai prodotti dell’orto botanico, a tutela della salute; ampliando la prospettiva d’indagine verso la definizione dell’ambiente naturale e le attività di produzione di sostentamento; in fine gli appellativi degli animali domestici oltre  quelli dell’operosità sui campi.

Già adesso il compito è arduo, giacché sono mutati i sistemi produttivi e di confronto, ma sicuramente nessuno dei paesi della regione storica arbëreshë di tutte e sedici le macro aree meridionali degli oltre cento paesi, che hanno memoria della loro radice, non possono allontanarsi troppo nel riconoscere univocamente in questi appellativi la propria radice.

Non è concepibile diversificare le parlate locali e creare una confusione di appellativi, in cui si pone in evidenza, solo cosa divide e non cosa unisce la minoranza storica più longeva del mediterraneo.

Qui di seguito si elencano e si accennano in italiano cosa va tradotto e senza ombra di dubbio alcuno nessuno avrà accento da aggiungere.

Capitolo I°    : IL CORPO UMANO; Anca, Braccio, Cuore, Destra, Gola, Mano, Naso,ecc., ecc.

Capitolo II°   : LA CASA; Porta, Finestra, Muro, Pavimento Solaio Piano, Camino, ecc., ecc.

Capitolo III°: L’ORTO BOTANICO; Aglio, Alloro, Basilico, Erbe, Finocchio, Mandorlo, Gelso, ecc., ecc.

Capitolo IV°: L’AMBIENTE NATURALE; Terra, Campo, Seminato, Strada, Fontana

Capitolo V°: ANIMALI DOMESTICI, DA LAVORO E LIBERI IN NATURA; Cane, Agnello, Asino, Buoi, Galline, Rondini, ecc., ecc.

 

Chi ha voglia di segnare la retta via con metodo e secondo gli insegnamenti della storia, può inviare il suo contributo di appellativi in italiano e scritti in arbëreshë (Scritti entrambi con l’alfabeto dell’italiano corrente) al fine di contribuire al progetto che ambisce ad unire quanti sanno e sono stati lasciati ai margini di questo percorso che doveva essere diffuso e non lo è stato.

In tutto lavorare tutti uniti secondo un progetto che ha tutte le carte in regola per lasciare un segno indelebile verso il quale tutti noi ci riconosciamo e non fare come chi senza licenza edilizia attendono il condono, pur sapendo che in caso di evento tellurico si vedrà la casa stesa irreparabilmente al suoli, gli uomini possono anche ignorare e ritenere che tutto passa e va, la natura NO!

 

P.S.

Oggi inizia Vera! l’Estate per gli arbëreshë che vivono secondo l’armonia dei cinque sensi , quella pura , “intima”; quanti vivono secondo questo elemento distintivo sono le figure invitate perché i soli capaci di ascoltare e sentire questo invito,  auspicio di luce per le cultura e la convivenza, mai illuminata  perché preferita all’ombra dello scorrere del tempo.

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IL CORPO UMANO, LO STATO, LA CASA, L’ORTO E GLI ANIMALI PER LA SOSTENIBILITÀ  CURMI, SHËSHI, SHËPIA, COPSHËTI, TËBUTURATË SATË SHËNDESËTH

IL CORPO UMANO, LO STATO, LA CASA, L’ORTO E GLI ANIMALI PER LA SOSTENIBILITÀ CURMI, SHËSHI, SHËPIA, COPSHËTI, TËBUTURATË SATË SHËNDESËTH

Posted on 20 marzo 2020 by admin

IL corpo umanoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) –  Il problema dell’identità è una delle questioni più difficili da affrontare nei contesti di una società come quella contemporanea, che pur se globalizzata va alla ricerca di tradizioni o episodi in forma materiale ed immateriale che  caratterizzi un ben identificato gruppo.

Nel meridione Italiano chi vive questa endemica vicenda è la minoranza storica denominata Arbëreshë, questa oggi, scandisce il suo “vissuto storico” tra episodi indigeni e quelli della propria radice, senza avere cura e memoria di cosa gli appartiene e quanto sia stato preso in prestito.

In questa prospettiva, dunque, nasce la necessità di disegnare un quadro di riferimento semplice e ben definito, attraverso il quale individuare “la matrice” quella in grado di essere parte integrante, in una prospettiva di appartenenza multiculturale e nel contempo capace di for­nire le coordinate necessarie al vivere civile, avendo ben cura di non uniformare popoli.

La questione dell’identità, intesa come valore descrittivo non solo dei singoli, ma anche e soprattutto come impronta costitutiva della comunità e della cultura che la caratterizza­, si può quindi proporre come oggetto d’interpretazione e di analisi critica, oltre che come elemento di costruzione della personalità storica di un ben identificato gruppo culturale.

E in quest’ottica di confron­to continuo, entrano in gioco le tradizioni e ciò che caratterizza il gruppo, solo queste possono costituire un fattore importante sia per la comprensione delle dinamiche costitutive delle differenze, sia come elemento di stabilità e di radicamento capace di consentire l’integrazione e l’acco­glienza delle alterità.

Non vi è dubbio che i luoghi vissuti da diverse personalità sociali e culturali, lì sviluppano e lì abitano nello scorrere del tempo, diventino l’elemento fondante di una riflessione condivisa con le identità, che di fianco scorre.

 

“Nulla nasce dal nulla;

ogni storia ha sempre una preistoria, nasce da una storia e prelude a un’altra storia”

 

Con queste parole Giu­seppe Galasso è riuscito a esprimere in modo lapidario la ne­cessità dell’uso della memoria, pensata e condivisa, esistenza delle identità collettive prime e individuali poi.

Accomunate da senso di appartenenza successivamente, vanno analizzate secondo prospettive di storicità primitiva e discernere cosa le è stato arbitrariamente assegnato.

In oltre il tempo ritmato tra globalizzazione e campanilismi per identificare l’oggetto della riflessione storiografica pone problemi nuovi e di non immediata soluzione.

L’omogeneità dei luoghi violentata dall’inconsapevolezza della politica economica, ignara del filo logico fornito delle carte storiche a tutela, del restauro dello stato dei luoghi, li ha resi protagonisti di prima linea, nell’usufruire del banale atto dell’abbellimento formale, specie quando lo sviluppo economico poneva nelle loro disponibilità consistenti risorse economiche.

Il risultato forse è in linea con le esigenze della spazialità contemporanea e con i processi di riconoscimento comunita­rio, rintracciabili nella società del consumismo odierna, ma l’usa e getta per poi rifare non è adatto per le originarie essenze o la memoria,  depositata ai margini del progetto e talvolta la prima ad andare in discarica, giacché ritenute poco adatte ad una modernità che porta nell’ignoto.

La connotazione delle diverse macro aree, dal punto di vista amministrativo, non sempre si dimostra capace di disegnare un ambiente nel quale i cinque sensi arbëreshë siano in grado di rintracciare i tratti distintivi necessari a intraprendere lo storico percorso identitario.

Percorrendo la storica via del complesso meccanismo condiviso, non è facile riuscire a emergere con coerenza in tutta la regione storica e adagiare l’immateriale e il materiale di appartenenza indispensabili ingredienti al ripetersi in armonica coerenza.

La dimensione globale dei paesi o Katundë arbëreshë ha contribuito in ordine fondamentale nel Mezzogiorno peninsulare con particolare pregnanza in ben determinate e identificate aree parallele.

Queste sono e costituiscono il luogo di ricerca, realizzazione di progetti e cosa fondamentale, che ad oggi manca , di confronto dell’analisi prodotte di quanti si si sono occupati con quelli che si occupano di ricucire i processi, politica, sociali religiosi e linguistico/consuetudinari di questi territori.

Ed è proprio nel confronto in lingua di macro area tra quanti vissero e vivono oggi, dalla capitale del regno sino all’angolo più sperduto della regione storica, che dovrebbe partire il progetto su cui edificare il contesto della realtà meridionale attraverso una alternanza serrata tra panorama geo/economico, strutture politiche e istituzionali e dimensione culturale e sociale.

In questa continua connessione tra l’idea del centro e quella di un tessuto periferico dovrebbe nascere il polo di attrazione, quel presidio ideale da cui avere gli ingredienti fondamentali per innalzare la “storia locale”.

Il territorio rappresenta la piattaforma della scienza storica, non vi è dubbio che la percezione della collocazione spaziale, in relazione con i legami identitari di appartenenza assumono un ruolo importante nella ricostruzione locale anche quando vennero innalzati i primi modelli edilizi, che rappresentano gli scrigni, o meglio le culle dove allevare la propria identità.

I termi “cultura” e “società” sono gli ingredienti più abusati nelle pagine di quanti fanno ricerca al giorno d’ggi, utilizzate diffusamente per disegnare il quadro del vivere e del sen­tire delle popolazioni attraverso relazioni dialettiche, comportamenti e ideologie delle quali poi non si creano mai momenti di confronto e affinamento.

Non vi è dubbio che il tratto ricorrente con regolare cadenza nell’analisi delle comunità meridionali, alle Tanto spazio ha dedicato l’antropologia storica, verso la presenza di una forte confronto tra gruppi con la sfera maggioritaria sia dal punto di vista comportamentale sia sociale/linguistico sia sacro, cristiano che bizantino.

Un nesso che non si esaurisce certamente nella tradizione tramandata nel caso degli arbëreshë attraverso una lingua ignota e senza alcuna forma scritta, identificandosi e dipendenti alla Chiesa bizantina impostata dalla terra di origine ma di cui trovarono intrisi i luoghi da loro intercettati per essere bonificati e vissuti.

Essi estendono i comportamenti entro i limiti imposti dalle forme istituzionali della religione, per addentrarsi in un universo nel quale hanno trovato lo spazio per la sopravvivenze di antiche tradizioni e devianze, in un coacervo di devozione e superstizione che ha costituito uno dei tratti distintivi della società arbëreshë, la più penalizzata e compromessa in tal senso.

Una specificità che ha fatto sì che molti studiosi siano finiti nel libero arbitrio, durante le analisi del contesto del Sud dell’Italia; specie nel legame tra antico e popolare in una chiave evocativa, producendo un intreccio allegorico che non sempre trovato riscontro, non essendoci stata  rivolta la giusta attenzione verso il ruolo delle istituzioni e delle strutture ecclesiastiche.

Perché l’approccio all’osservazione delle comunità possa davvero arricchirsi della vera storia, essa non può in alcun modo prescindere dalle condizioni ambientali, dalle caratterizzazioni immateriali,  dai rapporti sociali ed economici prodotte da situazioni e comportamenti sviluppati nel corso dei secoli.

La necessità del luogo, accanto alla consapevolezza dell’evoluzione, viene in questo modo a determinare il percorso metodologico necessario alla ricostruzione di qualsiasi identità.

Se nel Mezzogiorno appare costante la presenza, attiva e operante, di una minoranza capace di caratterizzare il territorio e la sua storia, essere e sentirsi parte attiva nel percorso di tutela e crescita della società, deve nel contempo mantenersi viva la sua tenuta morale e gli stili di vita della sue popolazioni, è necessario anche soffermarsi su di un tempo specifico della evoluzione del loro tessuto connettivo, capace di identificare i passaggi periodizzanti che diano una connotazione effettiva al legame dell’oggi con le sue radici.

È chiaro che i limiti cronologici della storia in senso generale, non  devono solo seguire  la regione storica o le sue sedici macro aree, ma per l’intera penisola meridionale italiana e le terre di origine.

Va cercato il punto comune di tutta la regione storica, in buona sostanza amalgamare  uomo territorio e risorse utili al sostentamento di una radice antica, tramandata oltre modo nella sola forma orale e senza alcun segno, se non quelli delle impronte,  dalla l’operosità tipica.

Una fase sospesa che parte dall’Alto Medioevo, nella quale segnalare le attività seguendo le sfumature dei confini esistenti tra la sfera civile e la sfera economica, una prospettiva che apre una finestra condivisa, o meglio creare un senso di appartenenza unitaria, che unisce e non divide il tessuto sociale.

Proprio per questo motivo, mantenersi in vita nel periodo storico nel corso del quale si sono poste le basi della percezione tra individui, ci doveva essere una parlata unica che non creava ne squilibri ne doppie interpretazioni per questo l’analisi di approfondimento che si sta eseguendo è finalizzata seguendo le orme dalle quali la preistoria, da una storia e il preludio di un’altra storia” appellava per descrivere il territorio Sheshi (lo stato), il corpo umano (l’individuo), l’orto copshëti,(la farmacia) gli animali domestici capshërat (risorsa alimentare e forza lavoro collaborativa essenziale).

Questa è la radice da cui partire, non ci sono altre vie ed è inutile  sprecare tempo immaginando che la Sapienza Orientale, seduta tra le rive del, Settimo e del Surdo”  a bighellonare possa trovare altre soluzioni diversi da quella di descrivere se stessi e gli ambiti di attesa.

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ROTOLI DI CARTACAPRA  (Thë mbjedurë e Dijes)

ROTOLI DI CARTACAPRA (Thë mbjedurë e Dijes)

Posted on 17 marzo 2020 by admin

Capra1NAPOLI (Atanasio Basile Pizzi) – Avventurarsi in disquisizioni di lettura cromatica con scenario la regione storica arbëreshë, se non idoneamente capaci nel distinguere cromatismi e sfumature, si finisce di scambiare il cielo con la terra e i generi con l’ambiente naturale.

La nota vuole redarguire con forza e determinazione, quanti hanno imprudentemente e impunemente scambiato diplomatiche, ai tempi in cui le notazioni si stilavano su carta canapa.

Gli arbëreshë per oltre quattro secoli hanno mantenuto viva la propria identità in senso idiomatico, culturale, religioso, esclusivamente in forma solenne e orale; essi hanno superato guerre, invasioni, carestie, terremoti, rivoluzioni, ancora guerre e ogni sorta di avversità naturale o indotta dagli uomini, ciò nonostante, dopo l’unificazione dell’Italia, inizia a smarrire la rotta con andamento pericoloso e deviante, non per colpa di altrui, ma per l’errata inculturazione adottata in forma scritta, artificio ignoto alla minoranza ma utile agli indigeni per copiare e riportare le altrui idee.

Il picco del degrado è raggiunto a seguito dei processi industriali e le migrazioni verso le città dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso.

Ciò che più lascia perplessi è l’indifferenza dei presidi storici preposti per la tutela culturale, proprio i saggiamente predisposti localmente con dovizia per la difesa dell’irripetibile modello sociale linguistico e consuetudinario in evoluzione.

Sant’Adriano, ma non il Santo, ha forgiato comunemente figure che avrebbero dovuto fare tutela, tuttavia l’ostinazione a ricercare, giudizi legali e processi evolutivi dell’idioma in forma scritta, ha lasciato al libero arbitrio aspetti materiali ed immateriali unici nei generi e di cui rimangono solo esili frammenti.

Il fenomeno s’intensificò quando agli inizi degli anni sessanta, del secolo scorso fu elevato tra i torrenti Surdo e Settimo, un presidio che avrebbe dovuto modificare il senso della deriva, ma l’incapacità culturale, figlia della poca preparazione, ha fatto si che quelle acque genuine prendessero la stessa direzione “Adriana e delle sue pertinenze”.

Si potrebbe ipotizzare che l’errore più grave sia stato fatto quando “i soliti prescelti”, inforcata la cattedra come condottieri, invece di segnare e diffondere certezze da bravi cavalieri, hanno preferire creare una muraglia di difesa della propria posizione per evitare di perdere l’aureola culturale precompilata, evitando con ostinazione a predisporre il ben che minimo progetto di tutela indispensabile,  a quel tempo, per ricucire passato presente e dare la linfa ideale per distinguere carta pecora dalle diplomatiche in senso di Kanun di radice in themi.

Forse questo è pretendere troppo, da semplici titolati,  incaricati di fare cose solide e durature, purtroppo i curricolari con poco più di venti esami (pergamena di basso livello istituzionale) ritenute in mani loro come eccellenze locali, si sono rivelate le meno adatte ad assolvere l’incarico di ricerca storica e tutela delle macro aree minoritarie.

Se a oggi non si comprende ancora cosa distingua il principio di regione storica, dal nomadismo delle popolazioni, è un grave errore e se quanti inforcarono quelle cattedre, appellano secondo un misero sostantivo indicatore di nomadismo, la regione storica è segno che ancora la deriva, continua imperterrita e devasta, restringere, consumando imperterrita il senso culturale della minoranza.

Svolgere certe attività non basta solo possedere un titolo generico o di medio valore in esami fondamentali, giacché servono esperienza di ricerca sul campo, l’unica a rendere merito e sviluppare ingegno, capacità imprenditoriale e cognitiva:

E’ solo dopo questo iter, più volte ripetuto, ad acquisire l’idonea visione di analisi, non ipotizzabile partire dal basso e sbagliare per poi “sbagliare” con la speranza che un giorno arrivi Peppino dalle Galassie per indicarti la diplomatica da cui copiare e trascrivere in cartapecora.

Ed è proprio questo l’anomalo dato che non ha consentito di realizzare progetti multi disciplinari indispensabili per restituire una visione generale del fenomeno minoritario, ancor oggi studiato secondo piccoli episodi locali disconnessi tra loro, oltremodo inutili, anzi penalizzano, disturbano e fanno perdere tempo a quanti, oggi, si adopera nella ricerca “unica e indivisibile”.

Questo ha prodotto un vuoto culturale incolmabile, in altre parole, l’assoluta mancanza di figure con cui comparare i nuovi progetti di ricerca, perché la maggior parte dei così detti formati, acquisto il titoli, o equipollenti di estrazione locale,  si rintanano nell’insegnamento di natura primaria e secondaria delle scuole dell’obbligo, non producendo alcuna maturazione storico/culturale, accadendo che: nel misurarsi con ragazzini, adolescenti o analfabeti locali, seguono inesorabilmente, senza averne cognizione, la buia trincea cognitiva“Adriana e delle sue pertinenze”.

Una società paragonata ironicamente dal mondo della cultura come il riversamento dei concetti in forma di aceto in presidio dipartimentale che attende che l’aceto diventi vino, con  cui poter solidarizzare tutto ciò che la piena degli inopportuni trascina.

Se questo non è un dato comprensibile e rendere con cognizione di causa, la misura di quale attenzione garbo e dedizione sia stata volt allo studio e alla ricerca delle tappe, che hanno distinto la regione storica, dal resto del continente, basta affacciarsi e prendere atto o lettura, dei prodotti editoriali attuati dagli anni sessanta del secolo scorso a oggi.

L’azione di questo breve, vuole cambiare l’anomalia in atto avendo quale campo di riferimento, da cui partire e tracciare i canoni ricerca o progetto storico; i riferimenti di temi; gli stradioti; l’unificazione dell’impero romano con capitale Costantinopoli, focalizzando in particolare il tempo in cui venne  ristretto nell’area dei Balcani.

In conformità a quanto su citato, proseguire indagando, la minoranza mediterranea, puntando sulle origini radicate allo spirito delle leggi, degli statuti, delle ordinanze e il senso del lavoro, quale lotta faticosa con la natura secondo la manualistica basata sul diritto bizantino, lo stesso che legava normative militari e contadine, ponendole al centro degli interessi dello stato.

Genericamente ad oggi non esiste prodotto editoriale di  senso finito, se poi vi dovesse capitare di osservare, leggere, confrontare cosa circola nel modo enciclopedico, sottoscritto dai su citati o nei wichiwand di libera interpretazione, c’è da rimanere a dir poco perplessi, basiti, anzi indignati.

Quest’anno l’estate dei “liberi e delle libere Stoljiate” è già terminata a causa dall’emergenza sanitaria, ma quanto prima, questa come tutte le cose brutte passera, speriamo che si porti via tutte le ilarità prodotte in passato e nascano nuovi germogli di buon senso, gli stessi che la regione storica attende da ormai troppo tempo perche le forze sono esigue e occorrono nuove energie colturali, quelle che sarebbero dovute nascere nei dipartimenti per tessere quella tela raffinata a quattro mani capace di fermare e inglobare tutto quello che possa far vivere il sapiente ragno tessitore.

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LE CAPRE VANNO PER VICINATO E DIOGENE VIVE I CINQUE SENSI TIPICI DELLA GJITONIA.

LE CAPRE VANNO PER VICINATO E DIOGENE VIVE I CINQUE SENSI TIPICI DELLA GJITONIA.

Posted on 14 marzo 2020 by admin

indemoniatiNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il modello linguistico consuetudinario per eccellenza e precisamente quello adottato dalle genti che vissero nei pressi o a breve distanza, dal bacino mediterraneo, riconosciuti dalla storia come: Arbanon, in seguito Arbëri e in fine Arbëreshë, rappresenta il più enigmatico e complicato sistema sociale,  ignoto a quanti vanno marenghi immaginando che la cartacapra da risposte.

Oggi chi ha ereditato l’inestimabile valore storico, vive all’interno della Regione Diffusa del Mezzogiorno Italiano, supportato  comunemente,  riguardo l’aspetto linguistico, da quanti vivono le antiche terre d’Albania secondo i limiti di un tempo.

La caparbia popolazione consuetudinaria, rappresenta, o meglio è un esempio trasversale dell’enunciato secondo il quale la storia sia depositata in tomi o comunque nelle archiviazioni scritte in forma, documentale o cartapecora.

Per certi versi il principio potrebbe essere un valido supporto per la ricostruzione delle epoche e delle ere del passato, ma non è certo il vangelo, o la regola che vale per tutte le dinastie del passato, specie quando a scrivere a trascrivere e riportare, sono propri quanti formati secondo canoni clericali, poi di dogeniana memoria, non facendo mai emergere i comuni  o i testimoni che ereditavano i motivi del segno di croce, conservando ben altra memoria.

Nascere all’interno di una culla sociale senza confini come quella arbëreshë “la Gjitonia e in conseguente sistema urbano e architettonico, consente di avere doti ineguagliabili, attraverso le quali, la capacità di lettura di cosa ti circonda, si affina e consente di riconoscere cosa è utile per per ricostruire secondo presupposti ereditari; non sono certo i titoli subito portati a casa, questi ultimi, pur se necessari, non sono fondamentali per tradurre e comprendere o avere consapevolezza  per distinguere con grazia, saggezza, garbo e giudizio, ciò che ti appresti a cogliere.

A tal fine è bene precisare che vanno evitate le campagne di confronto con quanti millantano e impropriamente si considerano i conservatori di una tradizione antichissima, senza averne alcun titolo, in quanto, si finirebbe inesorabilmente a perdere la rotta non riuscendo più a definire “l’unica storia” che va ricercate per calettarla perfettamente poi con gli avvenimenti del passato.

Nelle vicende che accomunano la lingua, la consuetudine, la metrica del canto e la religione greco bizantina degli arbereshe, per lungo tempo si è ritenuto che fondamentali fossero la ricerca delle parlate delle favole e dei testi clericali della minoranza storica, questi espedienti specie se usati senza ordine e ne grado, hanno fatto più danno negli ultimi decenni che in millenni di storia.

Le civiltà più antiche della storia degli uomini, sono state sudiate attraverso le architetture e i segni che queste popolazioni hanno estratto prima ed elevato poi, nei luoghi attraversati, bonificati e vissuti.

Come potevano fare diversamente quanti da ormai sei decenni hanno immaginato che attraverso la definizione della lingua con quanti hanno preferito la fucina degli invasori poter ricostruire un segno tangibile dell’identità arbëreshë.

Come potevano esimersi da errori grandi come le corna di una capra, senza i principi di conoscenza, consapevolezza, cognizione o idea del [no…..s] o del [ger….ko], capacità di lettura di thema o di [so..to co…no]; è normale che poi si vergognassero persino del trattato di  “Besa” Kanuniana o del concetto del clan di famiglia allargata, immaginando vergognosa culturale, un po’ come vergognarsi delle proprie madri perché vestono in tema di Stolja.

Ripercorrere la storia della minoranza più numerosa del meridione italiano, non è stato una cosa semplice, giacché la definizione della sua origine, partendo dai soli stato di fatto odierni, richiedeva almeno un’altro punto per tracciare una retta secondo una ben identificata direzione, ma una volta intercettato il secondo punto, in questi giorni di esilio forzato, ha reso tutto più limpido e chiaro avendo ormai la direzione, si tratta solo di camminare e scegliere cosa è genuino raccogliere e dare in pasto alle pecore cresciute nella mangiatoia del “sordo” e del “settimo rigagnolo” , ma questa è un’altra storia ancor più penosa e indicibile.

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LE TERRE ARBËRESHË NEL MEZZOGIORNO DEL MEDITERRANEO (Kushët Arbëreshë thë Mjesdites ndë Meshdhereveth)

LE TERRE ARBËRESHË NEL MEZZOGIORNO DEL MEDITERRANEO (Kushët Arbëreshë thë Mjesdites ndë Meshdhereveth)

Posted on 09 marzo 2020 by admin

INCUDIINENAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – 

Premessa

L’excursus che si vuole intraprendere, in questa premessa e nei capitoli seguenti, mira ad analizzare e confermare con ordine di tempo, di luogo, di eventi e figure di rilievo, indelebilmente impressi, nelle tavole raffiguranti gli accadimenti mediterranei vissuti dagli Arbanon.

Attento verso ogni particolare coerente, su ciò che ha contraddistinto la su citata popolazione nel tramandare il proprio patrimonio identitario, senza l’ausilio di alcuna forma scritta o documentale, per questo si ritiene opportuno allargare i confini della ricerca, sulle vicende mediterranee dei popoli limitrofi o con i quali gli arbanon hanno condiviso operosità, pene, vittorie, conquiste e primati.

Il punto di partenza da focalizzare è incentrato sulla capacità, storica, delle genti Arbanon, di tramandare il proprio patrimonio identitario, esclusivamente con l’ausilio della forma orale associata alla consuetudine, quest’ultima ritmata secondo l’esclusivo svolgersi di due stagioni; l’inverno e l’estate, caratteristica fondamentale dell’habitat naturale, denominato mezzogiorno del mediterraneo.

La trattazione qui di seguito riferita, sarà eseguita con l’ausilio dell’indispensabile conoscenza linguistica originaria, non fatta di favole,  ma secondo la solida radice, l’unica in grado di supportare e interpretare con coerenza le nozioni ritrovate per tradurre con cognizione le dichiarazioni di quanti forniranno tasselli per la costruzione d’insieme.

Certamente la ricerca non volgerà l’interesse verso gli inutili elenchi di alfabeti o vocabolari, tantomeno verso luoghi di accumulo documentale, in quanto, non esistono riferimenti storici o, riferibili o riferiti a questa minoranza.

Il progetto parte con pochi dati certi, in altre parole, la definizione di tutti gli elementi del corpo umano, associato al sostentamento garantito dall’ambiente naturale cercato, bonificato per poi essere vissuto dagli Arbanon,

La rotta che si vuole percorrere, segue l’asse mediterraneo nella direzione Est-Ovest e precisamente tra i paralleli terrestri, che passano nella parte a nord dell’Epiro nova e quello più a sud dell’Epiro vecchia, considerati dalla geografia storica: i più esposti alla luce del sole, dove l’esposizione all’irraggiamento consente, di far germogliare con successo Agricoltura, Tecnologia e Cultura.

Avvalendoci della conoscenza della lingua Arbanon antica, si coglieranno meglio, le dinamiche sociali e religiose che amplificavano e restringevano i limiti geopolitici, entro i quali questa singolare popolazione, si riconosceva, si distingueva e si confrontava con gli indigeni, nel corso dei secoli.

La trattazione per non perdere il senso dell’argomento ha come riferimento di tempo e di luogo, l’era in cui l’impero romano di occidente e di oriente aveva come capitale Costantinopoli; e per questo nel dettaglio, saranno estrapolati gli eventi e gli accadimenti sociali, economici, politici e religiosi in specie, gli artriti che contrapponeva mussulmani da una parte e cristiani, ortodossi, bizantini e alessandrini dall’altra.

Centro nevralgico di questa storica vicenda, poiché tratteremo degli Arbanon, saranno i territori, che a quel tempo erano, identificate come: Epiro vecchia ed Epiro nuova, il perimetro che descrive l’Albania odierna, oltre porzioni di Cosovo, Grecia, Romania e Slovenia.

Sono questi i territori che diventeranno “cerniera” delle divergenza che vede schierata l’espansione Cristiana da Ovest verso Est e la Mussulmana in contrapposizione da Est verso Ovest, divenendo le terre dell’allora Epiro Nova ed Epiro Vecchia, Muro/Teatro/Campo delle dispute più efferate dal IX al XVII secolo.

Dalla parte cristiana Carlo Magno si adopero a ingrandire i suoi possedimenti verso la Sassonia, la Baviera, la Marca di Spagna (fascia pirenaica della Spagna del Nord) e l’Italia, strappata ai Longobardi, sottomise, la Pannonia, un’analoga strategia venne attuava nei confronti del ducato di Benevento.

I Mussulmana intanto estendevano i confini sino a raggiungere le terre del Sacro Romano Impero individuate, alle periferie di Vienna e della Polonia a nord, lo Yemen e all’Eritrea a sud; dall’Algeria a ovest fino all’Azerbaigian a est, controllando gran parte dei Balcani, del Vicino Oriente e del Nord-Africa.

I secoli videro contrapporre alla avanzata dei Mussulmani, Dogi veneziani, Re, Papi e Principi, tutti in egual misura, al dialogo e al non dialogo, avendo come fine d’interesse, l’economia e il potere offerto da tutte le terre prospicienti il bacino del mediterraneo e in particolare del Mare Adriatico e lo dello Jonio.

Frizioni economiche, sociali, territoriali, ideologiche e religiose, il cui culmine fu raggiunto nella sanguinosa battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 (Giorno di San Vito) nella spianata dell’odierno Kosovo.

Questa regione come quelle limitrofe diventano il teatro che contrappone, valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, schieramenti radicati nelle proprie ideologie, e ben presto vedrà apparire la mitica figura di Giorgio Kastriota, comunemente noto, o volgarmente denominato “Scanderbeg”.

Prima, per ricatto a fianco ai mussulmani e appena libero di tale stato di fatto a capo della cristianità con l’impegno ereditato dal padre di tutelare il suo popolo e la sua radice identitaria.

E quando si rese conto che l’impresa era ardua, complicata e impossibile ebbe l’intuito di scindere la popolazione delle regioni dell’Epiro ancora sotto la sua guida, in quello che oggi è riconosciuto come il miracolo d’integrazione identitaria, più solido del mediterraneo;  tutelando con gli “odierni Albanesi” i territorio in senso di luogo originario e la “Regione storica diffusa Arbëreshë”, intesa quale luogo parallelo dell’identità linguistica consuetudinaria e delle arti, solidamente sostenute dal modello religioso originario, quello difeso in quelle terre natie, ovvero, il Greco Bizantino di radice Alessandrina.

Gli arbëreshë s’insediarono in quella fascia mediterranea, a quei tempi identificata come regno di Napoli o delle due Sicilie; in quanto terre parallele a quelle di origine, con la certezza di avere garantito “Terra, Pane e Pace”, il trittico fondamentale alla radice identitaria arbëreshë, ideale sistema diffuso, sotto identici valori territoriali; dal XIV secolo vive e partecipa al pari delle genti indigene oltremodo valorizzando l’economia, le dinamiche sociali e culturali, dal primo giorno di insediamento ad ogni, in fraterna condivisione.

Seguiranno i capitoli: dal I° al XIX°

 

Commenti disabilitati su LE TERRE ARBËRESHË NEL MEZZOGIORNO DEL MEDITERRANEO (Kushët Arbëreshë thë Mjesdites ndë Meshdhereveth)

“MIA IMPRESSIONE”  (2 Maggio 1958)

“MIA IMPRESSIONE” (2 Maggio 1958)

Posted on 07 marzo 2020 by admin

MiraccoRACCONTI DI IERI ( T. Miracco) – Per i festeggiarne a S ; Atanasio, nostro Protettore abbiamo visto, durarne tut­to il novenario, le donne indossare, con solennità devozione, i ricchi e sfarzosi costumi della nostra terra, gente venuta dai paesi lìmitrofi prostrarsi ai piedi del Santo; compatrioti; venuti dalle lontane Americhe cercare nella spontaneità di questa festa il fascino e il profumo del passato.

Questi ultimi ci hanno riempito il cuore di commozione.

Abbiamo visto e sentito, cosi, Atanasio Spezzano, giunto la vigilia della festa per sciogliere un voto versa Santo, raccontare gli avvenimenti più salienti della sua vita americana .

Mentre li diceva in chiesa davanti ai presenti scoppiando in lacrime e si accomunarono a lui nella preghiera.

Erano passati ben 35 anni dalla sua partenza, ma la fede aveva completamente colmato il vuoto.

Accanto ad Atanasio Spezzano stava assorta nella preghiera la nipote Pasqualina Cosentino venuta da Parma.

Abbiamo visto la signora Anna Maria Pellegrino, in Baffa fedele alle nostre tradizioni, scattare continuamente fotografieche, diceva saranno le cose che più le faranno ricordare “il nostro loco” In California, paese che la ospita da trent’anni.

Abbiamo visto Luigi Baffa assistere alle tradizionali corse coi sacchi e lo abbia mo sentito, mentre ricordavi con commozione, gli anni che lo videro partecipare alle stesse manifestazioni.

Cera una moltitudine di Signore e Signorine che fa­cevano a gara per portare a spalla la statua del Santo in processione, e giovani e anziani far corona alla sta­tua mentre attraversava la campagna per raggiungere la cappella costruita grazie alla solerte attività e costan­za del nostro concittadino», Canonico D. Pietro Monaco.

Nè possiamo tralasciare lo spettacolo di fede offertoci dalla nutrita schiera degli studenti; fa sempre piacere vedere i giovani partecipare con lo spirito di una manifestazione religiosa; ci fanno guardare a domani con più fiducia, con maggiore serenità.

E’ inutile dirvi che il cuo­re, il mio cuore di improv­visato cronista, stava per scoppiare di commozione al­lorquando mio figlio il  grande mi fece omaggio della foto qui sopra riprodotta con la seguente dedica: “A te, pa­pà, perché tu sappia che da oggi 2 maggio 1958, continuerò io la tradizione da te iniziata quando avevi la mia stessa età” – Infatti è stato sempre, per me, un privile­gio portare a spalla la statua del nostro Santo – Che il Santo ti protegga e ti elar­gisca le stesse grazie ricevu­te da tuo padre e da quanti hanno fede in Lui, figlio mio !

Nella raccolta dei fondi con i salvadanai si sono fat­ti onore, ma particolarmen­te la nostra lode va alla si­gnorina Ferraro Rosaria che ne ha consegnati tre ad Amodio Maria Domenica, a Gallo Angelo.

Baffa Costantino (Zio Co­sta), in rappresentanza dei Sofioti residenti in America,mentre la nostra stima per l’incesssante attività ha senz’ altro distinto e gli ha fatto realizzare una copiosa messe di putti.

Nè si può tacere Vammi revole e incrollabile Fede dì tutti i componenti il Comi tato, elencati in altra parte di questo numero, tutti de­gni di elogio. L’entusiasmo e la fede del Segretario An­gelo Bugliari sono a tutti noti, riteniamo pertanto inu­tile parlare della sua instan­cabile attività.

Tutti noi del Comitato facciamo ora circolo intorno al nostro beneamato Arci­prete Don Giovanni Capparelli, Presidente del Comita­to, per gridargli la nostra gratitudine ed i più sentiti ringraziamenti.

Sì, Rev. Arciprete, nella realizzazione di questa ma­gnifica festa siete stato per noi l’anima, la personifica­zione della fiducia, meritate perciò il nostro affetto.

Ani­mati dal Vostro incitamento e dalla Fede che ci lega al nostro Grande Protettore Vi promettiamo sin da ora che saremo sempre al Vostro fianco per far sì che que­sti festeggiamenti assumano una risonanza sempre più vasta sì da richiamare al paese natio tutti i Sofioti redenti all’estero che portano nel cuore gli stessi palpiti, gli stessi sentimenti che in questo piccolo lembo di Calabria ci fanno fratelli.

VIVA S. ATANSIO

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QUANDO L' ÓMAGGIO DEI SOFIOTI AL SANTO ERA SENTITO (2 Maggio1958)

QUANDO L’ ÓMAGGIO DEI SOFIOTI AL SANTO ERA SENTITO (2 Maggio1958)

Posted on 07 marzo 2020 by admin

ALTRI TEMPI ( A. Bugliari) – Il “calendimaggio” sotto i pagani, si concludeva con le feste di primavera: oggi, in alcuni paesi delle colonie Italo-Albanese, a causa della trasformazione, attraverso i tempi, nel rito cristiano, si ripetono quindici giorni do­po l’Ascensione con Wlamia e Moterna {fratellanza e so­rellanza).

A Frascineto, dette feste si celebrano i primi tre giorni di Pasqua; a Civita si celebrano i primi tre giorni di maggio.

A Santa Sofia questa festa cristianizzate, diedero ad un atto di culto di venerazione  per il proprio protettore S. Atanasio il Grande il famoso Patriarca di Ales­sandria, tanto veneralo in Occidente ed in Oriente.

E non è privo di significato il fatto che la processione, seguendo una tradizione antichissima, reca il Santo nel sacello eretto a Sua devozione in una tontai­na zona di campagna, sul colle ameno di “Monogò”.

Anche quest’anno è tornata la primavera: all’alba del 23 aprile, annunziata dal suono festante dei sacri bronzi, dallo sparo dei forti petardi, il popolo reverente è accorso netta Chiesa Matrice, dando così inizio ai festeggiamenti preannunziati col manifesto che si riporta in altra parte di questa pubblicazione.

Durante tutto il novenario la statua del Glorioso Santo Atanasio, si è vista rifulgere di vivida luce, e nel giorno della festa il 2 maggio, è passata nella Campagna in fiore – in un’aureola d’incomparabile bellezza, in un’apoteosi di fede e d’amore – accompagnata da una fiumana di popolo, giunto anche da lontano, fra inni osannanti, preghiere, suoni festosi.

E’ il rito che si ripete, è la gloria immortale di S. Ata­nasio che si rinnova più radiosa e che valicando i confini di madre natura, si diffonde nell’armonia dei cieli e si perpetua fra il suo popolo nel massimo splendore.

E’ il Nome che si tramanda da generazione in generazione, per giungere lassù fini a Lui nella luce dei cieli.

Dopo la celebrazione della messa in rito greco – bizantino, il lungo corteo si è snodata dalla chiesa Matrice verso il colle dove sorge il suo cello, attraverso l’ubertosa campagna; eccezionale spettacolo che può eternare solo il pennello di un gran pittore.

Rifulgevano le donne albanesi dai caratteristici costumi; meravigliosa policomia di colori dei mosaici di stile bizantino, di seta e raso prezioso che QUESTE DAME DEL LAVORO E DELLA FEDE, partano con superba maestà, con gelosia tradizionale, segni di una storia di una millenaria civiltà.

E’ un quadro palpitante di devozione, d’implorazione, di benedizioni e di promesse.

E’ l’incontro di un popolo. con la natura e la divinità; è un abbraccio di virtù, di sacrifici, di penitenza, che vi­vifica la figura del Santo – maestosa ed imponente – che ci fa più degni e più or­gogliosi di appartenere alla Chiesa di Cristo.

Al passaggio del corteo, gli atti di fede si ripetono, l’of­ferta cospicua a modesta, non importa, si moltiplica: è un amplesso di dedizione e d’amore, lo dicono i visi di ognuno, di tutti, commos­si fine alle lagrime, mentre i petardi vanno lassù fino in cielo ed un tradizionale pallone di carta affidato all’atmosfera porta fino agli An­geli, ai Cherubini, ai Serafini, la voce del popolo fedele che canta gl’inni al suo San­to Protettore.

Quando di ritorno entra nella Chiesa Matrice, un grido un grido solo sempre dal cuore di tutti e valle in valle e giunge lassù nell’arcana armonie e nella gloria divina dei cieli: Sant’Atanasio.

E’ un incantesimo che tra­sforma l’umano tormento in gaudio ineffabile !

L’ultimo raggio di sole di questa splendida giornata di maggio, in una visione di divino splendore s’irradia sulle creature e sul Creato: la festa è finita; è per tutti una gioia ampia, mista di beata malinconia che s’avverte di più sentendo dindondare i sacri bronzi dalla tor­re campanaria; suoni che vuotano l’anima dal quotidiano cuore, colmandola di melodia connessa all’eternità.

Il santo dal suo trono benedice gli astanti, i lontani, i fratelli all’estero, promettendo grazie e benedizioni: noi genuflessi preghiamo, promettendo di onorare sempre più degnamente il nostro protettore.

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CULTURA E TUTELA DELLA STORIA O COPERTURA ECONOMICA PER LA POLITICA?

CULTURA E TUTELA DELLA STORIA O COPERTURA ECONOMICA PER LA POLITICA?

Posted on 02 marzo 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – Sono continuamente allestite manifestazioni, piattaforme culturali, in cui si vorrebbero valorizzare aspetti e momenti della storia, ciò nonostante, per la scarsa formazione dei rilevatori/relatori, non si lascia mai solco in grado di durare oltre il tempo dell’evento.

Trovare i precursori di questa inesorabile e palese deriva, bisogna cercare nelle pieghe, anomale, della formazione di quanti avrebbero dovuto fungere da pietre miliare e segnare cosa sia libero da interpretazioni e cosa seguire rigidi protocolli.

Queste labili figure essendo state allestite non per meriti, ma per titoli fuori dal seminato, preferirono acque torbide della“acultura”  naviganti di notti perenni.

L’unica ragione plausibile è questa, specie dopo i fari accesi da esperti e formati ricercatori, i quali consapevolmente attenti alle ilarità diffuse in temi e in risultati di una politica senza cultura, segnala continuamente figuranti economici, il cui compito non segue i sentieri del sacrificio culturale, preferendo accumulare consensi elettorali per la gestione politica del territorio.

Chiaramente questa è un’ipotesi che non ha alcuna fondatezza, in quanto, sono sensazioni che emergono sulla base degli elementi di osservazione, di un sintetico dipinto, che non lascia presagire cose buone.

In genere quanti si fingono in difesa o per la giusta diffusione della cultura, non sono storici di raffinata completezza, ma “suonatori senza scrupoli”, il cui fine mira ad impossessarsi di frammenti acquisiti dalle altrui menti, per poi usarli senza ne rispetto e ne garbo, certi che i fruitori dell’evento che vanno a produrre è campo di semina di addetti di una simile deriva culturale.

Fissare le tappe storiche della minoranza e contestualizzarle in presidi territoriali ben identificati, non è un compito facile o alla portata di ogni addetto, in quanto, la lettura di particolarissimi episodi, può essere eseguita solo da quanti hanno nel loro bagaglio culturali, l’intangibile linguistico, tramandato senza segni e ne tomi e quindi nella sola forma orale.

Questo è il motivo che spiega i tanti episodi storici disconnessi, presentati come caratteristica della minoranza storica e sono il frutto acerbo di una non cultura irresponsabile, di quanti si elevano a guida senza averne alcuna formazione.

Gli stessi a preferire al libero arbitrio, pur di non assumere alcuna responsabilità storica, l’unica in grado di impedire il proliferare di anomale e mortificanti figure.

Questo ha consentito alla massa di “acultura” di vagare all’interno della regione storica e seminare “alloctonie”  prive di senso, costringendo l’intero indotto ad abbarbicarsi a Valjie e Gjitonie copiate da temi di ballo e di vicinato, in tutto rendere la regione storica così banale da non essere considerata da nessuno dei canali turistici.

Quanti studiano e impegnano, per la definizione della storia, documenti, risorse e tempo, non possono e non devono essere scambiati come semplici volontari, obbligati ad offrire,  gratuitamente le proprie opere inedite e per questo preziose, a inconsapevoli praticanti.

I quali non hanno la misura di cosa rappresenti la ricerca, l’unica risorsa in grado di contestualizzare, regione storca e la capitale del regno; a tal proposito è bene precisare, che quanti lo pensassero, abbiano almeno l’intuito di scuotersi dal torpore e prendano consapevolezza, che, il lavoro va pagato, se poi è anche esclusivo, va pagato, almeno il doppio anzi direi ancor di più.

Come si può pretendere di fare una mostra, un volumetto esplicativo, contestualizzarli in una ben identificata area metropolitana, secondo il volere di inconsapevoli  ed inadatti attivisti senza titolo, speranzosi che gli vengano affidati o consegnando scritti inediti e di inestimabile valore, ad uso/consumo di operatori, privi dei minimali requisiti di comprensione o competenza?

Se esistono persone che credono che per un momento di gloria, ogni cosa vada posto nelle disposizioni di quanti sono abituati a fare il mestiere di antiquari, per i politici locali, “hanno confuso il requisiti della buona educazione”, quella che sta alla base  del comportamento di chi fa lo storico, “con altra cosa”.

Questo non è dignitoso, non è giusto, non lascia un buon ricordo, di quanti si presentano come tutori di “beni culturali” e poi si rivelano “usurpatori di beni altrui”.

L’opera di quanti si occupano di storia e offrono solide risposte di luogo, di tempo e di uomini, va incentivano, non obbligato a produrre cento pagine di storia inedita, con immagini e documenti per lasciarli nelle disponibilità di quanti confondono sin anche: Bernardino di Salerno, con Bernardino di Bisignano; in fondo nulla di male si compie scrivendo ciò, solo un salto generazionale di tre secoli e per chiudere il cerchio siamo tornati all’inizio di questo breve.

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Mostra "l'oro arbëreschë a Napoli

Mostra “l’oro arbëreschë a Napoli

Posted on 28 febbraio 2020 by admin

Mostra

NAPOLI (da Un’idea di Atanasio architetto Pizzi)

L’ORO ARBËRESHË A NAPOLI (Haretë Arbrëshë në Napulë)

 

Il Mediterraneo nella storia rappresenta il bacino che unisce, uomini, civiltà, consuetudini, religioni e pratiche di vita differenti.

Napoli sin dai tempi dei suoi fondatori Cumani, fu per le sue peculiarità climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, questo spinge l’ideatore di questo progetto a illustrare quale patrimonio culturale sia stato accumulato in secoli di incontri e confronto tra popoli di radice dissimile.

Attraverso l’idea di progetto, di seguito illustrato, si vuole evidenziare il seme dell’accoglienza  e illustrare, le eccellenze della minoranza Arbëreshë, la storica popolazione dell’Epiro che, dal XV secolo, preferì allocarsi nell’allora regno di Napoli.

Porre  in  evidenza gli aspetti storico/sociali, di  nicchia  partenopea,  assieme  a  quelli  notoriamente divulgati, di estrazione ambientale ed estetica, serve a dare completezza al luogo dove furono elevati i valori di democrazia, convivenza e giustizia del meridione.

Il centro antico partenopeo è sempre stato un luogo baricentrico del mediterraneo e per questo vi trovarono approdo, romani, greci, bizantini, normanni, francesi, spagnoli, austriaci e tante altre popolazioni o dinastie di rilievo; ognuna di essi avendo depositato temi indissolubili, nel tempo, si trasformarono in forza, per la popolazione oltre il costruito storico che divenne per questo unico   e difficile da imitare o riprodurre, dal punto di vista storico, sociale e di confronto tra popoli.

Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto, dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine verso le periferie, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica di un tempo e quelli di oggi della multimedialità.

La città metropolitana oggi, e il suo centro antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione di essenza Greco Bizantina e poi anche quella arbëreshë.

L’excursus storico, parte proprio nel cuore del centro antico, in quello spazio dove oggi è collocata la statua che raffigura giacente il fiume Nilo; allestito secondo le regole tipiche del sedile lungo il decumano inferiore, dove la piazza intersecava anche la strada che conduceva alla “porta ventosa”detta vico degli Alessandrini.

Il sistema piazza, decumano, vico e porta, erano gli ambiti frequentati da numerosi commercianti sin dai tempi di Nerone.

L’imperatore, apprezzando notevolmente le adulazioni di queste popolazioni di scuola greca, ne fece venire molti altri: fu così formarono in questa città, una piccola colonia, detta “Nilense” ispirati dal nome del fiume benefico della madre patria.

Il monumento, rappresentato con la figura di un vecchio sdraiato, sul lato sinistro su un rozzo sasso da cui sgorga acqua; l’anziano si presenta nudo nella parte superiore del corpo e le parti inferiori coperte da una veste; sotto i suoi piedi sorge la testa di un coccodrillo e intorno bambini gioiosi, che simboleggiano il prodigio naturale  del fiume le cui acque, secondo la credenza locale, fecondava le terre, le donne e ogni essere che si abbeverasse.

Nei pressi di questo monumento, si presume che vi sia stato un tempio, che gli Alessandrini dedicarono ad Iside, si racconta in oltre, che nel pronao del tempio si depositavano le tavole votive, che attestavano le grazie ricevute dal “Fiume”, la maggior parte delle quali erano di marinai Alessandrini scampati da naufragi.

Davanti al frequentatissimo tempio sostavano donne vestite di bianco che cantando le lodi della dea salutare, dopo le preghiere si trascinavano carponi con la faccia, sul pavimento del tempio, pregando per la salute e il benessere dei loro cari.

Si presume che da queste credenze popolari siano state ispirate quelle partenopee degli ex voto o dei santuari dove tra sacro e profano, si onorano alcuni santi locali.

La via oggi di Mezzocannone, nella sua parte inferiore alle origini dell’espansione muraria era interrata fra le alture dell’Università e di S. Giovanni Maggiore.

Il tratto della cinta, che in origine coincideva con il lato orientale di questa via, fu mutato dopo il 326 a.v. C., l’anno del trattato di alleanza con Roma, per accogliere gli abitanti della città vecchia, (Parthenope) nella cinta della nuova (Neapolis) e così furono ampliate le mura nella parte di occidente con l’unione dell’altura di S. Giovanni Maggiore in principio esclusa dalla città.

Per evitare successivi affanni economici il muro dal vicoletto Mezzocannone a poco oltre la rampa di S. Giovanni Maggiore fu conservato, realizzando a poca di stanza e parallelamente un altro muro, incassando la via fra le due murazioni, chiusa da una porta nell’estremo superiore dalla “Porta della Ventosa”.

Nelle annotazioni delle strade e i vicoli ricadenti nel perimetro di questa  regione,  non  e  superfluo ricordare la strada che si apriva sulla porta, appellata l’Alessandrina per la rilevante presenza di mercanti di quelle terre riuniti qui a pregare e negoziare.

La conferma è resa dalle citazioni di Svetonio e di Seneca; il primo scriveva: autem modulatis Alexandrinorum modulationibus , qui de commeatu Neapolim confluxerunt, e  Seneca: Subilo nobis hodie Alexandrinae naves apparuerunt, quae preamitti solent et nunciare sequuturae clasis adventum.

Camillo Tutini, lega la strada in epoca cristiana riferendo che in questo vico vi fosse stata edificata una chiesa dedicata a S.Atanasio Patriarca d’Alessandria, come si raccoglie dal libro delle visite della Chiesa maggiore Napolitana, ove si legge: S. Athanasius Alexandrinus in regione Nili, in vico dicto Alessan- drinorum.

Alla fratria ricadente in questo rione del decumano inferiore, erano ascritte un numero considerevole di nobili famiglie, tra le più antiche, infatti  dimoravano nei loro sontuosi palazzi di rappresentanza allocati nell’impianto ad impronta greca, gli:

Acquaviva • Afflitto • Avalo • Barberini • Bologna • Brancaccio • Capano • Capua • Capuano • Capece • Carafa • Cardenas • Cavaniglia • Dentice • Filingiero • Frezza • Gaetano • Gallerati • Galluccio • Giudice  •  Guevara • Luna • Milano • Montalto • Piccolomini • Pignatelli • Sangro • Sanseverino • Sarracino • Sersale • Spinelli • Ulcano.

A seguito della diaspora balcanica, varcarono l’Adriatico, apprendisti, soldati, contadini e clerici, con lo scopo di riscattare un mestiere, bonificare terre, difendere lingua, consuetudini e la religione.

Identificati notoriamente come “Greci”, va precisato che tutte le popolazioni del levante seguivano il rito  cosi  denominato,  pertanto  l’appellativo  “va  inteso  più  come  riferito  alla  religione  che  alla nazionalità”; riconducibile ai discendenti di quanti abitarono gli antichi themati dell’Epiro Nova e dell’Epiro Vetus.

Nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, comunemente denominato dai turchi, “Scanderbeg” fu posto alla testa dell’esercito in difesa di quelle terre per contrastare l’avanzata degli ottomani.

Il condottiero distinguendosi in numerose battaglie della cristianità, oltre ad onorare il patto dell’ordine del drago, ereditato dal padre, in difesa degli Aragonesi contro le armate Angioine rappresenta il bilico per la divisione dei ruoli del suo popolo.

Durante la sua permanenza  nette  terre  dell’allora  regno di Napoli,   ebbe  modo  di tracciare “le Arché dell’infinito arbër”, linee strategiche dìinsediamento, avevano anche lo scopo di preservare la radice originaria degli arbereshe e nel contempo ripopolae Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Arbëreshë) indispensabili punti di avvistamento e controllo dei territori, o meglio focolai delle ideologie Angioine.

Altra nota degna di citazione è la visita a Napoli di Giorgio Castriota, la sosta a Portici, ospite di nobili locali, la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla via della Libertà).

È da qui che si mosse la mattina seguente, per giungere nella capitale dal lato orientale della città, proprio nel rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguito si diresse verso il castello, dove venne accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, per il quale, Andronica Arianiti Commeno, vedova di Giorgio Castriota preferì, Napoli alla cristiana Roma e alla lagunare Venezia.

La nobile vedova dopo un periodo trascorso all’interno del Maschio Angioino, si trasferisce in un palazzo nobiliare nei pressi del Monastero di Santa Chiara, proprio a ridosso del decumano inferiore e prima di piazza del Gesù.

Tommaso Assan Paleologo nel 1518 costruì a Napoli una chiesetta padronale dedicata a SS. Apostoli e nel 1522 eresse un altare gentilizio nella basilica di San Giovanni Maggiore la chiesa prospiciente l’antica via degli Alessandrini.

Fu scenario di accoglienza la piazza del Nilo e la strada detta degli Alessandrini ora detta Mezzocannone, quando, cadute Corone e Modone, Carlo V accolse con tutti gli onori l’esodo delle popolazioni cristiane giunte a Napoli con le navi di Gian Andrea Doria.

Nel luglio del 1534 va citato l’episodio, in quanto, solo in quella giornata vi giunsero a Napoli più di 8000 esuli, di questi più della metà trovarono accoglienza nelle regioni del regno.

Questi cenni e molti altri caratterizzarono la storia di Napoli e del meridione italiano in senso di accoglienza il cui seme ha iniziato a germogliare dalla piazza del Nilo, il decumano inferiore e le vie limitrofe, espandendosi in ben sette regioni del meridione italiano.

Divenendo per questo teatri di vita a cielo aperto dove anche gli arbëreshë furono e sono tutt’oggi protagonisti in quanto portano alta la bandiere del modello d’integrazione più solido del mediterraneo. Oggi le gesta di Zoti Gjergj detto Scanderbeg in favore di Ortodossi, Bizantini, Alessandrini e Cristiani rappresentano una parentesi incancellabile degli accadimenti a partire, dal XV secolo.

Le gesta dell’eroe e la disponibilità partenopea del mutuo soccorso racchiudono il senso dell’integrazione e il rispetto dei popoli diversi, vero è che proprio per questa opportunità le genti di queste terre furono divise in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria, ma con compiti e menzioni da portare avanti.

Gli Albanesi si assunsero l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di li a poco rimaneggiata e identificata come Shqip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, accumunati dalle ereditata forma orale; nella consuetudine; nella metrica del confronto canoro fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in pacifico rispetto con le genti indigene.

L’integrazione di queste popolazioni nei territori ritrovati cosi come nella capitale Partenopea, avvenne a seguito di quattro distinte fasi storiche di sedimentazione:

  1. 1. la prima, di scontro o del nomadismo e identificato come dei “Materiali alterabili”;
  2. 2. la seconda, di avvicinamento o dei “Materiali inalterabili”;
  3. 3. la terza, di confronto con le comunità indigene “Festa di primavera”;
  4. 4. la quarta, della formazione politico culturale “Le menti Arbëreshë”;

Quando a Napoli nel 1734 si insediò Carlo II di Borbone, Il 26 febbraio del 1733 a San Benedetto Ullano (CS) aveva aperto i suoi battenti, il nuovo seminario di formazione per la minoranza Arbëreshë, con 17 alunni e 3 professori, ben presto la regione definita dalla Piazza del Nilo, il Decumano Inferiore oltre i cardini superiori e inferiori ad esso connessi, divennero i luoghi di riferimento per gli esuli, in senso di valori culturali, sociali, economici, della scienza esatta, della politica e della religione.

Un fiume di rinnovamento allineato alle politiche unitarie e di riscatto del meridione, senza distinzione di appartenenza sia sociale e sia religiosa.

È l’era degli uomini illustri e Napoli si confronta con il resto dell’Europa, ed è in questo capoluogo ad offrire alle menti più illustri il palcoscenico ideale per confrontarsi con Bugliari, Baffi, Torelli, Giura, Scura, Masci, Crispi, e tanti altri illustri che per le loro idee liberali contribuirono al rendere più efficaci aspetti in ambito culturale economico e scientifico, con lo stesso entusiasmo degli indigeni, che li consideravano fratelli.

La piazza del Gesù con le emozionanti prospettive delle chiese li allocate, sono il luogo più rappresentativo per riunirsi in religiosa “concelebrazione religiosa pontificale”, già spazio per la dimora dei Sanseverino nella capitale del regno e che per una serie di annoverate vicissitudini divenne l’emblema religioso che domina la Piazza.

Lo stesso nobile casato della Calabria i nobili che accolse la parte più consistente di migranti del XV secolo e oggi conservano identicamente gli elementi caratteristici in seno alla lingua le consuetudini la metrica e la religione, dopo che la diaspora ebbe inizio.

Cenni del rito greco -bizantino

Gli esuli Arbëreshë, in seguito dell’imperare dominazione ottomana, fuggirono dalle terre natie nel XIV sec.,per non essere soffocati anche della propria credenza religiosa; e si insediarono, secondo le arche disegnate in comune accordo tra il re Alfonso I d’Aragona e il condottiero Giorgio Kastriota, nell’allora Regno di Napoli.

Gli esuli legati alle peculiarità del rito Greco-Bizantina alla fine di questa secolare vicenda, videro elevarsi l’Eparchia di Lungro, in Calabria, promulgata da Papa Benedetto XV con la bolla “Catholici fideles ritus graeci…”, del 19 Febbraio del 1919.

Poi affiancata , nel 1937, dall’Eparchia di Piana degli Albanesi sotto la giurisdizione di un proprio eparca in Sicilia, con bolla Apostolica Sedes di papa Pio XI.

È opportuno focalizzare questa nascente finestra di confronto tra la chiesa di oriente e quella di occidente, citando brevemente le frizioni che nascono dopo l’insediamento degli esuli, con la realtà dottrinale, seguita dai Vescovi locali.

Inizialmente  gli  arbëreshë  furono  lasciati  ai  riti  dei  prelati  che  li  accompagnarono  nei  territori  di pertinenza delle varie Diocesi latine, immaginando queste ultime, che costoro pur avendo le proprie tradizioni liturgiche e religiose orientali, ben presto avrebbero seguito la via dei latini.

Lo scopo mirava al dato che sarebbe bastato fermare vietando il canale di ricambio di nuovi prelati provenienti dalle terre di origine “i nuovi ortodossi” per questo furono argomento e bersaglio, di accuse, violenze, soprusi, vessazioni di ogni genere, però, non sufficienti a piegarli alle tradizioni liturgiche e religiose latine, e oggi in ossequio, al tempo “ ortodosso”; secondo il rito cattolico greco-bizantino.

La soluzione di questa secolare vicenda raggiunge l’inizio della soluzionwe nel 1742 con l’intuizione di Samuele Rodotà di San Benedetto Ullano, che con l’istituzione del Collegio Corsini, consenti di formare nuovi prelati, in terra meridionale, nominati dal vescovo di Bisignano.

Prima nella sede Ullanese sulla sinistra del fiume Crati e poi in quella destra, lungo lo scorrere dello stesso fiume, nel convento di Sant’Adriano nei pressi di San Demetrio Corone, tutto ciò sino alla vigilia dell’istituzione della prima diocesi, dell’Eparchia di Lungro, la quale apre formalmente il colloquio tra le chiese di oriente ed occidente, tutt’oggi legato da un costruttivo e florido confronto.

Al fine di lasciare un impronta indelebile si vogliono porre in essere le seguenti manifestazioni:

  • In occasione si  auspicano di una concelebrazione religiosa pontificale di rito Greco Bizantino.
  • Raduno dei sindaci dei paesi della regione storica, con gonfalone e ragazza vestite in costume tipico
  • Convegno: storia Arbëreshë e le Arche del regno;
  • Mostra “ NAPOLI E L’ORO ARBËRESHË”;
  • Conferenze, tavole rotonde, per la popolazione scolastica della città metropolitana;
  • Conferenze, tavole rotonde, museo archeologico di Napoli;
  • Conferenze, tavole rotonde, nei plessi Universitari;

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