Posted on 02 giugno 2020 by admin
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Posted on 29 maggio 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Napoli e le sue provincie sin dai tempi dei fondatori sono state, per le caratteristiche climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, accoglienza e convivenza tra popoli con diverse ideologie.
Tra queste, resiste imperterrita, allo scorrere del tempo, la popolazione della minoranza storica Arbëreshë, che silenziosamente è protagonista incontrastata sia nelle provincie dell’antico regno e sia nella capitale partenopea.
Il centro antico della storica capitale dell’Italia meridionale, per la sua posizione baricentrica nel mediterraneo, facilitò l’approdo a Romani, Greci, Bizantini, Normanni, Francesi, Spagnoli, Austriaci e tante altre popolazioni e dinastie di rilievo.
Tutti depositarono temi indissolubili, i cui lasciti sono diventati la forza della città, tra questi a partire dal XII secolo, vanno ricordati anche gli antichi abitanti dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, l’odierna Albania.
Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto; dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica.
La città metropolitana di oggi e il centro storico e quello antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione Arbanon, racchiusi ancora oggi nel silenzio più intimo, tra i decumani del centro antico e in tempi più recenti nella piana del quartiere di Fuorigrotta e più in dettaglio all’interno dell’area dell’odierna Mostra d’Oltremare.
Dei due episodi storici di convivenza e cooperazione, il centro antico non corre alcun pericolo per i processi di tutela cristallizzati, giacché luoghi di storia protetta; diversamente accade nell’edificio che pur testimoniando, la prima pagina del rilancio culturale economico e produttivo dell’Albania di settant’anni addietro, non ha avuto lo sperato momento di gloria, cosi com’era stato immaginato dai suoi progettisti.
L’edificio fieristico denominato Padiglione Albania, fu edificato negli anni trenta del novecento, nella Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli; dedicato specificamente all’Albania (stato Skipëtaro), unico padiglione, per i rapporti storici che lo legavano all’Italia, a essere contraddistinto con il nome proprio della Nazione.
Forte dell’esperienza barese, all’interno della Fiera del Levante, l’urbanista Gherardo Bosio, progettò il Padiglione di Fuorigrotta, affiancato dall’architetto Pier Niccolò Berardi.
L’opera espositiva a tema, esclusa la breve parentesi dell’inaugurazione, sembra aver assunto le caratteristiche delle pietre tipiche Albanesi e resistere solo per essere contemplato per la sua lapidea durevolezza.
Esso nasce come biglietto da visita delle eccellenze Albanesi, il cui tema architettonico metteva in evidenza le tipiche abitazioni denominate “Kulla” abitazione grazie alla quale le famiglie allargate Arbanon difesero la propria identità linguistica, metrica canora, consuetudinaria, e religiosa.
Diversamente dal progetto che mirava a valorizzare le caratteristiche: storiche, geografiche, della produzione e del lavoro, che avevano contraddistinto, l’Albania sia dai tempi dell’impero romano.
L’edifico si presenta come una struttura in pianta rettangolare, in bugnato e arricchita da aquile di epoca romana ai quattro angoli; la facciata principale ospitava, un ampio loggiato ornato da un altorilievo di Bruno Innocenti intitolato “Il trionfo navale celebrato in Roma da Gneo Fluvio”.
Il salone interno, si presentava rivestito da lastre di marmo apuano, ulteriormente impreziosito da lacunari in vetro di Murano che conferivano alla struttura un particolare irraggiamento.
Il percorso espositivo si sviluppava secondo priorità riferite all’Artigianato e all’Industria della Nazione Albanese dell’epoca, proseguendo, attraverso due scalinate, in marmo posti alla destra e alla sinistra rispetto all’ingresso, si giungeva al primo piano.
Nella scalinata di destra, dominava l’opera pittorica “Albania Romana” di Primo Conti, accompagnando il visitatore verso la Storia dell’Albania; la scalinata di sinistra, sovrastata da un dipinto di Gianni Vagnetti, conduceva alla sezione riservata alle opere che si andavano a realizzare in Albania.
Pregevolissimi erano i materiali archeologici secondo l’allestimento di Luigi Penta: essi consistevano in quattro statue collocate al piano terra, provenienti dallo scavo archeologico albanese dell’acropoli di Butrinto.
Tra queste la scultura della Dea di Butrinto, della quale la sola testa ebbe ragione dei bombardamenti che di li a poco tempo l’avrebbero deturpata.
Il secondo piano ospitava otto teste che non subirono danno e dopo la guerra furono custodite per 20 anni dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli prima di essere restituite all’Albania nel 1967.
Dopo appena un mese dall’inaugurazione, la Triennale delle Terre d’Oltremare fu chiusa a causa della guerra e nel corso del conflitto gli americani occuparono la Mostra per allestirvi il 21st General Hospital allocandovi nei suoi spazi le sale operatorie.
Con la fine della guerra, il polo fieristico rimase abbandonato fino al 1948, quando si diede avvio al progetto per la ricollocazione fieristica del polo, conclusa nel 1952 con la conseguente inaugurazione con titolo il Lavoro Italiano nel Mondo.
La manifestazione segnò anche l’inizio di una lenta e inesorabile manomissione del tema architettonico originario, stravolto per aver modificato alcune strutture identitarie dell’antico progetto, perché profondamente danneggiate dai bombardamenti.
Oltre ciò, nel corso del rifacimento il padiglione venne convertito, con poca attenzione del suo originario tema, intitolandolo al Lavoro Italiano in Oceanica.
Tuttavia, la nuova mostra non ebbe il successo sperato e chiuse, dando così avvio ad un secondo abbandono dell’ edifico, che questa volta si protrasse per oltre quattro decenni.
Alla fine degli anni ’90 furono messe in atto le prime manovre per il ripristino dell’area fieristica, che culminarono nel 2001 con la gestione di Comune di Napoli, Regione Campania e Camera di Commercio.
Da allora sono stati fatti grandi passi in avanti verso la definitiva riqualificazione dell’area, ma ciò nonostante il Padiglione Albania, fu abbandonato èd ebbero inizio le drammatiche vicende di abbandono e l’ovvio degrado.
L’ingresso all’edificio, infatti, è a oggi circoscritto da un muro in cemento che ne impedisce vista e accesso, la cui naturale conseguenza è la perdita immateriale del suo significato storico e l’inesorabile cedimento del suo particolarissimo bugnato.
Tutta la vicenda del padiglione Albania cui si deve porre rimedio e dare lustro, sino a oggi si possono sintetizzare nel dato, che non rientra ne fa parte di questa analisi,specie quelle legate all’ultima vicenda che ha visto l’intero piano di riqualificazione dell’comparto, oggetto del ritiro dai fondi europei previsti per la sua riqualificazione.
Alla luce di ciò e di tutte le vicende storiche che legano Napoli, il meridione d’Italia e l’Albania, devono porre in essere attività in concertazione tra le istituzioni, affinché il padiglione assuma quella funzione di fratellanza storica, economica, sociale, culturale, religiosa e politica per il quale venne innalzato e contro ogni avversità degli uomini continua a resistere imperterrito.
Il Padiglione Albania, allocato all’interno della mostra d’Oltremare, non è un semplice involucro fieristico reversibile, e adattabile a ogni genere di avvenimento, in quanto, nasce come emblema storico di cooperazione e diffusione delle eccellenze di oriente e di occidente cordialmente convergenti nel bacino mediterraneo.
Un monumento realizzato a tema per unire l’Italia ospitante e l’Albania ospite, una caratteristica parallela che unisce i due ambiti territoriali posti di fronte e quanti hanno avuto la possibilità di farla brillare, non possedevano lo spirito storico culturale per comprendere il ruolo che esso doveva assumere.
Oggi le istituzioni Albanesi e Italiane dovrebbero rendere merito alla caparbia durevolezza di questo manufatto, segno di unione di due popoli e terre parallele, predisponendo misure adeguate per confermare il legame tra le due nazioni, essendo l’Italia, anche la patria ospitante la minoranza storica più numerosa del meridione italiano: gli Arbëreshë.
Per questo, urge istituire un comitato tecnico, politico e scientifico, al fine di concertare, appropriate iniziative per restituire al manufatto gli originari temi divulgativi dei territori oltre adriatico sia dal punto di vista sociale e sia produttivo, degli Albanese a Napoli.
Basterebbe spolverare protocolli tecnici e porre in armonica cooperazione i Ministeri della Cultura, del Turismo, degli Esteri e dell’Industria, oltre Regioni, Provincie e Comuni, per rendere l’edificio, un luogo d’incontro per la minoranza storica arbëreshë, che con le sue eccellenze è stata sempre in prima linea con le vicende storiche partenopee, ancora oggi solidamente connesse alle realtà sociali culturali ed economiche meridionali.
Il padiglione Albania alla mostra mediterranea potrebbe diventare l’emblema di un trittico culturale senza eguali, per questo, attraverso il giusto progetto di restauro funzionale, si potrebbe allestire attività in rappresentanza di una Regione Storica Arbëreshë e della Nazione Albanese in terra d’Italia.
Un vero e proprio manifesto fieristico espositivo,da cui far emergere l’espressione culturale, senza soluzione di continuità, secolare, al fine di rendere merito al modello sociale, culturale, linguistico, consuetudinari e religioso, tra i più solidi del bacino mediterraneo, frutto della buona cooperazione di radici solidali.
Il padiglione Albania monumento unico nel suo genere, rappresenta, il luogo in cui convergono culture diverse, per confrontarsi, per far emergere le cose buone dei due paesi di fronte, proprio come “l’Aquila bicipite”, che rappresenta un solo corpo, forte e solido, con le prospettive di orientamento ricolte sia a oriente e e sia a occidente.
Uomini culture religioni e operosità messi a confronto per migliorarsi e spargere esempi attraverso gli elementi caratteristici della regione storica arbëreshë, l’esempio mediterraneo di cui Napoli e l’antica Albania, hanno reso possibile, da sei secoli e senza soluzione di continuità sino a oggi.
Posted on 24 maggio 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – L’insieme delle nozioni popolari, distinto dal patrimonio e dall’orientamento culturale superiore ed egemonico, nelle manifestazioni della vita culturale genericamente popolare, s’identifica nel folclore.
Il termine è formato da due parole, di origine anglosassone e rispettivamente sono: “popolo e sapere”e mirano ad associare per tramandare le tipologie di tradizione in forma oralmente, concernenti, usi, costumi, miti, narrazioni, credenze, musica, canto, il tutto riferito a una determinata area geografica, di una ben identificata popolazione.
Quando tutto questo insieme di nozioni si ha la fortuna di coglierle nel corso dell’adolescenza, in armonia con i dettami caratteristi e caratterizzanti il sociale tipico di quel identificato territorio, è segno che il tassello del folclore è stato coniato.
Un bagaglio la cui radice culturale ti è affidata dalla tua genitrice, la stessa che per essere rimasta, orfana ha recuperato l’amore materno mancato, nell’accogliere di buon grado la nuova figura, riconoscendo attraverso consuetudini antiche le caratteristiche locali dei cinque sensi di vita locale che non ha potuto ricevere dall’originario amore materno.
Più di un secolo di storie avvenimenti e consuetudini, canti, appuntamenti religiosi e manifestazioni ripetute ogni anno senza soluzione di continuità; questo e null’altro sono l’insieme di radici che poche persone possono aver avuto in eredità; da qui ha origine la radice di ricercatore, di studioso ben distante dalle false ideologie, quelle che messe a confronto tra uomo territorio e natura, si polverizzano nel tempo di un fuoco di paglia e il vento le porta via.
Essere un arbëreshë, privilegiato, erede di radice del folclore, non è un fatto che capita per caso, perché oltre ad essere abituato a cogliere odori, colori, sapori, e pieghe di vita, di chi ti segnava la strada, indossando con garbo e dedizione l’abito tipico secondo il rigido protocollo immateriale, bisogna essere in grado saper leggere e interpretare i segni dell’identità che ti lasciava.
Specie se si tratta dell’insieme di “cultura, idioma, consuetudini, metrica, in armonica credenza greca bizantina”; la radice fondamentale che poi è un insieme inscindibile cui non devi ne aggiungere e ne sottrarre nulla, ne tanto meno sottrarre o cambiare quantità e qualità.
Se poi la figura paterna è un ottimo fabbro, che per le sue capacità di arte, sa come temprare, sino a rendere solida, inattaccabile e indeformabile, la propria indole, è segno che i principi per progettare e seguire la giusta rotta nel corso della vita diventa certezza.
Nascere e crescere nel quartiere simbolo dell’operosità arbëreshë, con il suffisso e l’identificativo “Ka lemi”, al fianco di gjitoni che giornalmente verificano la tua parlata perché, (a detta loro), corri il rischio di essere scambiato per un figlio di zingaro provenienti dai paesi limitrofo e finisci di essere portato via, è la misura che conferma l’appartenenza alla tipica gjitonia arbëreshë.
Allora è segno che provieni dal mondo fatto di “biblioteche viventi”, “una fonti raffinate”, “istituzioni inestimabili”, in tutto sei il figlio di madri che ti avvolgono e ti allattano del loro sapere, secondo una ben identificata tavolozza di colori, con cui poi in seguito potrai lasciare il segno disegnando un quadro unico e irripetibile, opera di folclore, quella che ad oggi manca alla regione storica, la cui conferma non di “alchimisti litirë” ma da “ rari genitori e gjitoni arbëreshë”.
Quando poi arricchisci e affinai con titoli a tema sei perfettamente in grado di tracciare le arche idonee da cui partire e dare senso, sia dal punto origine: la tua famiglia, e poi ai relativi cerchi concentrici, perché possiedi un tesoro inestimabile, in senso di valori intangibili che ti consentono di raggiungere sin anche il tangibile da illustrare agli altri.
Una cinta di valori, storicamente ordinati e indissolubili, principi inequivocabili, con priorità rivolto al senso, di sociale, consuetudinario, idiomatico e religioso, gli stessi che danno forza al folclore, la famiglia, alla fratellanza, alla gjitonia, al costume, alle tradizioni e ogni elemento che caratterizza la minoranza e il suo ambiente naturale.
Alla luce di ciò, ritengo, affermo e ripeto che la storia degli arbëreshë “non è stata mai fatta”, ora soltanto può iniziare, perché gli avvenimenti che prima parevano slegati e inesplicabili, finalmente descrivono una trama legata che trova ragione, senso, e verità di essere.
Più di un secolo e mezzo di storia consuetudinaria conservata e catalogata in fascicoli che nessun dipartimento, universitario contiene e ne mai potrà riuscire ad uguagliare, sino a quando si persevera nell’allocare i più preferiti dai più formati.
Questa inesorabile scelta è una deriva non volgere attenzione nella storia generale, scritta secondo i fati, gli avvenimenti, gli uomini e i Katundë, cosi facendo è stata ulteriormente spregiata, da proponimenti senza alcuna forma di protocollo attendibile o verificata sul territorio.
Quale attendibilità la storia degli arbëreshë può avere, se tracciata in disarmonia con i rigidi protocolli consuetudinari delle famiglie matriarcali arbëreshë, secondo cui ogni giorno e ogni cosa ha un significato in ritualità uniche e insostituibili.
Essa rappresenta un riversare continuo di atteggiamenti di vita sociale negli ambiti arbëreshë e in ogni dove diverso si ripropone, diventa una fucina di un metallo le di cui pieghe e sfumature appartengono esclusivamente a quella fascia mediterranea, la stessa, sempre un passo avanti rispetto alle altre genti del globo terrestre.
La regione storica arbëreshë, comunemente denominata Arbëria sta in cima ai pensieri e agli affetti di ogni studioso, sia ad Est che ad Ovest del mare adriatico e dello jonio, di queste terre sono stati considerati patrioti quanti dicevano di amare la terra natale, amministrando direttamente gli statuti, che dovevano essere il beneficio dei poveri, celebrando i fasti di queste terre in ogni maniera, ornamento e lustro.
Chi a tutt’oggi ha legato al folclore unico e inscindibile di Idioma, consuetudine, metrica del canto e religione, viene considerato o accusato di possedere idee indigene per un buon arbëreshë.
L’accusa venne fatta in seguito al primi articolo divulgato in tal senso relativo all’interpretazione storica della kaliva e del significato del baliaggio, recensito, da una conversazione apparentemente benevola, ma che voleva difendere le ilarità storiche monotematiche divulgate.
Cosi come i canti popolari che accomunano e allargano i confini stessi della cultura arbëreshë, ritenendo che quelli odierni di estrazione “Turcofona” nel vasto quadro della cultura dell’Arbëria indifferenziata, possa creare presupposti di dialogo o dialoghi in cima ai pensieri e agli affetti di ogni sorta di studioso.
La Biblioteca Storica o le biblioteche storiche non stanno ne a Napoli, Barcellona, Palermo o Venezia ne tanto meno in Turchia, esse risiedono nei paesi arbëreshë, sono i lasciti delle nostre madri, quelle madri che hanno saputo esse sapienza locale, “biblioteche viventi”, “fonte”, “istituzione”, in tutto, tavolozze con cui disegnare il quadro unico e irripetibile, opera folclore; poi gli altri disperdono e non vestono di garbo.
“Per le madri arbëreshë che sapevano vestirsi e non si vergognavano di essere esempio antico , folclore!”.
Posted on 18 maggio 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Trovare soluzioni per il rilancio economico e turistico dei “Borghi”, dei centri abitativi detti “Minori” i “Katundë Arbëreshë”, si ritiene indispensabile prestare la dovuta cautela quando si vogliono rivitalizzare il costruito storico, oltre a valorizzare il territorio collinare, risorsa naturale irripetibile e unica.
Un sillogismo i cui temi abitativi di riferimento, scontano la difficile elaborazione di politiche, capaci di coniugare e legittimare attese di sviluppo socio-economico del territorio, attraverso il contenente-contenuto, sfruttando i vantaggi naturali, che ha generato l’identità storico-culturale di queste aree.
L’estrema eterogeneità dei macrosistemi, in cui fu realizzata l’armonica convivenza, tra “territorio e centri abitati”, non agevola il compito, per questo, si cerca di fornire linee generali indispensabili a intercettare il rapporto, secondo antiche consuetudini e moderne imposizioni, “sintetizzato” in tre categorie fondamentali di eventi:
Questa vuole essere una distinzione tipologica di base, da cui a sua volta si dipartiscono, successive sottospecie che focalizzano regione ambientale, storica o minoritaria:
In tutto, centri minori che si traducono in fucine di appartenenza ambientale, linguistica, consuetudinaria, economica e religiosa, le stesse che rendono unico e “irripetibile” l’ambiente naturale e quello costruito.
Ovviamente, per rispondere con misure adeguata a tali perle del “genius loci”, è indispensabile tracciare preliminarmente quali siano le emergenze più devastanti o errori del passato, al fine di predisporre più opportuni progetti di ricerca, storica e tecnologica, per “un buon progetto d’insieme” armonizzando: ambiente, costruito e uomo.
In altre parole fermare la causa che ingurgita imperterrita l’insieme storico, svuotandolo del significato per il quale fu protagonista.
Le cause di questi tre sistemi generali su citati vanno ricercati nei seguenti episodi:
Alla luce di questi accadimenti del passato, trovare la soluzione più idonea, facilita il compito a chi si prodiga per rendere partecipi alla vita sociale economica di questa nuova società “mediatica”.
Allo scopo diventa prioritaria un’adeguata e approfondita valutazione della pluralità e dell’eterogeneità degli interessi pubblici, (governo del territorio, sviluppo economico) connessi con interesse culturale, paesaggistico, ambientale, tutela del suolo, sono questi che devono essere coniugati al fine di rendere come stadio finale il buon progetto.
Interessi affidati alla cura di amministrazioni che operano con strumenti diversi, innescando, conflitti e possibili sovrapposizioni; le politiche di governo di un territorio devono mirare a garantire ai residenti più ampie possibilità di accessibilità ai servizi essenziali.
L’immagine finale deve restituire un territorio nazionale caratterizzato da una rete di comuni o unioni di comuni, attorno, cui gravitano aree caratterizzate da economie diverse, “aree interne”, che pur essendo un territorio profondamente diverso, conducono a dinamiche dei vari e differenziati sistemi naturali, dei peculiari e secolari processi di antropizzazione.
Rendere più comode le distanze con i principali centri di servizi essenziali, istruzione e salute, attraverso interconnessioni con luoghi di risorse ambientali, idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani, oltre che culturali, come beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere, mantengono al loro interno caratteristiche uniche , è il tema che deve trovare applicazione per restituire il senso comodo di sentirsi a casa..
Il rilancio dei centri, spesso di ridotte o ridottissime dimensioni, specie delle aree interne o collinari, deve essere lo spirito con cui si vuole restituire il ruoli di baricentro che unisce i sistemi citati, per questo occorre che siano recuperati per offrire il servizio indispensabile, che unisce società moderna con tutte le innovazioni possibili, il nuovo, e l’ambiente naturale con la storia in esso contenuto; l’antico; l’ identità.
Il tema di accoglienza, in senso di casa, non deve essere inteso come un luogo asettico, un appartamento, un palazzo, un albergo, una residenza puramente formale in senso di luogo protetto, ma deve essere capace di offrire il senso familiare smarrito, lo stesso che tutti cercano quando si recano senza sapere come, dove e quando.
Residenze che in apparenza si presentano con forme semplici e irrazionali o addirittura minimali; sono il centro del luogo dei cinque sensi, racchiudono in quei minimali spazi tasselli irripetibili della grande famiglia mediterranea, la stessa che riverbera quei valori antichi di chi ti sta a fianco e vive con te l’ambiente circostante dove suoni, odori, sapori, tatto e visioni, ti proiettano nella dimensione della Gjitonia, quel fenomeno di aggregazione sociale che rende i “centri antichi minori” il palcoscenico naturale dove sentire e vedere la nostra origine.
In questa prospettiva l’istituzione della legge 6 ottobre 2017, n. 158, recante «Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, e disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni», mira a rendere possibile questo miracolo anche se i presupposti non lasciano nen sperare giacchè definita legge “salva borghi” (??????).
Ciò nonostante i finanziamenti sono diretti alla tutela dell’ambiente,i beni culturali, la mitigazione del rischio idrogeologico, la difesa e la riqualificazione urbana dei “centri antichi detti minori”.
In oltre la legge si prodiga per la messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e gli istituti scolastici, nonché promuovere lo sviluppo economico e sociale con particolare attenzione verso modelli produttivi ritenuti a torto vetusti e non al passo con la produzione globale.
Tra le iniziative finanziabili con il Fondo come predisposto dalla legge “n. 158/2017” rientrano gli interventi di conservazione, recupero, riqualificazione e restauro al fini di riuso del patrimonio edilizio pubblico e privato.
In oltre è il caso di ”ribadire” che un centro antico minore nasce come luogo intermedio, tra la cabina di regia (Borgo)e il palcoscenico produttivo(Risorsa), per questo, i piccoli centri senza barriere materiali, rappresentavano l’ago della bilancia per sostenere uomini e ambiente naturale.
Tra i centri detti minori, particolare attenzione andrebbe rivolta, verso i centri rivitalizzati dalla fine del XIII secolo, della minoranza storica denominata arbëreshë.
Una delle più antiche popolazioni prospicienti il mar Adriatico e lo Jonio, il cuore pulsante del mediterraneo, gli antichi abitanti dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, ancora presenti sul territorio, scandendo lo scorrere del tempo senza alcuna forma scritta condivisa.
Si trasferirono nelle terre del meridione italiano per necessità, indispensabile per la difesa e tutela del loro idioma, le consuetudini di dialogo con l’ambiente naturale, sostenuti idealmente dalla metrica del canto e la religione, greca bizantina.
I paesi di origine Kalbanon , Arbanon, Arbëri o Arbëreshë, nascono nei pressi di un presidio religioso e quando iniziano a tracciare le linee de i quattro rioni tipici rispettivamente: Kishia, Bregù, Katundi e Sheshi, è il segno della fine della parentasi di nomadismo è si avvia l’era della caratterizzazione del “Luogo” ovvero “Gjitonia”.
La precisazione, vuole esse un incentivo a non confondere i tre modelli abitativi tipici del meridione, compreso il loro modo di misurarsi e confrontarsi con il territorio e la natura circostante, per questo la’atteggiamento di avvicinamento alla comprensione del costruito deve avere consapevolezza del dato che il tempo non sia mai trascorso.
Tenere ben chiaro che i luoghi Amministrativi nel chiuso delle loro insule artificiali sono una cosa, gli ambiti di produzione sono altro e al centro i piccoli agglomerati che attingono le risorse dalla terra producendo economia.
Sistemi urbani diffusi realizzati nei pressi di luoghi di culto, aggregati di confronto e sostegno sociale, dove la vita scorreva in armonia con l’ambiente naturale.
Questo è quello che deve essere riattivato, piccole attività locali indispensabili a ricollocare il “trittico alimentare mediterraneo”, accompagnato da consuetudini a misura d’uomo, la vita scorre lenta e senza frenesie, luoghi di aggregazione in cui la conferma sono le similitudini familiari, le stesse che non hanno uno spazio identificabile ne un tempo per terminare.
È solo ricordo immateriale uno spazio indefinito, senza barriere o ideali, giacché condivisione, accoglienza, libertà di chiedere come stai e dove vai senza sospetti.
Fatta salva la piena autonomia di ogni centro minore, vanno valorizzate le dinamiche sociali tipici dell’economia agricola, quella che garantiva i profitti dopo l’attesa e lo svolgimento delle stagioni, le stese nelle quale gli abitanti dei piccolo centri minori si misuravano con gli eventi naturali e con il tempo.
L’ospite è sacro e una volta riconosciuto l suo bisogno di famiglia, di integrazione e partecipazione a quel determinato ambito, ne entra a fare parte, diventa elemento essenziale, apprende le tecniche di un tempo con il compito di preservarle e diffonderle alle nuove generazioni.
La vacanza nei paesi arbëreshë è una sensazione unica in quanto non si è ne turisti e ne ospiti, ma si diventa parte integrante del centro e delle attività ad esso connesse sia dal punto di vista sociale ama anche sotto l’aspetto produttivo, partecipando attivamente per essere coinvolti in un ambito familiare e di altri tempi.
Un modello dove la colazione, il pranzo, la merenda e la cena si programmano e si realizzano durante il corso della giornata, cosi come tutte le attività e le consuetudini delle stagioni in cui ci si dovesse trovare a vivere, diventa un motivo per tornare e vivere nuovi e indimenticabili momenti di condivisione.
Distanza sociale all’interno delle proprie abitazioni e vicinanza d’intenti e sensazioni che solo un paese arbëreshë può offrire, dopo che i programmi attuativi della legge“n. 158/2017” ha avuto svolgimento con le dovute misure in linea con le antiche consuetudini che hanno fatto grande i centri minori, grazie al cuore grande, che li hanno sempre distinti:
Chiesa, Promontorio, Edificato, Espansione: Kishia Bregù, Katundë, Shëshi.
Posted on 01 maggio 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Santa Sofia d’Epiro anche quest’anno è in fermento per la festa che rappresenta l’apice di coesione e credenza della comunità, nonostante le disposizioni per il Covid-19, la credenza e il valore della giornata resterà immutato.
Il ricordo quest’anno ci condurrà idealmente lungo il percorso della storica processione, fuori i confini del centro storico e le nostre menti rievocheranno lodi del Santo scritte nei versetti dietro l’immagine che ogni Sofiota porta dalla parte del cuore.
Nessuna disposizione ministeriale impedirà di cantare in casa; come anche qui nel privato dei personali perimetri, sfornare i famosissimi taralli, pur se nessun scenderà a offrirli agli instancabili portatori del Santo, tuttavia immagineremo e ricorderemo la fragranza e il sapore, che ci accompagna dalla nostra nascita.
Le strade saranno comunque ordinate più degli altri anni, perché disertate per le norme e le relative disposizioni locali; ciò nonostante, resta un dato fondamentale, le consuetudini storiche all’interno delle case non seguiranno le immutate consuetudini.
In questo Maggio del duemilaventi una novità caratterizza lo svolgersi dell’evento, nessuno in chiesa, ma tutti uniti con uguali privilegi parteciperemo alla funzione attraverso i canali multimediali, attivati, dal comitato sempre attivo e presente.
Il territorio Sofiota in questa particolare giornata sarà illuminato; una luce divina a cui non si faceva più caso e oggi torna più pregnante che mai: la luce delle tre virtù, Teolodali: la Fede la Speranza e la Carità, più sentite in un raggio multicolore di vicinanza.
I Suoni, gli Odori, le Prospettive, i Sapori e gli Abbracci dei nostri cari saranno e continueranno a essere identici agli altri anni, comunque anche se non fisicamente presenti, nella processione, i cinque sensi, forti più che mai, ci uniranno attraverso una processione condivisa, unica e irripetibile.
I Sofioti di ogni dove, in questo 2 di Maggio 2020, avranno modo di condividere lo storico appuntamento, con “il cuore o con la mente”, senza distinzione ne di luogo e ne di genere, per una volta nella storia saranno tutti uguali davanti alla statua di Sant’Atanasio il Grande.
W W W Shen Thanasi i Madë
Domani alle ore 11,00 come gli altri anni, tutti assieme dalle nostre case eleviamo in coro:
Dita jote gaz na siell,
Shën Thanàs ç’ë rri ndër qiell
parkales Krishtin për ne
si Avukati in çë’je.
Ti nderove Allesandrìn,
Ti sallvove Orthodoksin,
Qisha Të bën Kullon të par
Tij t’mban e t’venerar.
Ari i lik na kish nganuer
mos e kishe Ti kultuer,
se tek Inzot fra At e Bir
një Sustanxje esistir.
Èmri it u shprjsh mbi dhe,
me at bes çë atjè dhé;
Ari pjasi, ma kush shkoj,
kush si ti guaje duroj?
Edhe Shpirti Shënjt, Zoti in,
çë per Qishen bes, dotrin
pat ka penda Jote drit,
me atë Kristjanezmi u rrit.
Eresit per Tij si bar,
e çë si gjëmbi aren fukar,
me shkrime si thik i preve,
shiu i Shëjtëris Ti qeve.
E vërteta Të pëlqèu
më se t’mirat çë je dheu.
E pra Ti vure at gjuhë si shpat
E Mberatur luftove shtat,
Nëng ë vërtut çë ti së paté,
nd’ata gjellen sempre mate,
andaj tek Ti si ndë ndë speq
Naxjanxeni shih dreq.
Se të seguirmi besen tënde
ndëjna doren tek Ti gjënde,
e ashtu tek ëmri Tënd nga mot
doxa i jami na Tin Zot.
A SANT’ATANASIO
IL Tuo giorno ci porta gioia
Sant’ Atanasio che nei cieli stai,
prega Cristo per noi
perché nostro difensore Tu sei.
Tu Alessandria hai onorato,
Tu l’Ortodossia hai salvato,
la Chiesa prima colonna Ti pone
onorandoTi e venerandoTi
Ario l’empion ci aveva ingannato
se Tu non gli avessi ricordato
che in Dio, tra Padre e Figlio
una sola sostanza esiste.
Il Tuo nome si è diffuso nel mondo
con quella fede che lì hai dato (a Nicea);
Ario crepò, ma chi patì
e chi come Te soffrì?
Anche lo Spirito Santo, nostro Signore,
che per la Chiesa è fedele e dottrina,
dalle Tue opere luce ha avuto
e il Cristianesimo è cresciuto.
Le eresie per Te come erba furano
e come il nostro rovo soffoca le messi,
con i Tuoi scritti come lama le hai recise,
quindi pioggia di Santità Tu fosti.
E la Verità amasti
più dei beni che il mondo offre
e dopo la lingua come spada usasti
e contro sette Imperatori lottasti.
Non vi è virtù che non hai avuto
e ad esse la Tua vita hai ispirato,
perciò in Te come in uno specchio
il Nazianzeno vedeva la retta via.
Per seguire la Tua fede
porgici la mano ovunque Tu sia,
così nel Tuo nome ogni anno
rendiamo gloria a Dio.
Posted on 01 maggio 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – La straordinaria varietà di sistemi urbani presenti nel territorio italiano, ci obbliga a tentare una definizione storica, che restituisca senso ogni qual volta, si riferisce o si annotano i “centri antichi minori”.
Quando si parla di “Borgo medioevale” o di Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio rinascimentali, bisogna essere molto precisi su quale di questi sistemi aggregativi si vuole riferire, senza fare uso comunemente ed esclusivamente dell’appellativo “ Borgo”.
I riferiti di storia non devono essere intesi come elemento per sollecitare l’immaginario collettivo, fermando il tempo all’epoca delle murazioni con merlature, fossati, ponti levatoi, a difesa del castello, giacché rappresentano “comuni narrazioni diffuse”.
I borghi dalla fine del XIV secolo non avevano più ragione di essere, in quanto, iniziarono a essere edificati i modelli aperti o diffusi, come ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggi “, identificati storicamente, in senso di luogo, tempo, ruolo, adempimenti sociali più inclini a produrre economia che guerre .
Per questo è opportuno rilevare, quali hanno le caratteristiche per risvegliare “i cinque sensi”, dove gli uomini si confrontarono e trovarono l’equilibrio per vivere in armonia con l’ambiente naturale, i propri simili, a contatto con il territorio circostante.
Riguardo al termine “centro antico” va rilevato che esso individua i fuochi, attorno ai quali hanno avuto origine e poi si sono ampliati i sistemi urbani aperti, secondo le linee guida dei “Rioni” suburbani.
Il “centro antico”, non va confuso con il “centro storico” che vuole indicare l’intero sistema edilizio, compreso quello moderno, in quanto, il termine intende, ogni ambito dove gli uomini si sono confrontati per progredire nel corso e i tempi della storia.
Così anche il termine “minore”, non deve costituire aprioristicamente un parametro qualitativo, riferito a centri, secondari o di rilievo insufficiente.
Essi si presentano notoriamente, come “Sistemi Urbani Diffusi” apparentemente disposti disordinatamente, lungo gli anfratti più reconditi delle nostre regioni, ciò nonostante non sono da considerare generici è privi di significato, in quanto, rappresentano la sintesi storica delle città moderne o delle grandi metropoli, il cui prodotto primitivo è stato sovrastato da pratiche successive, tendenti a cancellare la memoria, per un’edificazione priva di aspettative naturali.
Per questo, i centri antichi minori non devono essere intesi come, minori nella definizione generale, minori nella trattazione della storia, minori nell’edificato, minori nelle architetture, minori in senso urbanistico, minori nell’economia o addirittura memore di senso inferiore.
Essi sono così appellati perché rispettano l’ambiente e il paesaggi naturale, non lo sovrastano o segnano con episodi costruiti variegati le linee generali di inviluppo naturale, mirano semplicemente a rispettare le tracciate dettate dalla natura.
Sono minori perché gli uomini che li elevarono, con saggezza e ponderazione, affiancarono la natura, percorrendo la stessa rotta nel corso dei secoli rispettando un patto di cooperazione e tutela, antico .
Ambiti costruiti che non contengono, né Colossi, ne Cattedrali o Ponti proiettati verso l’alto, giacché, i componimenti di mitigazione per consentire la vita degli uomini sono composti secondo il principio di convivenza, tra natura e uomo.
Sono questi gli ingredienti che consentono la vita nel magico luogo dei cinque sensi, in specie quello mediterraneo, il più genuino e sempre un passo avanti rispetto ad altri ambiti.
I centri, per questo, vanno considerati espressione indelebile di qualità e sperimentazione dell’uomo, in quanto, la “freccia temporale” ha depositato nello spazio costruito e naturale, l’esperienza maturata in diverse epoche, in senso di patimento, di genialità locale, di confronto e credenze.
Nei sistemi urbani diffusi di tipo rinascimentale, ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio ” contengono gli elevati civili e religiosi, la cui consistenza generalmente è caratterizzata dalle pietre offerte dalla natura una ad una, per poi essere utilizzate negli elevati costruiti.
Le stesse malte che sigillano l’unione degli innumerevoli tasselli calcarei, sono espressione cromatica giacché: sabbie di torrente, argille, calce, acqua e le travature per gli orizzontamenti e le lamie inclinate sono locali rendono il costruito una parte fondamentale dell’ambiente che nel suo quadro generale non presenta punti o note stonate.
Per questo i Centri antichi minori rappresentano l’espressione della più intima ritualità, credenza e pensiero; evoluzione delle esigenze, il segno minore della necessità sociale ed economica per l’uomo, che si adopera con il ritmo dell’ingegno locale, in tutto, l’espressione genuina del Genius Loci.
I centri antichi detti “minori”, purtroppo oggi si sono trasformati in vere e proprie “purpignere” (vurvinë), dove il fatuo ha attecchito e le “carte del restauro” sono volate via con il vento; lo stesso che un tempo accarezzava questi elevati per ripulirli e sostenerli come “luogo dei cinque sensi” .
Oggi di sovente, anzi molto spesso, i centri antichi minori, sono diventati oggetto di numerosi interventi, oserei dire pericolosi, perché prevale la tutela esclusiva dell’aspetto funzionale e cromatico, senza alcuna attenzione rivolta verso le “carte del restauro” e del consolidamento strutturale.
In altre parole si attuano atteggiamenti generali senza predisporre indagini storiche, materiche e di verifica strutturale di tutto l’isolato, quest’ultimo in specie fondamentali per queste perle di architettura, in caso di eventi naturali o indotti.
I temi citati sono alla base delle carte del restauro storico, le uniche che possono garantire la validità dell’animo, la mente e l’arte, degli esecutori; se poi ci volessimo soffermare sulle caratteristiche dei mandanti, è meglio stendere un velo pietoso e non pensare ai ricorsi della storia.
Soffermarsi a riflettere sulle azioni progettuali rivolte al patrimonio dei ‘centri storici minori’ significa, porsi almeno la domanda: cosa si voleva inventare, in più, rispetto a quanto già predisposto nelle “carte del restauro”?
Alla fin dei conti non serviva una particolare capacità intellettuale, bastava solo leggere e predisporre il progetto di restauro, consolidamento e riqualificazione, come fanno gli architetti che si occupano di questi capitoli .
Il condizionale è d’obbligo, perché, numerosi centri minori subiscono forme di degrado causato, dall’abbandono, ma ben più grave è l’incuneandosi senza rispetto, di adempimenti senza rispetto che approfittando si tratti di minore “minore” e quindi privo di forza per difendersi, compiono gesti inconsulti.
Il risultato di tali atteggiamenti, fa perdere la purezza del “minore” che attraverso la mano della burocrazia “infligge gli accadimenti”, senza che un lamento di dolore possa essere liberato da quelle intimità della storia.
Tutto ciò appare nelle vesti che i portano i segni e i colori della perdita di quel valore irripetibile, difesa da un lamento soffocato.
Ancora troppo spesso s’interviene nei nuclei storici minori, come se questi fossero svincolati dal proprio ambiente e dal proprio valore materiale ed immateriale; pur e ben chiaro, che in realtà, il luogo è necessariamente coniugato con identità e relazione, sin da quando ha inizio la minima stabilità sostenibile.
Solo quanti hanno vissuto gli ambiti minori, prima che questi fossero contaminati, riescono a riconoscerli e intercettarne i riferimenti che accomunano elevati, ambiente naturale, uomini in armonia con lo scorrere del tempo.
Comprendere la differenza sostanziale che esiste tra il “Borgo” inteso come “luogo”del comando, fortezza da cui si dipartivano le disposizioni sociali economiche, e restrizioni legali, difesi e protetti dalla solidità delle mura, per questo ben distanti dai sudori delle attività agresti di ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio “, è già un buon inizio specie se si mira a fare “un discorso nuovo”.
Notoriamente, le genti che vivevano, con non pochi patimenti, il luogo del lavoro predisponendo strategie di mitigazione e bonifica dei territori, lavorando la terra, per renderla produttiva e salubre.
I frutti, o per meglio dire il ricavato del duro lavoro, si otteneva partendo la mattina e rientrando la sera nei “Rioni” per ottenere poco meno di quanto serviva per il sostentamento, mentre la quasi totalità delle risorse finiva nelle disponibilità dei “borgatari” tramutandosi in ricchezza.
All’imposizione di realizzare murazioni più di controllo che per la difesa, attorno alla metà del XI secolo, venne preferito costruire; prima capanne in materiali deperibili (Kalive), scaturito da un nomadismo locale per imposizioni di gabelle, segui una definizione di ruoli che si tramuto in luoghi stanziali e quindi ebbero inizio le costruzioni riconoscibili nel modulo edilizio minimo, in muratura, i noti Katoj.
In epoca successiva, iniziarono le aggregazioni del modulo abitativo, per i modelli sociali ed economici in evoluzione e, gli stessi moduli furono ampliati nel tempo e costruite con materiali locali e con tecniche più sicure.
Quando l’insieme aggregativo non consentì più di utilizzare territorio storicamente circoscritto, i moduli abitativi, iniziarono a svilupparsi verticalmente, e per il frazionamento della discendenza si aggiunge il profferlo, aggregando volumi di parentela o di nuova acquisizione.
Una sequenza costruttiva secondo un edificato storico ben delineato, attuato in tutto i centri storici minori, che si dispongono in senso “articolato” rispettando sempre l’orografia del lotto.
Lo stesso avviene in epoca più tarda, quando dal XVIII secolo, il modulo base è aggregato in forma lineare, ripercorrendo la metrica identica nel lungo termine.
Una sequenza costruttiva diversa da come capita oggi, per un qualsiasi manufatto edilizio abitativo, che si progetta e si realizza nel tempo di un anno solare o poco meno, diversamente da come si sono sviluppati i manufatti dei centri antichi minori, in cui all’elevato di base erano aggiunti elementi costruiti secondo le esigenze delle epoche, terminando la fabbrica nel corso di poco più di quattro secoli.
Ogni azione progettuale che si aggiungeva ripristinava l’originario senso nel rispetto dell’esigenza del gruppo familiare, così com’è giunto sino a noi.
La lettura delle esigenze delle varie epoche, racconta la storia di quel territorio e dei centri antichi, motivo per il quale devono assolutamente essere indagati rispettando l’intimità costruttiva del rapporto identità/qualità.
E soprattutto nel tessuto ricadente all’interno del centro antico “minore”, che la scena urbana mette in risalto esigenze di contestualizzazione e costringe ad atteggiamenti capaci di innescare un vero processo di riqualificazione nelle soluzioni operative, nelle procedure di gestione e in quelle di controllo.
Non riconoscere e, di conseguenza, non rilevare quali siano i valori storici, estetici e materici del patrimonio architettonico dei piccoli centri, significa seguire variabili sociali, culturali ed economiche senza porsi il problema di progettare per la continuità storica del manufatto e del paesaggio.
Il fine progettuale deve seguire la linea: ieri, oggi e domani, secondo un’impronta sempre riconoscibile delle tappe sociali ed economiche, in tutto della conquista del benessere diffuso e deve diventare sfida, per la qualità del tessuto urbano, secondo le caratteristiche ritrovate.
Solo in questo modo la scena urbana può essere riconosciuta nell’identità tipica del luogo; non come singolo monumento che prevale e si distingue dal resto del paesaggio urbano.
Riconoscere i centri storici minori come modello di qualità è la finalità da perseguire, solo con temi finalizzati e concernenti la valorizzazione dell’insieme luogo, può tutelare il nostro patrimonio culturale.
Recuperare le risorse e le energie per tutelare e salvaguardare un immenso patrimonio storico dei piccoli centri, i quali altrimenti rischiano di scomparire per incuria o di essere ‘banalizzati’ o spogliati di significato, a seguito d’interventi, detti di ‘recupero’.
Ciò alla luce di adempimenti ormai abbastanza diffusa dove prevale la consapevolezza che la tutela di questo patrimonio diffuso sia un campo di semina per i figli dei re dell’architettura, gli stessi che per essere credibili si presenta non con il cane al guinzaglio ma “alberi” immaginando quello che la natura non ha mai osato proporre all’uomo.
È altresì evidente che intervenire in ambiti cosi estesi con la metrica del restauro, richiede doverosamente di circoscrivere e identificare zone omogenee, intercettando le tipologie edilizie, i materiali utilizzati negli elevati murari, degli orizzontamenti e nelle coperture.
Un ‘indagine condotta ed eseguita con dovizia di particolari (senza essere distratti dalle irrequietezze degli alberi al guinzaglio) secondo ‘le regole dell’arte locale’, in altre parole creare una “logica del luogo” per interventi ‘strategici’ che puntano a rimuovere i fattori che hanno generato il degrado, recuperando o rinvigorendo un rapporto di ‘necessario’ tra manufatto, contesto circostante, paesaggio e uomo.
Per tanto è indispensabile che l’emergenza architettonica dei “centri antichi minori” diventi espressione di un processo più ampio di tutela e riqualificazione, esteso al paesaggio e come cerchi concentrici che partono dal tessuto urbano armonizzano il paesaggio circostante .
Recuperare il rapporto necessario al paesaggio, che corre tra edilizia storica minore, tessuto urbano e visione connettiva del paesaggio, fa la differenza nel progetto di valorizzare il patrimonio che ha iniziato pesante mente a sgretolarsi.
Leggere con attenzione la morfologia dei luoghi, analizzare con diversi livelli di lettura contesti apparentemente marginali, richiedono particolare attenzione e conoscenza del carattere storico-architettonico locale, le operazioni conoscitive non si devono trasformino in passive e acritiche catalogazioni di situazioni edilizie.
Oggi osserviamo nascere le ”città nuove” (News Town) quale esperimento abitativo di eventi naturali o indotti, partoriti deformi di sintesi e freddi presupposti urbanistico/catastali o tecnicismi storici senza alcuna formazione culturale che per questo sono incapaci di offrire l’equivalente prodotto, con le radici localmente evoluta nel luogo naturale, imbibita nelle particolari acque.
Diversamente dalla storia dei centri antichi minori, che senza fretta, quindi molto lentamente, procedono accumunando magicamente gli elevati, le strade, gli spazi, definendo gli itinerari che s’incrociano e si mescolano, in un insieme di scambio di parole condivise; la solitudine si dimentica perché “i cinque sensi” ti riportano a casa e ciò che vedi e ciò che avverti, è il tuo luogo di appartenenza, lo scenario di luce, dove ha avuto inizio la tua storica identità.
Questo è il segno che il progettista, (senza natura al guinzaglio) ha fatto un buon lavoro; il luogo dei “centri antichi minori” ha ripreso a battere il suo tempo, in senso di odori, sapori, prospettive e suoni; la vita continua, è tempo di sedersi, davanti casa, non c’è fretta, a breve passerà chi ti riconosce e avrai modo di conversare: “in arbëreshë”.
Posted on 27 aprile 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – Oggi si discute sui processi che hanno condotto la nostra società a frammentarsi, rendendo gli ambiti costruiti e il vissuto non più sostenibili; alla luce di ciò, si vuole proporre un adempimento per una soluzione urbana sia organizzativa e sia sociale, prescindendo dai risultati della ricerca in campo scientifico riguardo il Covid-19.
Questa breve trattazione vuole esporre il risultato di un progetto a lungo approfondito, per questo si ritiene possa rispondere, rinvigorendo i percorsi urbanistici, architettonici, sociali ed economici, indispensabili a ricollocare il sistema produttivo e residenziale nei centri minori collinari del meridione.
Un progetto possibile, nel medio termine, che impegna i temi del modello, che nei secoli hanno reso possibile all’uomo la continuità del genere umano, oggi tornati indispensabili, vista le emergenze, specie nei grandi centri urbani, città capoluogo e metropoli in specie.
Prima di addentrarci nel nocciolo di questo discorso, è opportuno precisare che tratteremo di Casali, piccoli centri urbani collinari, di una specifica e ben identificata fascia mediterranea, in maniera più dettagliata, i cento paesi del meridione della regione storica diffusa arbëreshë; denominati “Katundë” unitamente al relativo modello sociale/economico, noto come il “luogo indefinito dei cinque sensi”: Gjitonia.
Questi centri riedificati e ripopolati dal XV sec. offrono l’idonea sostenibilità sociale ed economica, che a suo tempo venne penalizzata dal modello “Borgo medioevale”, cosi come oggi, non hanno capacita di affrontare l’emergenza, i nuclei metropolitani, sovraccaricati da abitanti e le relative attività lavorative.
Il borgo notoriamente è catalogato tra i modelli urbanistici chiusi e riconosciuti anche come sistemi urbani monocentrici, identificati nel frenetismo delle frammentate attività, diversamente dai “Katundë diffusi” o policentrici, come gli impianti simili denominati Casale, Frazione, Paese e Pieve, in quanto, sistemi aperti mediterranei.
Insediamenti che nascevano nelle aree agricole fuori dalle murazioni dei borghi, questi, così organizzati miravano, con l’isolamento murario a detenere il potere politico economico e giuridico dei territori circostanti oltre a essere sede mercatale; l’esatto contrario dei “casali rinascimentali”, innalzati secondo principi policentrici, più a misura dei gruppi familiari che vi trovavano dimora perché meglio articolati per le attività economiche.
Sono questi, nel corso della storia, che con semplici consuetudinari debellarono malaria, peste e ogni genere di emergenza/calamita, perche, in simbiosi con l’ambiente naturale.
Il borgo e le sue murazioni se da un lato erano in grado di difendere quanti entro di esse si asserragliavano dagli uomini, quando il nemico diventava invisibile come le emergenze sanitarie, si trasformavano in vere e proprie prigioni da cui era difficile fuggire; cosi come oggi le città e le metropoli, sono una garanzia di vita comoda, ma quando il nemico diventa invisibile si trasformano come trappole da cui è difficile poter provvedere e trovare soluzioni.
Il modello di epoca rinascimentale può essere un esempio da ripresentare con le dovute applicazioni tecnologiche, per le emergenze; emigrare e vivere a debita distanza dai Borghi (Città e Metropoli) e le loro pertinenze mercatali, arterie stradali principali, consentono di porre in essere misure adeguate per allontanare gli uomini dai pericoli invisibili.
Una diversa distribuzione di spazi privati e pubblici, sommati alle attività e direttive sociali consuetudinarie, potrebbe dare origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolo buio del Medioevo con le “città chiuse”, dando luogo all’insieme policentrico dei “rioni aperti” del Rinascimento.
I Katundë arbëreshë (Casali Paesi e Pievi) oggi sono il modello economico e sociale da riproporre, in quanto dilata le griglie sociali con parsimonia e nello stesso tempo rende ogni addetto, nodo fondamentale e indispensabile, in tutto, una società in cui la capacità individuale diventa l’elemento di una catena trainante e infinita.
Gruppi familiari allargati in cui la verifica, continua, non lasciano spazio al caso, in quanto, nessuno degli elementi può sottrarre dal portare a termine il suo ruolo, penalizza tutto l’insieme allargato, il gruppo, la fabbrica e l’economia.
Il modello gjitonia rappresenta una società, una piccola azienda a conduzione familiare allargato, ogni componente vive e produce in base alle sue capacità porta il suo contributo per la produttività finale del gruppo di cui fa parte e trae benefici.
Il sociale è organizzato all’interno di uno spazio indefinito, filiera dove nessuno è trasversale agli altri, lo spazio comune di vicinanza, confronto è il “luogo” (Ka) shëshi, (largo) nei sistemi aggregativi articolati e diventa strada/ilvico (Huda/rrruga) in quelli lineari.
Ogni famiglia urbana ha il suo spazio fisico ben definito, delimitato e senza barriere; nessuno oltrepassa o viola i limiti consuetudinari di questi ambiti, noti come: pertinenza dell’ingresso, il profferlo o la relativa scala, (për para deresë, baliaturì, thëghëruitura e shëpishë) .
Per questo diventano luogo di relazione con il resto degli abitanti; solo la strada appartiene a tutti, qui bisogna restare per conversare, salutare o rendere rispetto agli anziani, salvo l’invito formale di avvicinarsi o entrare.
I Rioni conservano indelebili le caratteristiche abitative dei razionali ed efficienti moduli abitativi, e ognuno di essi associato indelebile all’indispensabile “orto stagionale” o per meglio dire “orto botanico”, fondamentale elemento da cui ha origine il principio alimentare del km/0.
Un microsistema sostenibile e green, che non produce rifiuto, giacché, le diversità ortofrutticole si raccolgono con ceste in vimini senza alcun tipo di altro contenitore ne cartaceo ne plastico, ogni cosa viene consumata e i resti riciclata e diventano concime in apposite fosse del citato orto.
Il modello se opportunamente tradotto, potrebbe essere fondamentale nei sistemi produttivi, attraverso la frammentazione dell’indotto industriale, tanti piccoli sezioni produttive contigue, che si mettono insieme in seguito nella grande industria globale.
Quest’ultima non più intesa come grande concentrazione metropolitana, ma come espressione produttiva diffusa tipica dei “Katundë arbëreshë”; che si è visto terminare la sua essenza di confronto tra uomo e natura.
Dare risalto alla cultura contadina, rivalutandola, in quanto fondamentale per il vivere quotidiano, come avvenne nei processi d’inurbamento, oggi non più sostenibili perche elevati sulla base di controllo delle dinamiche all’interno delle nuove mura; quelle del pensiero.
Oggi ritroviamo la stessa politica nei centri antichi sia delle città metropolitane e sia dei piccoli centri, ormai svuotati di significato e coesione sociale, scompaiono perche preferiti ai grandi contenitori commerciali, i dormitori senza futuro o centri direzionali.
Occorre ricongiungere famiglia,, luogo, vicinato, attività nei centri antichi non promuovendo alchimie turistiche, centri direzionali in luogo economico, quartieri per dormire, piazze e botteghe come centri commerciali, scuole in cittadelle de localizzate, un’insieme differenziato.
Servono modelli che contengono economia, cultura e confronto sociale, invece di concentrare frammenti dell’insieme città aperta distanziando gli elementi fondanti, bisogna attingere dal passato, dei centri antichi, ricollocando il modello sociale mediterraneo.
Parliamo del vicino di casa, quando non era anonimo, estraneo, turista sfuggente, ma figura fondamentale ed extra familiare, integrato, residente, e parte attiva per il futuro sostenibile del “Luogo” quello capace di avvertire i cinque sensi, per sentirsi nel contempo indispensabile fulcro, unità di misura.
Rivitalizzare “i centri antichi rinascimentali” valorizzarli, caratterizzarli nel senso identitario, è la via per avviare il processo mediterraneo, lo stesso che rese famose le terre a esso prospicienti; mete ambite nel corso della storia, non per essere conquistate e distrutte, ma preferite per essere vissute.
Il segreto è racchiuso nel concetto di Gjitonia, l’unica a garantire adeguate risposte a eventuali emergenze, ma più di ogni altra cosa, fornire opportunità di vita meno caotica, quella in misura ideale per gli uomini.
Posted on 24 aprile 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli ambiti storici della regione diffusa arbëreshë dai tempi in cui si consolidarono e riconosciuti dalle autorità civili clericali locali, furono sottoposti a ogni sorta di angheria, che li uniformasse nel bene o nel male agli indigeni locali secondo i relativi latinismi di credenza.
Prima il confronto con i locali, poi le lotte con i preti latini, sommati all’inutile necessità di dare una forma scritta, nel corso dei secoli hanno perennemente minato l’esistenza della storica minoranza.
Le altalenanti vicende che vedono minare nell’ordine religione, consuetudine, metrica canora e idioma, non hanno mai terminato e imperterrite, per imposizione altrui e di sovente per l’inesperienza arbëreshë hanno reso vulnerabile le diplomatiche più intime, di questo gioiello sociale mediterraneo.
Gli eventi che vedono gli arbëreshë tra il XIII e il XVIII secolo sono riferibili a una chiusura sociale che se da un lato penalizza la credenza religiosa, dall’altro rafforza gli altri elementi impenetrabile e senza lati morbidi da poter affondare.
È nel corso del mille settecento che con l’istituzione del Collegio Corsini e il conseguente desiderio di annotare il rito bizantino con esperimenti letterari e liturgici di un idioma mai scritto, che allargano pericolose brecce dove poi avviene la costante infiltrazione sperimentale:la pericolosa deriva ancora in atto.
Il collegio di Sant’Adriano in Calabria citeriore e la Capitale partenopea diventano i poli, dove in diversa misura, si attuano gli espedienti, alcune volte a favore, ma di sovente contro la difesa dell’inestimabile patrimonio immateriale.
Esiste una massima che dice: “quanti restano dimentica chi parte ricorda”, questo in effetti è quanto è stato prodotto relativamente alla tutela dell’intera Regione Storica Diffusa Arbëreshë.
Ad iniziare dalla metà del settecento e sin tutto l’ottocento si forma una classe dirigente a Napoli di radice arbëreshë e se il Baffi semina dal 1762 un seme, la pianta germoglia e nel corso di tutto l’ottocento nasce un fronte di tutela della minoranza storica solido coeso e intelligente: Lulëzuertitë Arbëreshë.
Il fulcro diffuso, di questa nuova era, sono le stamperie, gli uffici e la residenza di Vincenzo Torelli, che vivendo da emigrato le necessità della regione storica, lega tutti gli arbëreshë che si recano a confrontarsi e proporre progetti, di sintesi editoriale, salutandoli con la storica frase da lui così compilata: jaku i sprischiur su harrua.
E chiaro il punto di vista fuori dagli ambiti della regione storica, anche se la capitale partenopea per il suo operato, mette a confronto eccellenze, in campo letterario, poetico, musicale, della scienza esatta, lo studio del territorio e le politiche di rinnovamento oltre a tanti “inventori” di una lingua scritta e per questo continuamente corretta nella capitale partenopea.
Avendo ben chiaro, luoghi e quali uomini di alto rilievo si siano confrontati, per consolidare gli elementi caratteristici della regione storica, consente di affermare con certezza che, mai più nella storia degli arbëreshë tante discipline hanno fornito un contributo di sostenibilità cosi’ solido.
Architetti, Giuristi, Magistrati, Ingegneri, Politici, Letterati, Analisti di Musica e Canto, quindi di altissima e indubbia eccellenza, hanno, tutti in egual misura, fornito la linfa ideale con cui imbibire la radice minoritaria, in tutto il XIX secolo.
A seguito di questo florido intervallo, raffigurabile in una distesa i di grano a perdita di vista d’occhio pronto per la mietitura; non ha avuto seguito più nulla e la tutela della minoranza storica si è ristretta a orto di primavera, riservato a insoliti parlatori, musicanti e colerici di radice alloctona, sostenuti da consuetudini dell’est; le stesse che oggi non sono in grado di superare le soglie delle case arbëreshë e tanto meno alimentare i focolai, centro nevralgico della gjitonia.
È opportuno che questi figuranti della nuova era, inebriati dai vapori estivi prodotti dall’aceto letirë, scambiato per “vino Arbëreshë”, oltremodo convinti che; nenghë kindroi fare gjhë; siano lasciati al loro destino di non credenti.
Meglio dedicarsi a condividere le eccellenze storiche con quanti di buon ingegno e capacità di lettura sanno che la regione storca arbëreshë diffusa, è un modello irripetibile, la stessa che rigenera identicamente e con sempre più vigore, alla luce del enunciato: il sangue sparso non muore mai e ogni estate rinasce fiorente.
“Gjaku i shëprishur nëng vdes e nga ver lulëzon”
Sara una semplice impressione ma più il tempo passa e più emergono elementi materiali e immateriali secondo cui; solo chi nasce e coltivala il suo valore aggiunto fa cose buone e segna la storia, gli altri, si perdono nei noti affluenti “torrentizi” alla sinistra del fiume Crati, poi la corrente vorticosa come dai tempi dei romani li porta lungo la piana di Sibari a macerare, prima di diventare anonimi frammenti al mare.
Nella Foto, Vincenzo Torelli da Maschito (PZ)
Posted on 23 aprile 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Anche quest’anno si è in fermento per la festa che rappresenta l’apice di coesione e di credenza di tutta la comunità Sofiota.
Il ricordo va a tutti i nostri cari che nel corso dei secoli hanno reso possibile tutto ciò e, allora come oggi nell’approssimarsi del due di maggio, si prodigavano per rendere questo momento di credenza condivisa unico e irripetibile.
La Festa sempre intensa e colma di valori, ogni anno con una caratteristica che precisa torna alla mente e il ricordo va ad ognuno di loro che sono tanti.
Si sfornavano ceste di taralli, per ben accogliere le visite di rito e di amicizia, o scendere di casa, nel corso della processione e offrirli, numerosi, come sostegno ai fedeli in penitente devozione.
Si ordinavano le strade, si adornavano finestre, balconi e loggiati, con essenze floreali e si stendevano raffinatissime coperte.
Ogni anno l’evento era caratterizzato o per meglio dire caratterizzato con novità pianificate dalla brillante, radicata e preparata Commissione , la quale atteso cil consenso univoco della popolazione, si adoperava per porla in essere diventando l’elemento pregnante di quell’anno, quello che va in oltre sottolineato: in esclusiva forma devozionale.
L’operosità e l’inventiva produsse gli indimenticabili moduli illuminotecnici, fatti con chiodi, ferro filato, una tavola di legno e portalampada a vista, furono questi apparati che volto nuovo alle quinte del paese, durante la notte grazie i piccoli contributi energetici attinte da ogni famiglia per devozione.
Come l’anno che volle dare al paese una pigmentazione mediterranea, dipingendo a calce, le quinte delle case dove sarebbe transitata la processione, comprese quelle della piazza: producendo così una nuova prospettiva cromatica.
Altri anni si preferì attivare le risorse addobbando la chiesa, con arazzi e tendaggi per dare senso al sacro volume in tono caldo e sontuoso, (la chiesa a quei tempi era priva dai preziosi dipinti della scuola cretese).
I multicolori Palloni, intelligenti opere realizzate con pochi e rudimentali apparati; carta velina, colla di farina, ferro filato, resti di candele e pezzi di sacchi in canapa.
Gli stessi che nel corso dei decenni, sono divenuti un vanto in tutta la provincia, grazie alla caparbietà di quanti hanno continuato a realizzarli con il compito di lasciare la memoria ell’operosita alle nuove generazioni.
Ricordo la funzione religiosa (mèsha llalbit), che l’instanzcabile “Zoti Kappa” la mattina del 23 aprile, primo giorno delle novene, ufficiava nella Kona.
Immancabilmente la mattina del ventitre mia madre, Adolina Kongorelit, di buon ora, iniziava la vestizione delle Stolje senza nulla lasciato al caso, come tradizione arbëreshë pretende e scendeva quando si sentiva chiamare da Marja Vukastòrtit, e avviarsi a piedi verso la Kona, in compagnia di altre afferrate e garbate devote, è d’obbligo ricordare: Melina Ngutjt, Serafina Kurthëvet, Annetta Abelith, Anmaria Pasionatit, Koncetta Miluzith, Rusaria Pixhònit, Martoresa Timbunit, Vittorina e Lilina Zingaronit, capeggiate da suor Melania e le sue consorelle.
Esse si dirigevano verso la Kona ove li attendeva l’indimenticabile Padre Capparelli assieme al fedelissimo Benito Fabbricatore (i bëri Mindìut) e al canto di Djta Jote iniziavano le lodi al santo e la funzione religiosa.
Non so se oggi questa tradizione si ripete o è stata accantonata come tante altre, ma l’entusiasmo e la convinzione che queste donne avevano sono rimaste radicate nei valori e nella credenza che i Sofioti hanno nei confronti di Sant’Atanasio.
Mi auspico che quest’anno rimangano fuori dalla chiesa gli inni e le lodi da stadio che il saggio Archimandrita Giovanni Capparelli ha sempre rifiutato e richiamato la popolazione intera a non esternare all’interno del sacro perimetro, dove esortava tutti a cantare gli inni religiosi e BASTA!
Mi rivolgo alla Commissione, affinché questa FESTA conservi gli opportuni caratteri religiosi, con l’auspicio che gli insegnamenti del saggio Padre Capparelli , oltre a quello delle devote sofiote che hanno sicuramente lasciato il senso della festa e non vadano calpestati da quanti non hanno la misura di cosa unisce il Santo alla Comunità o magari lo ignora del tutto.
Per le disposizioni clericali laiche quest’anno non daranno spazio ai consuetudinari riti fuori e dentro il perimetro dal cuore del paese, nella Kona, o durante la storica rievocazione dell’estate arbëreshë dal Ottava rispettosi delle limitazioni imposte.
Tuttavia si spera che gli adempimenti all’interno e all’esterno del perimetro religioso siano attuati, dalle persone figlie e figli del garbo e con senso della devozione, e non preferiti quanti hanno sempre vissuto ai margini, perché bravi a fare come il diavolo, tutto subito e male, a scapito della credenza che vuole i tempi della metrica e la consuetudine.
Sant’Atanasio unisce storicamente tutti i Sofioti il due Maggio: quest’anno la processione sarà unica e irripetibile in quanto raccoglie allo stesso modo tutti noi fedeli credenti.
Tutti i Sofioti del mondo nel 2020 avranno modo di condividere quest’appuntamento in forma irripetibile, con “il cuore o con la mente”, senza distinzione ne di luogo e ne di genere, per una volta nella storia saranno tutti uguali, sin anche chi a Napoli per imposizione veshëkavile deve badare alle proprie cose.
W W W Shen Thanasi çhëshë i Madë!!!!!
Posted on 22 aprile 2020 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La minoranza storica arbëreshë nel corso della storia del mediterraneo, ha espresso il valore innato, nel predisporre modelli sociali economici, che poi sono oggi l’espressione delle città moderne o dette, metropolitane.
Le stesse che poi in seguito ampiamente dimostrate, a quanti abituati a vivere di espedienti senza radice, gli oppositori di queste idee innovative, nonostante anche essi avranno, prima o poi, modo di beneficiarne in senso di applicazioni sociali, politiche, economiche e della scienza esatta.
Gli arbëreshë notoriamente sono ricordati, semplicemente, per le vicende di confronto e scontro, sia in terra natia e sia negli ambiti paralleli della regione storica del meridione italiano, dal XIII secolo.
Qui in questo breve si vogliono distinguere le categorie sane dalle “litirë” le stesse che non saranno ricordati come prescelti se non per essere stati capaci di produrre danno, danno e solo danno.
Questi ultimi nelle narrazioni diffuse, appaiono descritti senza cultura, similmente agli animali che per difendersi dal freddo non usano l’intelligenza ma attendono che la natura li munisca di peluria o altro apparato naturale di equilibrio corporeo, come ad esempio, artigli e la mala lingua, per soddisfare il bisogno di alimentarsi.
La natura degli uomini, si può riassumere in una serie infinita di linee parallele, ciò tuttavia, allocare gli arbëreshë in tipologie cosi estreme, non è esatto, anche se per certi versi quando si subiscono le angherie di quanti, vestendo giacca cravatta e guanti, nascondono la peluria e gli artigli, forse un’icona parallela dove intercettarli sarebbe il caso di evidenziarla per riconoscerli.
Come per esempio l’affascinate idea di illuminismo moderno della “Regione storica diffusa arbëreshë” e il progettato polo di valorizzazione, in cui far convergere necessariamente, teoremi e direttive da sottoporre al vaglio di un gruppo multidisciplinare.
Il progetto per la tutela della minoranza arbëreshë, assieme ad altri pronti per essere innalzati, sono stati preparati, senza che nell’arco di venti anni, nessuno di essi sia andato a buon fine; “OPPOSIZIONI” di varia natura, ne hanno impedito la diffusione.
Alla luce dels clima politico, che nel corso degli anni pur se profondamente mutato, è rimasto solidamente ancorato al suffisso cultural-economico, imponendo la costruzione di un istituzione di falsi cultori, gli stessi che affrontano l’inverno con la peluria cresciuta naturalmente, per difendere se stessi e il loro ambiente naturale cavernicolo.
Se non si corre ai ripari, è normale che poi a difendere la credibilità arbëreshë, non rimane altro che rivolgersi a imperterriti cavalieri dell’architettura e dell’urbanistica, figli di quella rara consuetudine che cura e conosce gli ambiti attraversati bonificati e innalzati dagli arbëreshë.
Diversamente dai tuttologi per gli atteggiamenti acquisiti, non riescono sin anche di attraversare il Surdo e il Settimo, ormai in secca, per partecipare alla disputa, che ha luogo nella Chiana, sotto le pendici della mula, dove i litiri dall’alto dei loro tacchi a spillo, dicono di saper fare i paesi arbëreshë con le gjitonie dentro.
Sono fieri sui loro cavalli, quanti usano le proprie capacitò intellettive, predisponendo gli idonei apparati, costruiti e innalzati, nel rispetto dell’ambiente, del tempo e degli uomini, secondo disciplinari realizzati dalla intelligenza, quella storica conservata nel cuore e nella mente, senza sprecare energie per tenere in vita l’apparato digerente.